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INTERVISTA a LUCA VEGGETTI - a cura di Michele Olivieri

Luca Veggetti. Foto Terry Lin Luca Veggetti. Foto Terry Lin

Luca Veggetti, Coreografo/Regista. Nato a Bologna nel 1963. Formatosi alla Scuola di ballo del Teatro alla Scala di Milano, dopo una carriera internazionale come danzatore, inizia nel 1990 la sua attività in qualità di coreografo e regista. Esplorando forme sperimentali che spaziano dal teatro di figura, alle nuove tecnologie, al video, all'installazione, il suo interesse per la musica contemporanea lo porta a sviluppare collaborazioni con compositori come Kaija Saariaho, Toshio Hosokawa, Sylvano Bussotti e Paolo Aralla. Il suo lavoro è stato prodotto e presentato dai maggiori teatri, festival e compagnie del mondo, così come da musei e istituzioni quali Works&Process at the Guggenheim, The Drawing Center, la Cite' de la Musique di Parigi, Suntory Hall a Tokyo, la Japan Society a New York, The Metropolitan Museum of Art, Mart. Tra le produzioni più recenti e degne di nota: la prima mondiale della versione completa di "Oresteia" di Iannis Xenakis al Miller Theater di New York in co-produzione con Works&Process at the Guggenheim, una serie di creazioni per la Martha Graham Dance Company, il balletto a serata intera "Maa" di Kaija Saariaho a New York, Parigi e Helsinki, le installazioni/performance "NOTATIONOTATIONS" per il Drawing Center a New York e "Scenario" per il Festival Oriente Occidente al Mart di Rovereto, le regie per le opere di Toshio Hosokawa Hanjo in prima Giapponese al Suntory Hall e Italiana al Festival Mito, "The Raven" in prima americana per la Biennale di nuova musica dei New York Philharmonic, "Vision of Lear" a Hiroshima e "The Tempest Songbook" di Kaija Saariaho al Metropolitan Museum of Art di New York. L'ultima creazione "Left-Right-Left" è una co-produzione tra il Teatro Noh di Yokohama e la Japan Society di New York.

Gentile Luca, mi racconti gli anni trascorsi alla Scuola di Ballo della Scala dal tuo osservatorio?
Sono stati anni meravigliosi, anni di formazione che appartengono al tempo magico e sconvolgente dell'adolescenza. Fu la conferma di una vocazione, quella teatrale, apparsa a dire il vero già molti anni prima, da bambino, quando i miei genitori che l'avevano in qualche modo avviata, fecero tutto quello che era umanamente possibile fare per che io potessi seguirla, arrivai così grazie a loro alla Scuola di Ballo della Scala. Alla fine degli anni Settanta la scuola si trovava ancora all'interno del teatro, un luogo incantato che mi ha da subito aiutato a capire il difficile rapporto tra il talento che ci è dato e la passione che ci anima, il valore dell'uno rispetto all'altra e quello che si deve affrontare perché il primo possa svilupparsi in funzione della seconda. Un universo di meraviglie dove la cultura, l'arte e la magia erano per me una cosa sola, e dove gli eroi che lo popolavano erano in egual misura i grandi personaggi che vi transitavano, da Rudolf Nureyev a Giorgio Strehler a Carlos Kleiber, così come le varie maestranze e tutti i miei insegnanti, o i vigili del fuoco che ci invitavano il sabato a guardare la televisione nel loro piccolo locale attiguo al palcoscenico. Un ricordo straordinario sono gli spettacoli di balletto visti dalla buca del suggeritore, che naturalmente in quei casi rimaneva vuota, si era in scena rimanendo invisibili, una postazione privilegiata che ha avuto come prezzo un sortilegio da cui non sono ancora uscito.

Un ricordo e pensiero personale per la direttrice d'allora, la Signora Anna Maria Prina?
Essendo la figura di riferimento di quegli anni così importanti, non posso che avere di lei un ricordo pieno di affetto e riconoscenza. Ogni volta che mi capita di incontrarla, per quanto mi sforzi goffamente di darle del tu, senza tra l'altro riuscirvi, la memoria di quegli anni prende il sopravvento, per me rimarrà sempre "la Signora Prina".

In quale occasione hai calcato per la prima volta il palcoscenico da allievo?
Fu di sicuro su quello minuscolo ma glorioso della Piccola Scala.

Mentre le maggiori esperienze su quello principale del Piermarini?
L'ultimo anno di scuola quando come allievo partecipai a diversi spettacoli del corpo di ballo, in particolare "Romeo e Giulietta" nella produzione di Rudolf Nureyev, un danzatore leggendario che conobbi proprio in quegli anni e con cui rimasi in contatto fino alla sua morte. Poi il periodo più recente degli anni Novanta quando tornai nel teatro come aiuto regista e coreografo in numerose produzioni d'opera di Pier Luigi Pizzi, di cui ero assistente.

Dopo il diploma scaligero la tua carriera ha preso l'avvio in compagnie prestigiose all'estero, tra cui il London Festival Ballet, il Pennsylvania Ballet e il Ballet Chicago. Cosa ne hai tratto a livello personale, artistico ed umano?
Tutte esperienze importanti, specie quella del "London Festival Ballet", oggi "English National Ballet", una grande compagnia con un altissimo numero di spettacoli all'anno.

A un certo punto della tua carriera ti sei totalmente allontanato dall'ambito del balletto, e ti sei orientato verso una forma di teatro totale mediante la musica contemporanea e la collaborazione con i compositori come assi principali del tuo interesse. Da cosa è dipeso questo cambio di rotta?
Non è stato un cambio di rotta ma semplicemente lo sviluppo naturale del mio interesse verso l'arte del teatro. Dalla notte dei tempi esso ha nella musica e nel movimento i suoi principali elementi. Non mi sono allontanato tanto dal balletto quanto dal contesto culturale e produttivo in cui si esprime come forma.

Oggi ti dividi, con successo, tra regia di opere contemporanee, teatro, coreografia, teatro di figura, installazioni, video, e a volte tutto questo assieme. La Tosca di Puccini "visse d'arte" mentre tu Luca "ti nutri d'arte"?
Di sicuro l'arte nutre da sempre la mia vita interiore, e dalla maggiore età per mia fortuna anche quella materiale!

Mi parli della tua ormai consolidata e nota collaborazione con il compositore Paolo Aralla?
Un rapporto prezioso, Paolo è più che un collaboratore, è un compagno d'avventura, un fratello. Il nostro lavoro comune ci ha portato ad esplorare territori che si sono rivelati fertili per entrambi, sia nel campo musicale che in quello coreografico e teatrale. Ogni nuovo progetto è da subito un'occasione per riflettere sulla forma, sui mezzi necessari per esprimerne il contenuto, sul come creare musica attraverso il movimento e viceversa. Dal 2005 ad oggi abbiamo creato assieme una serie di lavori che spaziano tra i generi più diversi e nei luoghi più disparati, dai teatri e i musei di New York agli spazi spesso straordinari e bellissimi di vari festival in Italia.

L'elenco delle tue partecipazioni è lunghissimo, tante prestigiose compagnie e tanti teatri carichi di storia e di fascino. Nella scelta sei un istintivo o pianifichi il tutto in base a quali criteri?
Né l'una né l'altra cosa a dire la verità, semplicemente mi sposto in funzione di dove ho la fortuna che il mio lavoro venga prodotto e presentato.

Parlami della tua prima coreografia e dell'ultima? C'è un file sottile che lega ogni tua creazione?
La mia prima creazione coreografica per una compagnia di livello fu "La Chanson de Melisande" per il balletto dell'opera di Nizza, uno degi ultimi lavori è "Pelleas et Melisande", una creazione di teatro di figura per lo straordinario teatro di marionette di Central Park a New York, uno dei prossimi sarà un lavoro sullo stesso Pelleas e Melisande di Arnold Schoenberg per il balletto del teatro di Oldenburg. L'impulso che crea il primo lavoro può avere una potenza che va ben al di là dell'occasione iniziale...

La musica su che piano la poni come "importanza" nel lavoro?
Mi è impossibile dire quanto la musica sia importante per me, nella mia vita e nel mio lavoro, ciò è di fatto qualcosa di incommensurabile. La musica ha però anche un ruolo più diretto: da sempre cerco in altre arti principi organizzativi che mi aiutino a creare strutture interessanti e complesse, in questo senso forse niente mi insegna di più della musica.

"Vivo e Coscienza" di Pasolini (personaggio "importante ma distante dai ventenni di oggi"), un suo testo incompiuto e scritto appositamente per la danza, da cosa sei partito per l'ideazione? Tra l'altro lo spettacolo è nato a Milano presso la Paolo Grassi che lo ha anche co-prodotto, su invito di Marinella Guatterini...
"Vivo e Coscienza" è stato un lavoro importante, un momento chiave nella mia carriera, nato in un luogo e con gente che amo in modo particolare, lo devo all'intelligenza e al coraggio di Marinella. Il punto di partenza è stato ovviamente il testo di Pasolini e le immagini che ne scaturivano. Con Paolo Aralla abbiamo esplorato la particolare relazione che poteva esistere tra il testo, la voce fuori campo – quella straordinaria registrata per l'occasione del poeta Francesco Leonetti, vecchio compagno e amico di Pasolini – l'azione scenica e la coreografia. Lo spettacolo viveva esattamente in questa opposizione, quella tra la voce del vecchio poeta e la presenza in scena di danzatori molto giovani. Devo a Marinella anche la partecipazione di Leonetti, suo insegnante e amico.

La tua città è Bologna, cosa ami di lei in particolare?
Amo tutto di Bologna, i suoi luoghi, la sua gente, la sua straordinaria accoglienza. Il tornare al Teatro Comunale nel 2018 con un progetto molto importante che coinvolgerà tutta la città (Kraanerg di Iannis Xenakis), è qualcosa che ha ovviamente un significato molto particolare, per me, per la mia famiglia, per i miei genitori che lo amavano e lo amano tanto quanto me. Anche questo lo devo all'intelligenza e al coraggio di una persona in particolare, l'attuale sovrintendente ed amico Nicola Sani. Trovo che il Comunale sia uno dei teatri più belli al mondo, come bolognese un giudizio sicuramente di parte ma condiviso da molti che non sono miei concittadini.

Hai creato anche per la "Martha Graham Dance Company"... della grande coreografa statunitense ormai scomparsa dal lontano 1991 in cosa ritrovi il suo genio e la sua rivoluzione nell'attuale panorama?
La forza esplosiva della visione di Martha Graham ha generato una parte significativa di molto di quello che è venuto dopo di lei, fino ad oggi. Solo i grandi sono capaci di una visione di tale potenza, George Balanchine e Merce Cunnigham, solo per citarne due nel ventesimo secolo, esistono di sicuro sullo stesso piano. Ho una collaborazione regolare con la Martha Graham Dance Company che continua dalla prima creazione nel 2013.

La tua è una fortunata carriera fuori dall'Italia, ti rammarica questo aspetto?
Non mi rammarica perché ho la fortuna di poter tornare a lavorare in Italia con una certa regolarità. Sarò sempre grato al mio Paese per tutto quello che mi ha offerto e che continua ad offrirmi.

Qual è la maggiore qualità estetica che apprezzi applicata all'arte in ogni suo linguaggio?
Quella presente nell'opera di artisti dove l'etica e l'estetica sembrano fondersi in un'unica cosa.

Quanto è fondamentale nel tuo lavoro saper ascoltare gli altri, relazionarsi con gli elementi e con lo spazio?
Il mio lavoro, per sua stessa natura, non può esistere senza gli altri, così come per ora non può esistere senza la relazione fondamentale con lo spazio!

Dove trovi la fonte d'ispirazione per le tue creazioni o meglio da cosa parti se non è un lavoro su commissione?
Dalla vita stessa e dalla fitta rete di relazioni che può esistere tra le varie arti.

Nei tuoi allestimenti cosa vuoi lasciare in eredità agli spettatori una volta terminato lo spettacolo?
La speranza è sempre la stessa: che il mio lavoro e quello dei miei collaboratori possa essere stato un'esperienza per chi vi partecipava come spettatore, un punto di partenza per esplorare assieme una anche minuscola parte della realtà che ci circonda.

Ogni artista ha un suo stile ben definito e riconoscibile... Nel tuo caso come definiresti il complesso di scelte e mezzi espressivi che costituiscono l'impronta artistica di Luca Veggetti?
Non ne ho la più pallida idea naturalmente, non mi sono mai posto il problema di dover definire me stesso e il mio lavoro, cerco semplicemente di esprimermi nel modo più sincero possibile.




Quali sono stati i suoi maestri del Teatro, non solo materiali ma anche ideali?
Per un coreografo i veri maestri sono sempre i danzatori con cui lavora, nel mio caso tutti, dagli studenti a quelli molto affermati. Tra le figure materiali che mi hanno guidato di sicuro Pier Luigi Pizzi, l'importante regista e scenografo di cui sono stato assistente per molti anni, gli devo molto. Nel campo più specifico della coreografia il mio amico Glen Tetley, il grande coreografo americano oggi scomparso, mi manca molto il non potermi più confrontare con lui. Tra quelli ideali primo fra tutti Edward Gordon Craig, il visionario uomo di teatro inglese la cui "Arte del Teatro" mi ha segnato in modo particolare. Ma anche molti altri, da Jerome Robbins a Ingmar Bergman a Samuel Beckett, a quelli più lontani nel tempo come Zeami, a cui si deve la forma della più antica tradizione teatrale al mondo: Il teatro Noh giapponese.

In quali circostanze ti vengono le migliori idee?
Non vengono mai così da sole, sono sempre il frutto di un lavoro e di una ricerca, ma soprattutto del dialogo con chi lavora assieme a me e delle scintille che esso provoca. Come ad esempio quello con mia moglie, l'artista visuale giapponese Moe Yoshida con cui ho realizzato molti lavori in diverse parti del mondo, da New York al Giappone all'Europa.

Come si dovrebbe valutare obiettivamente un'opera teatrale?
Valutarla obbiettivamente mi sembra di fatto impossibile, possiamo farlo solo in modo soggettivo confrontandola con un bagaglio culturale personale.

A tuo avviso, l'artista deve reinventarsi ogni giorno?
Se l'artista è un individuo che esplora la realtà cogliendone aspetti che altri non vedono, allora è una domanda che costui neanche si pone, essendo ciò implicito nella sua condizione rispetto al mondo che lo circonda.

Mentre a tuo parere, oggi si compra l'opera, o si compra piuttosto l'artista?
In entrambi i casi il fatto che li si compri mi sembra avvilente purtroppo... intendo con questo il dover attribuire all'una o all'altro un valore di mercato!

Il grande teatro (danza, balletto, lirica, musica classica) appartiene ad artisti già passati a miglior vita? Cosa manca oggi per entrare nell'immortalità?
Non manca niente, come sempre ci entrano di fatto coloro il cui lavoro ha una portata universale.

Cosa consiglieresti ai giovani che iniziano ad accostarsi al mondo del teatro?
Di pensarci bene e di entrarvi senza risparmiarsi se capiscono che quella è la loro strada

Nel tuo lavoro segui anche un iter multimediale con un occhio alla tecnologia. Da dove nasce questa curiosità o esigenza?
Dal voler utilizzare quello che può essere utile per esprimermi, vedo la tecnologia semplicemente come un'estensione delle possibilità espressive.

Promuovere cultura e formazione, riferite al teatro e a tutte le sue contaminazioni, alla ricerca, alla sperimentazione, alla contemporaneità è comunque un creare un qualcosa che un domani farà parte di un patrimonio storico ed artistico?
Certamente, deve farne parte, il teatro vive nell'accumulazione di esperienze e di fatto sempre nel presente. Il resto è archeologia. Ogni forma o genere arriva ad un punto dove le sue capacità espressive sono ridotte al minimo, comincia allora a trasformarsi facendo uso di quello che l'ha preceduta, e diventando cosi un mezzo più efficace per esprimere il tempo in cui vive.

Il tuo lavoro è stato prodotto e presentato dai maggiori teatri, festival e compagnie del mondo, ma anche da musei e istituzioni di ampio respiro internazionale. Quanto ti gratifica questo aspetto, l'essere riuscito ad aprire porte non sempre accessibili allo spettacolo?
Tantissimo, l'ultima esperienza di "Scenario", creato per il MART di Rovereto e il Festival Oriente Occidente, è stata importante, un luogo che mi ha permesso cose che sarebbero state impossibili in uno spazio teatrale tradizionale. Due istituzioni, MART e Oriente Occidente, dirette entrambe da persone di grande cultura e con straordinarie capacita' di visione.

Mi parli della prima mondiale di "Oresteia" di Iannis Xenakis al Miller Theater di New York in co-produzione con Works&Process at the Guggenheim?
Una produzione chiave nella mia carriera, un lavoro di grande complessità che mi ha consentito di lavorare verso la forma che prediligo, quella più totale dell'opera intesa come incontro di arti diverse.

L'ultima tua creazione è "Left-Right-Left". Mi racconti l'essenza di questo spettacolo che ha racchiuso un cast di altissimo rilievo con due Tesori Nazionali Viventi Giapponesi e Akira Kasai, uno dei tre fondatori storici del Butoh?
Anche questa esperienza che segna una tappa fondamentale nel mio percorso, e attraverso la quale ho imparato tantissimo, tre anni di lavoro per cercare un possibile punto di incontro tra la tradizione teatrale più antica al mondo, per l'appunto il Teatro Noh giapponese, e un linguaggio che fa parte del presente. Questo passando dal contatto con la forma espressiva più recente per quello che riguarda il Giappone: il Butoh. Il cast intero era niente se non straordinario, un gruppo di artisti leggendari, così come lo erano i due co-produttori: la Japan Society di New York e il Teatro Noh di Yokohama, uno dei più belli e antichi del Giappone.

Per concludere caro Luca, io sostengo che cos'altro è l'Arte se non "voglia di vivere"... convieni con me?
Convengo ma credo che l'arte possa e debba essere molto di più, di fatto uno dei pochi mezzi che abbiamo per connettere la nostra realtà interiore con il mondo che ci circonda e di cui facciamo parte.

Michele Olivieri

Ultima modifica il Sabato, 03 Marzo 2018 07:16

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