venerdì, 19 aprile, 2024
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INTERVISTA a MARINELLA GUATTERINI - di Michele Olivieri

Daniela Calcinai, Marinella Guatterini, libera reinterpretazione di "Il sipario rosso" di Giovanni Boldini, 2017 Daniela Calcinai, Marinella Guatterini, libera reinterpretazione di "Il sipario rosso" di Giovanni Boldini, 2017

Marinella Guatterini, laureata all'Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) è docente di Teoria ed Estetica della Danza alla Scuola Paolo Grassi, dove, dal 1994, è responsabile delle attività del Corso di Teatrodanza. È saggista e critico di danza e balletto dal 1981 ("L'Unità", "Il Sole 24ore-Domenica" "Famiglia Cristiana" ) e ospite, dal 1999, come "maître de conference" all'Université Paris III – La Sorbonne. Dal 2004 ha tenuto corsi di Metodologia della critica di Danza al Dams dell'Università di Bologna e di Scrittura critica presso l'Università Cattolica di Milano. Dal 1997 è curatrice dei programmi di sala di balletto del Teatro alla Scala e dal 2005 al 2010 del ciclo di conferenze scaligere "Prima delle prime" di Danza. Continua a tenere conferenze al Teatro alla Scala e nei maggiori Teatri italiani. Dal 2010 e sino al 2012 è stata consulente e curatrice della collana "Invito al balletto in Dvd" edita da De Agostini. Ha ideato rassegne e mostre di cui l'ultima, nella stagione 2009-2010 per il Museo Teatrale alla Scala è stata "Le Ballets Russes alla Scala- Milano anni Venti". È autrice di svariate pubblicazioni saggistiche e di testi sulla danza, tra cui una collana in tre volumi, edita da Mondatori Arte, sulla danza e la musica neoclassiche del '900 ("Stravinskij, Apollo e Pulcinella", 1990; "Nijinska, I Sei e Satie", 1991; "Milloss, Busoni e Scelsi", 1992) e due raccolte di conferenze, edite da Ubulibri/Lezioni Milanesi ("La parola alla danza", 1991, e "Discorsi sulla danza", 1994). A seguito del successo di "L'Abc del balletto" (quarta edizione, quinta se ne si considera quella russa) ha pubblicato, nel 2008, sempre con Mondadori "L'Abc della danza – La storia, le tecniche, i grandi coreografi della scena moderna e contemporanea". Nel 2010 ha ideato e poi varato nel 2011 "Ric.ci: Reconstruction Italian Choreography", un progetto decennale sulla memoria storica della coreografia italiana e la sua ricostruzione giunta nel 2017 alla sua ottava tappa "Erodiade-Fame di vento" (1993) e nel 2018 con debutto il primo luglio a "Ravenna Festival" alla sua nona tappa "Tango Glaciale reloaded" di Mario Martone (1982). Il Progetto in alcune sue tappe come "Duetto" di Virgilio Sieni e Alessandro Certini (1898/2011), "Calore" (1892/2013) di Enzo Cosimi e "Uccidiamo il chiaro di luna" di Silvana Barbarini (1997/2015), ha coinvolto allievi ed ex allievi del Corso di Teatrodanza della "Scuola Paolo Grassi".

Carissima Marinella sei molto stimata dagli studenti, dai lettori ma anche dagli spettatori che ti seguono nelle conferenze per la tua autorevole oratoria, quale significato e quale valore dai al ruolo di docente divulgatore?
Ringraziandoti per gli elogi, forse eccessivi, credo che l'insegnamento sia il miglior modo per imparare. Imparare ad esporre, a semplificare concetti anche difficili, continuare a studiare e a ricercare. Credo anche che si impari molto dagli studenti stessi, tante volte sorprendenti nelle loro analisi coreografiche, nelle stupefacenti chiose. L'insegnamento come è un doppio binario: intendo la funzione maieutica in senso socratico. Anche se purtroppo debbo aggiungere che il livello culturale medio di studenti anche universitari si è notevolmente abbassato.

Come nasce la voglia di concentrare gli studi sulle Belle Arti ed in particolare in ambito teorico ed estetico applicato alla danza e al teatro?
Aggiungo che io ho frequentato anche L'Università "La Sapienza" di Roma, ma senza giungere alla laurea, poiché avrei dovuto sostenerla negli stessi anni dell'Accademia di Brera. In particolare, avrei dovuto laurearmi con Diego Carpitella, celebre etnomusicologo, da tempo scomparso. Nell'ambito della mia formazione in Belle Arti, nel "Corso di Scenografia", era abituale studiare e ricercare teatro, musica, danza, scenografia, ovviamente, estetica, cromatologia eccetera; negli ultimi anni di Accademia, in particolare, mi sono occupata di ricerche sulla danza e sul teatro costituendo un gruppo con altri quattro studenti. Abbiamo realizzato mostre e progetti guidati dai nostri insegnanti tutor. La mia consuetudine con la musica anche contemporanea mi ha consentito di allestire con una collega dell'Accademia uno spettacolo al Conservatorio di Milano con allievi di composizione di Giacomo Manzoni. In quell'occasione abbiamo richiesto la partecipazione di danzatori. Alla fine dell'Accademia ho creato invece da sola, come regista, uno spettacolo intitolato "L'amore delle tre melarance" da Carlo Gozzi e su musica di Sergej Prokof'ev, coinvolgendo tre danzatrici e un attore; ho vinto un Premio e lo spettacolo è stato inserito in una Rassegna indetta dal critico Franco Quadri. Musica, danza, teatro erano inoltre materie di studio teorico, a cui per me si aggiunsero Semiotica del teatro, Filosofia della musica e, fra tanto altro, Etnomusicologia, a Roma. Ho dunque avuto la fortuna di poter mettere in pratica certe mie idee sul teatro e sulla danza sin dagli anni dello studio: questo non ha fatto che rafforzare la mia passione per la scena performativa.

Chi sono stati i tuoi Maestri, ai quali indirizzi un moto di gratitudine, e quelli puramente simbolici ed ispiratori?
Innumerevoli: da Francesco Leonetti a Gillo Dorfles, da Renato Barilli a Luigi Veronesi e Alik Cavaliere, da Guido Ballo a Tito Varisco e Luisa Spinatelli, da Luigi Pestalozza a Francesco Degrada, da Ferruccio Marotti a Filiberto Menna, da Mario Spinella a Gianni Sassi e Paolo Volponi. Sono simbolicamente grata ad Antonin Artaud, Friedrick Nietzsche e Giorgio Colli, a Roland Barthes, Jacques Deridda, Vladimir Jankélévitch, Joseph Campbell, Gilles Deleuze, Michel Serres, Maurice Blanchot, Samuel Beckett, James Joyce, Merce Cunningham, John Cage, eccetera, eccetera, senza dimenticare l'imprescindibile Rudolf Laban.

Hai mai pensato a te come ballerina professionista?
No assolutamente! Ho studiato balletto per sei anni in una scuola milanese, dai sei anni in su. Poi ho preferito la scherma, il nuoto, la pallacanestro. Avrei potuto continuare certo per la fortuna di avere un fisico adatto, ma la testa, sin da piccola, andava in altra direzione ad esempio la pittura. Dall'infanzia all'adolescenza ho molto dipinto.

Nutri una passione ed un grande interesse per il linguaggio della danza, come ti poni nei riguardi dello stile contemporaneo e al contempo del balletto classico-accademico?
Anzitutto non credo esista uno "stile" contemporaneo e forse il termine "stile" non è adeguato, a mio avviso, alla contemporaneità. Se per "stile" intendiamo "Segno tracciato, impresso o inciso, a cui si dia un significato" (Treccani): allora nella danza contemporanea esistono più "stili". Tuttavia, credo che il termine, pure nell'accezione di "forma in cui si concretizza un'espressione", per la danza contemporanea vacilli proprio perché molto spesso la forma latita, o si lacera volutamente. Fatta questa precisazione il mio sguardo necessariamente muta poiché al contrario della danza contemporanea, la danza accademica deve avere uno stile.

Come coniughi queste due estremità coreutiche?
Le coniugo, nel mio lavoro, con uno sguardo direi sempre "a tutto tondo": spazio, tempo, energia, i coefficienti labaniani tra loro intrecciati e sempre in un'ottica labaniana, ossia di "pensiero danzante". Il che vuol dire che il virtuosismo di tanto balletto non mi incanta se non riscontro non solo nella coreografia, ma anche nell'interprete quell'unità tra corpo e mente che fa la differenza per qualsiasi danzatore o ballerino che in scena riesca a scintillare, a non risultare "opaco" nonostante l'elán tecnico.

Alcuni parlano anche della "non-danza", cosa vogliono affermare?
È un termine superato; se ne parlava una decina di anni or sono intendendo sia un minimalismo coreutico portato alle estreme conseguenze, ad esempio all'immobilità, al gesto quotidiano, sia in un'accezione pop, proprio l'affermazione di quell'assenza di "stile" nella danza contemporanea per molti sconcertante, cui accennavo prima.

La scrittura quanto ti appaga?
Scrivere per me è necessità, come l'aria che respiro. Ed è naturale, mai esercizio forzato.

Mentre la "critica di danza"?
La critica di danza per me è la scrittura; ma lo è anche la stesura di saggi o di libri sempre però inerenti la danza. Non mi sono mai cimentata nella scrittura tout court, a esempio di racconti. Tuttavia, ho scritto recensioni di libri che restano nei miei cassetti poiché non le ho mai pubblicate; posso scrivere di film che mi hanno particolarmente colpita, e mi piacerebbe scrivere di arte visiva.

Come si combina e quale nesso intercorre tra la sociologia e l'arte della danza?
Oggi mi pare che i due ambiti siano molto vicini; molti autori di danza osservano la società, il suo decadere; traggono ispirazione dalle tragedie e dalle guerre che ci circondano, dalle migrazioni forzate, dalle morti ingiuste. Tutta l'arte lo fa e, per la verità, lo ha sempre fatto, nella storia, a meno che non ci si orienti verso il puro e semplice divertissement. Questo nesso, tuttavia, può essere assai rischioso: anche se ciò che conta sono gli esiti di uno spettacolo sperimentale o no che sia, c'è il pericolo che l'invadenza "sociologica" si tramuti in invadenza cronachistica. I media si occupano in modo ossessivo e spesso anche errato di fenomeni sociali considerati preminenti; il teatro in senso lato, dunque anche il teatro della danza, dovrebbe invece sempre trasfigurare la realtà, digerire il tragico, restituirlo senza cadere nell'ovvietà didascalica o appunto cronachistica, poiché in tal caso crollerebbe la sua vera missione espressiva e non comunicativa. Esprimere non è l'equivalente di comunicare.

Come si può riconoscere una corretta metodologia della ricerca applicata allo studio del movimento?
Ovvio: dagli esiti raggiunti da chi questa metodologia ha seguito, ovvero spiegandomi in modo molto semplice: costui o costei è diventato o meno un danzatore o un ballerino interessante, oltre che ben preparato e all'altezza di ciò che deve esprimere?

L'arte coreutica è sempre e comunque in trasformazione?
Assolutamente sì, per fortuna. Come tutte le altre arti.

Ultimamente dopo anni di danza contemporanea estremamente concettuale c'è un ritorno ad un qualcosa di meno cupo o è solo una mia percezione?
Non so cosa intendi con il termine "cupo". Forse hai riscontrato più movimento negli spettacoli di danza contemporanea... Io riscontro invece un'eccessiva faciloneria tra gli esordienti ma in parte anche tra i coreografi affermati; intravvedo spesso pure una certa arroganza che non ha ragione d'esistere e una tendenza a comunicare per rendersi accessibili al pubblico anziché ad esprimere... Pertanto mi pare che il divario tra gli autori di danza sia diventato una forbice che si allarga sempre più!

Cos'è il gesto e qual è la sua vera essenza, per tua diretta conoscenza?
Il gesto è un movimento della mano, del braccio, del capo che sottolinea uno stato d'animo, un'intenzione o un proposito, oppure esegue una particolare azione. Nella danza il gesto può non avere alcuna finalità, può essere un gesto "sonoro" anche: ne si capisce la sua intenzione nel fluire dinamico o nell'insieme dei movimenti in cui è inserito. Secondo Laban la forza espressiva del gesto è enigmatica ma si rivela nell'osservazione; di certo non servono le parole per esprimere emozioni che giungano ad emozionare lo spettatore.

Per formare una Cultura coreutica da cosa si parte e come svilupparla in seguito?
Difficile rispondere a questa domanda, specie in un Paese in cui è nato il balletto e anche l'anti-balletto (penso alla danza futurista), ma che nel tempo non è riuscito a consolidare le proprie straordinarie invenzioni coreutiche. Oggi molto è cambiato, ma restano limiti storici ancora abissali a cui è difficile porre rimedio. Tuttavia, si parte sempre dalla formazione in ambito accademico e contemporaneo, oppure dalla genialità di chi sa mettere in gioco amatori, dilettanti, danzatori portatori di handicap. Tutti possono esplorare la propria fisicità per esprimersi danzando. L'occhio delle istituzioni, l'organizzazione stessa della danza del nostro Paese è migliorata, ma potrebbe raggiungere più alti gradi di efficienza se l'arte coreutica non fosse ancora e in parte considerata "minore".

Quanto è importante ascoltare e conoscere il proprio corpo?
Credo sia importante per la vita stessa, non solo per danzare. Se non conosciamo e non ascoltiamo il nostro corpo come possiamo vivere consapevolmente? E per corpo intendo naturalmente la sua interezza esteriore ed interiore, razionale e irrazionale, istintiva e meccanica. Dobbiamo anche sapere o imparare a convivere con le sorprese e i misteri del nostro corpo-mente.

Hai scritto e curato numerose pubblicazioni, tieni conferenze in materia, da dove trai la "curiosità" per divulgare al meglio il tuo "sapere"?
Il mio lavoro è la mia passione; quando si ama appassionatamente non c'è misura nell'amore e dunque nella curiosità di imparare e conoscere sempre di più.

Ogni insegnante e formatore ha una grossa responsabilità nei riguardi dei propri allievi. Come ti poni e cosa pensi a riguardo?
Penso che mentire ai propri studenti o allievi sia un peccato grave. Ovvero, per insegnare occorre non tradire le aspettative di chi magari pende dalle tue labbra. Il rispetto degli allievi è assai importante. Meglio professare la propria ignoranza in un determinato ambito culturale e lo scarso approfondimento dello stesso, che fingere conoscenze sbiadite o peggio elementari e scarse.

La danza è una disciplina strettamente legata al corpo: da un lato prettamente tecnico, dall'altro estetico. Quanto credi che l'efficacia di un'esecuzione dipenda dalla forma fisica del danzatore?
La danza, lo ripeto, è "pensiero in movimento"; naturalmente se questa definizione labaniana non è suffragata da sufficiente lavoro, da costanza nel superare i propri limiti anche interiori, e dunque da una adeguata preparazione fisica ed espressiva non può dare grandi risultati.

Come si fa, secondo te, a trasmettere la cura verso un'educazione al teatro e alla cultura come gesto d'amore anche verso se stessi?
Si comincia sempre dalla scuola; se la ginnastica impartita ai bambini fosse affiancata a musica, teatro e danza in modo costruttivo e serio, l'autostima dei piccoli educandi crescerebbe. Il vero amore verso noi stessi penso nasca quando ci mettiamo alla prova in senso performativo o culturale in senso lato.

Cosa consigli a chi vuole intraprendere la tua stessa strada?
Di mettersi in cammino con passione ed umiltà: si cade sempre, o qualcuno ci farà prima o poi cadere, ma ci si può rialzare con maggior forza e coraggio nello studio, nella ricerca.

Quanto è importante investire nel settore Cultura per la crescita sia economica che sociale di un Paese?
Un Paese come l'Italia vive sul turismo d'arte in larga misura, credo potrebbe offrire ancora di più se fosse un Paese funzionante, ma per quanto bellissimo non lo è abbastanza. Pochi, inoltre, investono nell'arte, nella cultura coreutica: la nostra economia è tremolante, e priva di sponsor che investano nella ricerca artistica. Possiamo e dobbiamo offrire di più, dunque organizzarci meglio. Lentezza e il caos possono essere frustranti.

Come si dovrebbe valutare obiettivamente uno spettacolo di danza o un balletto?
Questa risposta richiederebbe molto spazio: l'obiettività è già un sostantivo insostenibile. Certo di fronte a scenografie di magnifica confezione e/o a costumi di particolare eleganza e raffinatezza e aggiungiamo anche a una strabiliante messa in opera di una tecnologia stupefacente non possiamo che soppesarne il valore. Quanto alla danza o al balletto, muta con lo sguardo di chi osserva dunque non vi è obiettività, salvo forse nel constatare la bravura o meno degli interpreti. Ma anche qui non esiste obiettività: perché persino la più meravigliosa delle étoile, parlando di balletto, potrebbe risultare agli occhi di uno spettatore-critico scintillante oppure opaca, nonostante il suo virtuosismo. Gli interpreti sono poi soprattutto al servizio di un'idea coreografica che si forma sotto i nostri occhi. E gli occhi dei critici non sono tutti uguali, non hanno la stessa formazione culturale, un'uguale esperienza di visione nel tempo, una medesima capacità di confronto. Lo stesso vale per gli spettatori non di professione ai quali forse mancano cognizioni in merito all'analisi coreografica. E questa analisi non la si può sintetizzare in poche righe. Rimanderei ad alcuni miei testi sulla metodologia della critica di danza ma sono opuscoli non pubblicati. Sorry!

A tuo avviso, il coreografo oppure l'artista deve sapersi reinventare o deve comunque rimanere fedele a sé stesso?
L'artista, in generale, sceglie il percorso che più ritiene consono alla sua poetica, se ce l'ha. Rimanere fedeli a se stessi è frase ambigua: si può intendere come incapacità di rinnovarsi, ma anche come sperimentazione continua, ricerca incessante pur mantenendo elementi riconoscibili nel proprio lavoro.

Nella nostra epoca si compra l'opera, o si compra piuttosto l'artista?
Mi pare che in questa epoca funzionino molto i "fenomeni sociali" come Roberto Bolle, almeno in ambito di balletto, o le star di maggior fama. Senza nulla togliere a questi campioni, siamo retrocessi all'epoca di una preminenza dell'interprete sull'opera di balletto, come ai tempi della necessaria riforma di Jean Georges Noverre. Nella danza contemporanea per fortuna si prediligono le opere e i coreografi; quelli di maggior fama sono rincorsi da grandi e piccole istituzioni ma pochi possono permetterseli a causa dei costi molto alti delle loro produzioni.

Quale significato ha nella tua vita il Teatro alla Scala di Milano?
È il Teatro della mia città; l'ho sempre frequentato, sin da piccola. Ha un grande spazio nel mio cuore. E lavorarci dal 1997, per i programmi di sala di balletto, è una gioia che continuamente si rinnova anche grazie alle persone molto preparate, colte e capaci che lavorano con me.

Sei responsabile da tanti anni del Corso di Teatrodanza alla Scuola Paolo Grassi di Milano. Quali sono gli intenti e gli obiettivi raggiunti?
Altra domanda che richiederebbe una risposta chilometrica. Abbiamo diplomato una buona parte dei migliori danzatori contemporanei che lavorano in Italia e anche all'estero. Alcuni coreografi di valore e gruppi sono usciti dalla "Paolo Grassi". Il numero degli aspiranti ad entrare nel Corso cresce di anno in anno. Abbiamo ospitato i migliori coreografi stranieri e italiani per masterclass e spettacoli. Abbiamo uno staff di docenti di prim'ordine... che dire abbiamo superato le più rosee aspettative, almeno dal nostro punto di vista. Gli altri giudicheranno.

Cosa si intende oggi per "danza contemporanea" e come riconoscerla tra innumerevoli commistioni di stili?
Sullo stile ho già detto... della danza contemporanea dico che non è certo la danza che si crea nel qui e ora, è un "pensiero danzante" calato nella congerie del presente di cui riflette in vari modi luci e ombre. Bella la definizione di Theodor Adorno relativa alla musica contemporanea, vale anche per la danza: è una bottiglia lanciata nei flutti del mare con un messaggio; non si sa dove approderà e chi saprà leggere quel messaggio.

Non credi che attualmente venga riutilizzato un qualcosa già sperimentato nel passato e che in talune occasioni venga offerto al pubblico come "nuovo linguaggio" un dizionario coreutico ed estetico già visto, già scoperto, già ricercato nella storia trascorsa?
La cosa non mi scandalizza e non mi preoccupa affatto, ciò che conta sono gli esiti. A dire la verità non mi pare che questo fenomeno sia in atto e se anche lo fosse per i motivi già sottolineati non mi pare costituisca un problema. Quali siano poi questi "nuovi linguaggi" in realtà "vecchi" me lo dovresti spiegare forse tu.

Perché la danza viene ancora definita dai più, forse erroneamente, "arte effimera"?
Arte effimera non è definizione negativa, la danza non si ferma; una volta che uno spettacolo di danza comincia non puoi richiedere un rewind perché" non hai visto bene.

La danza che tracce lascia di sé visibili e riconducibili per una riproposizione, in seguito, fedele?
Esistono i video-registratori e le varie notazioni, tra cui la più esatta è ancora la "Labanotation". Tuttavia il ricostruttore, o coreologo, è figura necessaria perché adatta a ballerini sempre diversi una stessa coreografia. La fedeltà assoluta nella ricostruzione è utopica e anche sciocca: cambiano gli interpreti e come si può essere fedeli ad un originale???

Diamo una definizione di alcuni grandi coreografi che hanno messo in atto un cambiamento radicale a livello coreico. Ad esempio Maurice Béjart?
Maurice Béjart ha cavalcato l'onda del 1968, e prima ha creato coreografie di riferimento come la sua "Sagra della primavera". Ha messo i jeans ai suoi danzatori, ha predicato "fate l'amore e non la guerra". Ha portato la danza negli stadi, con lui il balletto è diventato popolare.

Merce Cunningham?
Ha rivoluzionato la danza da capo a piedi, ha separato il movimento dalla musica, abolito la prospettiva per uno spazio senza più punti preminenti "alla Einstein"; ha impiegato le chance operations mutuandole da John Cage. Ha creato il primo happening e moltissimi Events e la prima coreografia con danzatori in carne ed ossa ma anche virtuali nella storia della danza, il magnifico "Biped" (1999). Cunningham è l'"assoluto" danzante, eccetera eccetera.

William Forsythe?
Grandissimo coreografo di derivazione post-balanchiniana, geniale sperimentatore, ha reintrodotto un balletto pericolosamente off balance nell'epoca della maggiore esaltazione per il "Tanztheater" di Pina Bausch; ha scarnificato, studiandolo a fondo, il balletto sino a ridurlo a un grado zero, di nuovo utilizzabile in ambito contemporaneo. Ha mostrato le variazioni apportate nella sua danza da una intelligente lettura di Laban. È giunto a creare persino "oggetti coreografici", eccetera, eccetera. Scia di epigoni, ma anche di coreografi di valore che da lui hanno appreso molto.

Jiří Kylián?
Importante esteta e "musicista", autore infallibile di balletti moderno-contemporanei di speciale tensione appunto musicale, basti la sua memorabile e stravinskiana "Sinfonia di Salmi". Ha creato un "arcipelago danzante" con il suo "Nederlands Dans Theatre I, II e III", quest'ultimo per danzatori già over 40-50. Poi si è dedicato alla commistione tra danza e video; ha creato film danzati come "Car-men". Non un riformatore ma il più eclatante e geniale interprete in senso moderno-contemporaneo della riforma di Michel Fokin. Scia di epigoni, ma anche di coreografi di valore nati dalla sua scuola.

Mats Ek?
Chi dimentica la sua "Giselle" moderno-contemporanea? Convinto narratore, ha trasformato anche la tradizione della "Bella addormentata" in una pièce dai contorni etici e impegnati. In questo senso è sempre stato sin dai tempi di "Soweto" un coreografo politicamente impegnato. Ma mai didascalico, o banale con quella valanga di gesti piccoli, di idiosincrasie gestuali che hanno reso il suo linguaggio riconoscibile. Interessanti anche le sue regie teatrali con il concorso dei suoi molti congiunti: dalla sorella, al fratello Niklas, senza dimenticare Ana Laguna, sua moglie e prima "Giselle". Ci manca Mats anche per la sua generosità di coreografo sempre investito direttamente nell'atto creativo, danzatore assieme ai suoi danzatori per farli crescere e poterli guidare meglio. Anche per lui: scia di epigoni, ma anche di coreografi che hanno tratto giovamento dalla sua maestria.

Pina Bausch?
Ha fatto sua la lezione di Kurt Jooss; ha imposto un teatro della danza (questo significa Tanztheater e non teatro+danza) in cui gli interpreti fossero "persone" danzanti, cosa molto diversa dall'essere danzatori... Ha rivoluzionato ancora una volta in senso musicale la coreografia, frammentandola a partire da 1980 e con un andamento musicale. In una conferenza con lei si è definita "una compositrice", paragonando i suoi Stücke (termine preliminare ai titoli poi apposti ai suoi spettacoli) – nati dopo mesi e mesi di lavoro con i suoi collaboratori, in specie quelli della sua prima indimenticabile compagnia –, alle raccolte di variazioni musicali dei compositori romantici tedeschi. Una riformatrice necessaria, con il suo metodo di lavoro inquisitorio (fatto di domande poste agli interpreti), non solo alla danza ma anche al teatro tout court. Ha creato pure lei una scia di epigoni ma anche di coreografi-registi che hanno saputo continuare la sua esperienza in modo originale, come Alain Platel. Pina è indimenticabile.

A questi nomi chi vorresti aggiungere Marinella e perché?
Parlerei di Alain Platel, Olivier Dubois, Dimitris Papaioannou, dei Peeping Tom e Anna Teresa De Keersmaeker ma anche di Trisha Brown e Maguy Marin, poiché sono tra i capisaldi della contemporaneità, ma lo spazio stringe e tutto quanto ho sin qui detto è solo una parte di ciò che si potrebbe dire anche sui coreografi sopra citati.

Del panorama attuale chi apprezzi particolarmente nei nuovi giovani coreografi italiani?
Il gruppo "Dewey Dell" di Teodora Castellucci, con sorelle, fratelli e congiunti; il gruppo "Nanou" di Marco Valerio Amico; Nicola Galli, il "Collettivo Cinetico" ma nei primi lavori, Annamaria Ajmone, "Fattoria Vittadini" entrambi tra alti e bassi, Silvia Gribaudi, di cui ho visto poco come di altri di cui aspetto nuovi esiti. Non parlo naturalmente dei quarantenni.

Tempo, spazio ed equilibrio, in quale ordine li poni per importanza?
Tempo e spazio sono allacciati e paritetici, quanto ad importanza in un lavoro coreografico, l'equilibrio nasce da una loro possibile armonia.

Oggi si fa ancora un "lavoro artigianale" nella danza e nel teatro?
Spero di sì, ma bisogna intendersi sul termine. Cosa vuol dire artigianale? Senza tecnologia? Non credo che quest'ultima sia dirimente rispetto all'esito di uno spettacolo. La tecnologia è un mezzo non un fine. Il lavoro sul corpo e con il corpo è sempre artigianale, comunque.

È sempre valido il Dostoevskij de "...la bellezza salverà il mondo?"
Me lo auguro, ma al momento stento a crederlo...

A livello legiferativo ed artistico, nel sostentamento della disciplina tersicorea, cosa manca attualmente nel nostro Paese?
Credo siano stati fatti passi in avanti al Ministero preposto, ma con lacune e lentezze. Inoltre, i fondi per questa disciplina artistica sono esigui come lo sono per l'ambito culturale in genere. La danza è penalizzata anche da una scarsa organizzazione nelle singole città, ove spuntano festival grandi e piccoli ma talvolta senza un vero dialogo, una concertazione che consenta di vedere balletti, opere coreografiche di alto spessore e giovani emergenti. Mancano le economie; la professione del danzatore free lance o del coreografo non è per nulla tutelata e riconosciuta, come lo è invece in altri Paesi.

Cremona è la tua città natìa, cosa ti lega a lei nei ricordi di bambina? Quando sei entrata a teatro per la prima volta?
Sono legata al Teatro Ponchielli di Cremona anche per la sua ottima gestione, tuttavia i miei genitori si sono trasferiti a Milano quando avevo un anno: a quell'età non potevo ancora conoscere il Ponchielli, molto amato invece dai miei, purtroppo da tempo, defunti genitori.

Un tuo pensiero per Rudolf Nureyev nell'80° anniversario della nascita e nel 25° anniversario della scomparsa?
Sarebbe di troppo, tutto quello che si poteva scrivere su di lui è stato scritto; l'ho conosciuto come danzatore nell'epoca in cui era già malato: molto carismatico in scena ma soprattutto in balletti moderni, come "The Lesson" e "Il Cappotto", entrambi di Flemming Flindt, e prima in "Pierrot Lunaire" di Glen Tetley. Nei balletti accademici ormai non dava che quanto poteva, ma sempre con il suo ineguagliabile scintillio. Molte le conversazioni con lui; era un uomo sensibile, di grande intelligenza e cultura.

Mentre di Mikhail Baryshnikov, che so essere tuo amico?
Credo che si tratti ancora oggi del miglior esempio di ballerino uscito dall'Accademia Vaganova e dal Kirov, oggi Mariijnskij-Kirov di San Pietroburgo. Purezza tecnica e di stile ineguagliabili; basti osservare lo studio accanito e perfetto dedicato ad esempio alle sole mani... Artista di grande apertura mentale ha poi abbandonato il balletto e si è dedicato al moderno e al contemporaneo con una capacità di comprensione delle diversità inerenti i vari ambiti coreutici del tutto inedita. Un danzatore unico in tutti i sensi e una personalità versatile. È diventato anche un originale fotografo. Continua ad essere un mecenate della danza; a New York ha aperto uno spazio suo per residenze coreografiche di giovani talenti.

Nel 2010 hai varato "Ric.ci: Reconstruction Italian Choreography", un progetto legato alla memoria storica della coreografia italiana e della sua ricostruzione. Com'è nata questa idea e quali sono i risultati raggiunti fino ad oggi?
L'idea è nata nel 2010, volevo scrivere un libro sul recupero dei pezzi giovanili da parte di molti coreografi di caratura internazionale. Una tendenza allora in atto. Poi un paio di organizzatori italiani mi hanno convinto a provare a restituire la memoria della danza contemporanea anni '80-'90 italiana, a riprova della sua esistenza. Ho così steso una lista di dieci possibili ricostruzioni di coreografie di quegli anni, cercando di scegliere distanziandomi dai miei gusti personali per dar conto di una varietà di poetiche davvero inaspettata. Il progetto RIC.CI è ufficialmente nato nel 2011 e ora siamo giunti alla nona ricostruzione, quella di "Tango Glaciale" che il regista Mario Martone, ha voluto reintitolare "Tango Glaciale reloaded", poiché "ricaricato" su giovani interpreti che all'epoca del debutto della pièce – nel 1982 – non erano ancora nati. Tutto RIC.CI. comunque è reloaded con un passaggio di consegne a giovani interpreti di cui si sono splendidamente incaricati tutti i coreografi coinvolti. Mario Martone non è un coreografo, ma nella lista non poteva mancare quel teatro sperimentale che andava verso il corpo, abbandonando testi compiuti e recitazione. Essendo un lavoro sulla memoria questo RIC.CI ha un corredo di libretti con video-interviste agli autori, agli interpreti di ieri e di oggi e pure ai collaboratori delle varie pièce, più la registrazione dei singoli spettacoli ricostruiti. Un grosso lavoro, faticoso, ma di grande soddisfazione per gli esiti ottenuti grazie al pool di organizzatori che sostiene il progetto RIC.CI (festival, circuiti regionali, teatri tra i più importanti in Italia), ma anche ad altri ospitanti questi spettacoli e grazie alla "Fondazione Milano" che edita e pubblica i libretti del progetto stesso.

Hai tenuto corsi di Metodologia della critica di Danza e di Scrittura critica in prestigiose Università italiane. Un consiglio basilare per intraprendere con il "piede giusto" questo cammino?
Scoprire come la critica si è mossa nel tempo e si muove anche in Paesi diversi dall'Italia, serve molto per una mappa metodologica sensata. Quanto alla "scrittura critica" si parte come in ogni scrittura dall'italiano che non è solo l'esposizione di una lingua ma la propria personale forma mentis. Scrivere di danza è difficilissimo, poiché la danza scorre. Hai davvero a che fare molto spesso, in specie nell'ambito formalistico, con un "non-so-che" e un "quasi niente", cioè con l'inafferrabile.

Sempre molto ricercati e ben strutturati i programmi di sala di balletto del Teatro alla Scala di cui sei curatrice oltre che relatrice al ciclo di conferenze "Prima delle prime" di Danza. Dall'alto del tuo credito ti senti sempre e comunque allieva?
Penso non si debba mai credere di essere altro che "studenti" e "allievi": in questo lavoro appassionante non si cessa di imparare, né di sbagliare, né di ricominciare.

Per concludere cara Marinella, il teatro (in senso lato) rende davvero "eterni"?
Non lo so, e non mi pongo il problema!

Michele Olivieri

Ultima modifica il Giovedì, 07 Giugno 2018 17:03

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