al Teatro San Babila
regia di Mario Mattia Giorgetti
scene e costumi Fabio Battistini
con Sergio Masieri, Maria Teresa Letizia, Franco Ponzoni, Raffaella Balducci
Tempo, 24 giugno 1973
A parziale rimedio dal deprecato semestre dell'assoluto silenzio estivo della prosa, a Milano Remigio Paone ha avuto un'idea che potrebbe risolversi nella consueta bolla di sapone, ma potrebbe anche rivelarsi l'inizio di un'apertura inedita quanto proficua di fronte al tran-tran digestivo del cosiddetto pubblico-bene, o borghese che chiamar si voglia. Egli ha aperto i battenti del più importante dei suoi due teatri, il Nuovo, a una stagione, crepi l'avarizia facciamo un "minifestival" delle giovanili compagnie povere autogestite; quelle, le uniche, dedite a un repertorio di punta, mettiamo pure, genericamente e variamente d'avanguardia, anche se, più spesso sì che no, trattisi di avanguardie stagionate. Stagionate ma che, tuttavia, non hanno ancora avuto l'onore di poter attraccare alle ribalte normali, private o pubbliche che siano d'accordo in una sola cosa: la prudenza sovvenzionata.
E così, da alcuni giorni, la "luminosa" di piazza San Babila annuncia la "Compagnia Contemporanea" in Aspettando Godot di Samuel Beckett: un classico dell'avanguardia del più autentico autore d'avanguardia del nostro tempo, capofila del teatro dell'assurdo, alto testimone di un'angoscia esistenziale.
L'enigmatica commedia, più precisamente l'inquietante apologo, meglio ancora la desolata clowneria, ironica e tragica come la vita, accolta e a lungo accompagnata dalle denigrazioni o dalle esaltazioni, senza vie di mezzo, della critica sconcertata e del pubblico sgomento e, ciononostante l'una e l'altro affascinati, compie 20 anni giusto quest'anno; né mai cessò di essere rappresentata, né mai vide flettersi l'ascesa della valutazione e del successo
La felicità, il destino, la vita, la morte, un inizio, una fine di chissaché, un anelito indistinto che prende forma, una speranza vaga che si realizza, la verità, l'illusione, la grazia... cosa rappresenta l'emblematico Godot, atteso perpetuamente invano, per i due pagliacci Estragone e Vladimiro – per l'Umanità! – occupati nella gratuita ritualità di discorsi iterativi privi di senso? Il tutto, il nulla. Ha un bell'essersi fatto francese il premio Nobel Beckett: egli rimarrà sempre uno scrittore irlandese, ossessionato d'assoluto e famelico di trascendente; dove anche il dato reale più preciso, quotidiano e banale si manifesta in forme di favolosità iperbolica; in un sentimento tragico dell'esistenza, così pressante da intridere di sé anche le più comiche fantasticherie inevitabilmente destinate a modulazioni metafisiche. Magari ateo, arrabbiato, iconoclasta, blasfemo, gratta gratta, il più abissale pessimismo di un irlandese rivelerà sempre un cattolicesimo tormentato e tragico, per non dir dannato.
Fedeli alla disciplina della provocante regia ricca di grottesche sollecitazioni, di Mario Mattia Giorgetti, si son fatti applaudire: Sergio Masieri, Maria Teresa Letizia, Franco Ponzoni, Raffaella Balducci, nonché lo scenografo e costumista Fabio Battistini. Una curiosità filologica: nessuno ha fatto caso che il nome Godot – anche l'idea? – è preso dal Mercadet di Balzac. Anche là si attende, dal principio alla fine, un Godot per il salvataggio (economico) del dissipato protagonista. Ed è, quello, un Godot ben concreto e, alla fine, arriva.
Carlo Terron