Corriere Lombardo, 31 dicembre 1948
Coraggio, amici, a questo mondo nulla va perduto. Thornton Wilder ha raccolto per noi tutto quello che su questo povero pianeta ammobiliato è stato fabbricato da alcuni milioni di anni a questa parte: il dinosauro e l’ago da cucire, la bibbia e un vecchio film di Lyda Borelli, Omero e i dadi Maggi, la ruota e il sexappeal, le muse e la macchina da scrivere, il Mammuth e il telegrafo senza fili, l’epoca glaciale e la battaglia elettorale, il risvolto della giacchetta e il diluvio universale, la conserva di pomodoro e i bombardamenti a tappeto, la bomba atomica e l’abbecedario, la tavola pitagorica e lo spazzolino da denti, la memoria di Abele e la carriera di Caino, l’armonia delle sfere e la danza delle ore.
Tutta roba che, nella fretta di nulla dimenticare, gli rimane accatastata come in un magazzino di rigattiere. Ma ci chiamate poco, dopo la soddisfazione di esserci ripassati tutti i nostri ricordi liceali: e Shakespeare e Platone e Aristotele e Spinoza, il piacere di rifare la conoscenza con le sintesi futuriste, il dadaismo intellettuale, il futurismo filosofico e il surrealismo metafisico dopo che Marinetti e Apollinaire giacciono da anni nelle loro tombe e con l’ottimismo di Candido – quello di Voltaire non quello di Rizzoli? Tutto il mondo in tre ore, un’opera alla quale hanno posto mano e cielo e terra per partorire il peregrino messaggio che l’uomo è il perno dell’universo e non c’è cataclisma cosmico, avversità morale, distruzione guerresca dopo la quale egli non rialzi la testa pronto a ricominciare più buono, più tenace e più ottimista e più illuso di prima.
Ma che bisogno c’era, benedetto Iddio, per imbastire questa moralité dall’accomodante titolo La famiglia Antropus, che bisogno c’era di andare a disturbare l’idealismo platonico, l’evoluzionismo darwiniano e perfino il freudiano complesso paterno? Bastavano le idee di Giovanni Mosca o anche soltanto di quel giovane operaio della Fiat che nel Piatto d’argento l’anno scorso ci ha raccontato la stessa storia facendosi zittire al teatro Nuovo.
Dopodiché non mi pare assolutamente necessario scomodare né Pirandello per le originalità formali delle quali è stato saccheggiato, né Shaw che col Torniamo a Matusalemme ha fatto cose ben più solide e significanti. Carte in tavola, vecchio Thornton tanto caro, e giustamente caro ai nostri entusiasmi universitari al tempo dell’illuminante conforto di Piccola città. Che avete voluto fare coi vostri trucchi e le vostre marachelle di seconda e di terza mano?
Se avete inteso mirare a darci – scusateci il bisticcio – una specie di sacra rappresentazione profana come temiamo fortemente, non possiamo seguirvi. Se, invece, avete voluto divertirvi e farci divertire con un’intelligente e umoristica féerie possiamo ancora andare d’accordo. E per parlar chiaro, al Mediolanum ci saremmo entusiasmati del vostro pastiche, al Piccolo Teatro ci è venuta la malinconia poiché lo spazio che separa la vostra mediocre commedia da un’intelligente rivista è più sottile di un capello e, salvo qualche commosso momento al terzo atto, questo capello risulta spesso strappato.
Giorgio Strehler l’ha capito fin troppo e ne ha cavato una rappresentazione da mozzare il fiato per il gusto parodistico, la fantasia inventiva, la gioia dell’occhio e, soprattutto, il ritmo travolgente. Egli si è reso conto che a lasciare riflettere lo spettatore era finita. Tutti d’accordo: Giulio Coltellacci lo scenografo e costumista argutissimo, il Santuccio, la Brignone, il Feliciani, il Bonucci, il Battistella, la Galletti, la Canitano, il Moretti e gli altri moltissimi, esplosivi e variopinti come razzi, si sono generosamente prodigati a infilare una serie di raffinati sketch ai quali mancavano soltanto i couplets di Macario e gli sberleffi di Totò.
La platea ha finito col persuadersi dopotutto che sia uno spettacolo divertente anche quello di stare a vedere come uno è capace di barare genialmente e, salvo alcuni pallidi dissensi alla fine, la serata è trascorsa fra applausi festosi.
Carlo Terron