Stampa questa pagina

ARISTOFANE - Lisistrata

Tempo nº 40, 5 ottobre 1966

Mettiamo che, sia pure nel più liberale dei Paesi, l’Inghilterra, via, nel momento più aspro e drammatico dell’ultima guerra, quando era incombente il rischio di un disastro mortale, tale da costare l’invasione, l’indipendenza e il totale asservimento, uno scrittore in vista avesse avuto la temerarietà di scrivere una commedia dove chiedendo la pace a qualsiasi prezzo, fosse pure la sconfitta e la distruzione; nome e cognome, si dava dei nemici del popolo a chi aveva dichiarato la guerra, dei delinquenti a chi la mandava avanti, dei deficienti a chi la combatteva, dei profittatori a chi era favorevole e dei ladri a destra e a sinistra. Cosa sarebbe successo? Ipotesi palesemente inverosimile. Non sarebbe successo niente per la semplice ragione che, di una commedia del genere, non sarebbe stata messa giù nemmeno la prima battuta. Ma anche se sì, nessuno l’avrebbe mai messa in scena; se fosse stata messa in scena, l’avrebbero fermata prima della rappresentazione; se fosse stata rappresentata, la mattina dopo, tutti, dall’autore all’ultima comparsa, sarebbero finiti davanti a un tribunale.

Forse una volta sola, nella storia della civiltà, si poté verificare un caso simile. E fu duemilatrecentosettantasette anni fa, ad Atene, in piena guerra del Peloponneso, data della prima rappresentazione della Lisistrata di Aristofane, qualunquista all’acido prussico. Tanto valga a farci un’idea di quella che dovette essere la libertà nell’antica Grecia, ed eravamo già ai tempi in cui la democrazia periclea cominciava a vacillare. Vien, paradossalmente, ma con fondamento, da pensare che l’attribuzione di una funzione civile ai poeti sia un’invenzione nostra, venuta secoli e secoli più tardi; alla quale, allora, nessuno si sognava di pensare, e la letteratura fosse tenuta come un’attività innocua senza alcun rapporto con la realtà civile e politica. E in effetti, ad onta della sua aggressione d’una violenza mai più udita, armata di una oscenità insuperata e insuperabile; degli ignobili attacchi contro Socrate ed Euripide, in opere immerse fino al collo nella cronaca, nella attualità, nel pettegolezzo e nella calunnia: più che commedie nel senso comune del termine, altrettante edizioni speciali di un unico giornale satirico e scandalistico redatto dal più anticonformista dei conformisti e dal più immorale dei moralisti, ad onta di tutto ciò, non sembra che Aristofane abbia avuto qualche influenza sulla cosa pubblica.

È certo, comunque, che nessunissima ne ebbe la Lisistrata, dove,come si sa, le donne del’Ellade, aldiquà o aldilà del fronte: ateniesi e spartane, stanche della guerra, si alleano per mettere in atto uno sciopero erotico, rifiutandosi, sia pure a malincuore e con qualche tentativo di diserzione quando maggiormente si fa sentire il desiderio della carne, al loro primo dovere coniugale; decise ad imporre, a sé stesse e ai loro consorti, una ferrata castità, fino a che i pazzi uomini non si decidano a deporre le armi. Si potrebbe obbiettare che esse fanno bella figura gratis, rifiutando ai mariti qualcosa che già il solo fatto di essere al fronte rende loro impossibile, ma tiriamo via.

Anche leggendolo, come vogliono i suoi celebratori, in chiave di un’incoercibile esaltazione della gioia di vivere che unifica, trasfigura e sublima l’incessante altalena di prosaicità e lirismo, di volgarità ed eleganza, di rigido moralismo e sguaiata turpitudine, dove le più grossolane bizzarrie stanno a braccetto alle più gentili esaltazioni della natura e le iperboliche salacità da lupanare vanno a spasso con le virtuosistiche sofisticazioni letterarie, onde ogni momento in cui la satira scade nella parodia è compensata da un altro in cui la parodia si eleva a satira… lo scoglio critico, di fronte ad Aristofane e al suo sarcasmo al vetriolo, permane la contraddizione inconciliabile tra un’ispirazione inequivocabilmente realistica, aliena da ogni e qualsiasi trascendenza e un’incessante deformazione fantastica e metaforica: una battaglia ad armi pari, egualmente impari, tra la verità e la fiaba, sul corpo dell’attualità. Lo si è sentito anche nell’esecuzione che, portando al chiuso uno spettacolo che ebbe molto successo all’aperto, allinea il vecchio traduttore Ettore Romagnoli, il regista un po’goliardico Toni Rendhell, Lia Zoppelli e Paolo Carlini, con una trentina d’altri senza storia.

Carlo Terron

Ultima modifica il Lunedì, 15 Dicembre 2014 11:07
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

Ultimi da La Redazione

Articoli correlati (da tag)

Questo sito utilizza cookie propri e si riserva di utilizzare anche cookie di terze parti per garantire la funzionalità del sito e per tenere conto delle scelte di navigazione. Per maggiori dettagli e sapere come negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie è possibile consultare la cookie policy. Accedendo a un qualunque elemento sottostante questo banner si acconsente all'uso dei cookie.

Per saperne di più clicca qui.