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Anna BANTI - Corte savella

Corriere Lombardo, 5 ottobre 1963

Forse uno dei più drammatici, certo il più truculento quadro della Galleria degli Uffizi è una Giuditta e Oloferne, vedi combinazione dipinto da una donna. Portata fin quasi al delirio la suggestione del Caravaggio, il barbuto condottiero sinistramente illuminato da luci paradossali, se ne sta riverso col testone in primo piano, nel cui collo una popputa Giuditta, dall’occhio vindice, ferocemente fisso, sta lavorando di falcato spadone, aiutata, per la bisogna, da una servente non meno robusta di lei. È una scena di impressionante realismo, gocciolante sangue da ogni parte, con abbondanza sadica. Il quadro fu dipinto nel secondo decennio del Seicento da Artemisia Gentileschi, figlia naturale di Orazio Gentileschi, pittore anch’esso, di lei poco più celebre ed egualmente influenzato dalla rivoluzionaria lezione caravaggesca.

In duplice, suggestiva, funzione poetica e psicologia – come proposta di interpretazione freudiana dell’animo della protagonista – codesto quadro incombe nel migliore dei tre atti, l’ultimo, della commedia che Anna Banti, rielaborando in chiave teatrale a quindici anni dalla pubblicazione, il più noto dei suoi romanzi: Artemisia, col nuovo titolo Corte Savella – era il luogo pubblico dove si amministrava la giustizia a Roma – ha dedicato alla pittrice, ai casi sciagurati della sua adolescenza, al mistero della sua vita e all’ambiguità della sua arte.

Oltre che per la valentia del pennello – fra l’altro le si attribuisce un romantico trasporto platonico, una sorta di ideale matrimonio in bianco, protrattosi anche dopo la sua morte, per il Caravaggio, pittore notoriamente maledetto, anzi maledettissimo – l’Artemisia Gentileschi si raccomanda alla storia per  la vergogna di un processo a sfondo sessuale dove, sedicenne, figurò, e fu pubblicamente sottoposta a tortura, come querelante in una causa per subita violenza carnale ad opera di un altro pittore molto meno maledetto e glorioso ma non mano intraprendente e sporcaccione che frequentava casa sua quale amico del padre e maestro di lei: Agostino Tassi. Fosse giusta sentenza o si trattasse, come vuole la Banti, e non è improbabile, di un tribunale corrotto, lasciatosi intimidire e comprare dai soliti potenti a danno dei miseri, non vi saprei dire: fatto si è che il processo, conclusosi, a quanto pare, con una remissione di querela, imposta dal giudice, non si risolse con quel che si dice il trionfo dell’innocenza calpestata; e il caso, seguito, a poca distanza, all’allucinante processo Cenci – a proposito che l’ossessione e i drammi della sessualità sarebbero una caratteristica solo del nostro tempo! – oltreché parecchio scalpore, lasciò anche una pesante ombra sulla reputazione della fanciulla  e dell’ambiente degli artisti romani, la maggior parte di importazione – già a quel tempo, il loro quartier generale era via Margutta – i quali avevano molto meno da perdere di lei.

Ma, direte, che scopo può avere, oggi, portare alla ribalta una vicenda fra la storia e la cronaca, senza o una trasfigurazione fantastica che, deformando gli angusti dati realistici, ricrei nuovi personaggi e nuovi conflitti, infondendo in essi una diversa e prepotente vita poetica, oppure senza una forte e chiara idea che pieghi e prospetti il tutto nella unità e nella evidenza di una precisa concezione – e, di conseguenza, di un giudizio – morale, sociale o politico che sia, inequivocabilmente procedente in un determinato senso?

È un rimprovero che la commedia merita ma non del tutto, almeno dal secondo atto in poi. Colpevole o innocente che fosse la Artemisia, l’autrice ha intuito quale, diciamo, trauma psichico deve essere stato quel portare in pubblico la sua sventura, forzare i più gelosi segreti della sua vita privata, violentare, aberranti o casti, i suoi più delicati sogni di adolescente, l’ha intuito e ne ha fatto, con ardita ma efficacemente persuasiva forzatura drammatica, la chiave di una totale trasformazione psicologica e morale. Strappatole, a brani, dalle carni, il pudore, la fanciulla decide e mette in palio in quel preciso momento tutta la sua esistenza futura. Inalbera come una bandiera la vergogna e il disonore onde è stata ingiustamente bollata e ne fa la propria dolorosa e provocante impresa per una scelta di indipendenza, una vocazione d’arte e un destino di solitudine. Cessa la timida fanciulla vulnerabile e nasce una donna orgogliosa e una artista combattiva, in virtù di un’ angoscia inestinguibile ma feconda di umanità. 

Certo, il discorso non ha sufficiente ala per trasferire le risorse del talento, ed è parecchio, nelle sfere della poesia la cui aspirazione è evidente. Anche perché, non insensibile, anzi fin troppo attenta, al problema fondamentale della nuova letteratura italiana, narrativa o drammatica non importa: quello del linguaggio, la Banti cerca di risolverlo ricorrendo alla polidialettalità e facendo parlare, a seconda del luogo d’origine, alternativamente i personaggi in romanesco, ciociaro, fiorentino, livornese, veneziano, romagnolo e chi più ne ha più ne metta – e quando si trattasse di stranieri? Un cinese, esempio, un turco…? – badando, per giunta, a storicizzarli mercé una certa barocca sostenutezza e qualche vaga puntualizzazione arcaica. È un lodevole, intelligente e arduo tentativo critico alla ricerca di un non contingente strumento espressivo di verità; ma che, però, all’atto pratico, si risolve in un risultato semplicistico e approssimativo, solo pittoresco, per non dire falso. Già, a più esperienze del genere si assiste, e più ci si rende conto che il linguaggio di uno scrittore non è totalmente vero se non è totalmente inventato.

Inaugurando, ieri sera, la sua nuova e seconda sala, l’ex Politeama genovese, coi suoi mille posti e più, il Teatro Stabile di Genova vi ha speso intelligenza, cure e larghezza di mezzi, rimeritato da abbondanza di applausi. Le scene stupende e i costumi assai belli di Gianni Polidori hanno messo in grado Luigi Squarzina di articolare, anche sotto l’aspetto figurativo; una regia a tagli netti e a contrasti vividi di luce – che corrispondono, beninteso, a tagli e a contrasti di recitazione – evidentemente ispirata a realismo pittorico barocco. Dei quaranta e più attori, vanno ricordati la verità, la umanità e la duttilità di Paola Pitagora, maturatasi sotto gli occhi degli spettatori, da fragile  e spaurita ragazzina a forte e insolente matrona, la schietta energia  e la brutale  evidenza di Vittorio Sanipoli, la popolaresca carnalità della Maestri, la sensuale e irridente perversità della Cei, stupenda; la sordida bonomia del Rissone, il controllato umorismo del Giuranna, l’umana semplicità della Bacci, del Pagliai e del Mazzoli, la tortuosità del Pescara – il perfido genio che monta tutta la cabala dell’onta e della persecuzione – l’impegno della Di Lernia, della Greco, della Zanetti, della D’Alessio e della Messeri, malmaritate donne fiorentine dalla lingua a doppia forbice.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 16 Dicembre 2014 11:33
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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