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Gustave FLAUBERT - Bouvard e Pécuchet

La Notte, 30 gennaio 1969

A conti fatti, nel quadro della crisi, ahimè apparentemente irreversibile che ha investito i Teatri Stabili, quello che si difende meglio – diciamo: con una caduta frenata – nel generale scivolone sul piano inclinato al quale sembrano di non poter ormai più sfuggire, è ancora lo Stabile di Genova. Certo, anche per esso, gli anni del Diavolo e il buon Dio, di Uomo e superuomo, dei Due gemelli veneziani, di Troilo e Cressida vanno diventando un ricordo; il tempo irreversibile della giovinezza ardita e onnivittoriosa. Tuttavia, i suoi spettacoli permangono ad un livello che, se non è più quello delle passate glorie, non fa, per così dire, torto alla famiglia, come testimoniano i due allestimenti, pur così diversi l’uno dall’altro, e benché sotto certi aspetti discutibili, come prudenti escursioni nel passato, portati a Milano quest’anno.

Lo si è potuto constatare anche iersera, al Manzoni, assistendo alla riduzione a quattro mani di Tullio Kezich e Luigi Squarzina del Bouvard e Pécuchet di Gustave Flaubert, col quale le mani fanno sei. Riduzione che può lasciare, per più versi, perplessi e impersuasi, ma che è il massimo risultato ottenibile nel trasferimento di un romanzo dalle pagine alle ribalte. E di un romanzo, per giunta, che non è nemmeno un romanzo; che è rimasto incompiuto perché il suo autore stesso, dopo averci pensato e lavorato per decenni, dopo essersi documentato con la lettura di più di 1500 volumi e aver accatastato chilogrammi e chilogrammi di schede e di annotazioni, non seppe tirar fuori i piedi dal labirinto nel quale era andato a cacciarsi – non diverso, in ciò, dai suoi due rabelaisiani eroi – e che fu pubblicato postumo (1881) dando il via a una diatriba mai pacificata fra chi la ritiene un’opera mancata e chi lo giudica un capolavoro precursorio e avveniristico. In Francia, esempio, Borbey o Durevilly: è il “canto del cigno diventato uno strillo di oca”. In Italia, Emilio Cecchi: “una pretesa Divina Commedia alla rovescia: l’ epopea dell’intelletto che si riassorbe nella bestialità”.

Che cos’è dunque questo pezzo di romanzo che non è un romanzo? Domandiamoci, piuttosto, che cosa avrebbe voluto essere nelle intenzioni del suo autore: “…Penso che niuno abbia ancora tentato il comico di idee… “E’ possibile divertire con le idee tanto quanto coi fatti…” (E, tra parentesi, Shaw ce lo avrebbe insegnato)”…Una sorta di enciclopedia voltata in farsa… Il grottesco triste ha, per me, un fascino inaudito; risponde all’esigenza interiore della mia natura buffonescamente amara… Voglio produrre una tale impressione di fiacca e di noia che, leggendo il libro, lo si possa sospettare scritto da un cretino…”. Maupassant, il quale frequentava intimamente Flaubert fino a far sospettare che fosse un suo figlio naturale, e che, quindi, doveva saperne qualcosa, lasciò detto: “…E’ la torre di Babele della scienza, dove tutte le dottrine differenti, contrarie, assolute, esprimentesi ciascuna nel linguaggio suo proprio, mostrano l’inanità dello sforzo, la varietà dell’asserzione e la perenne meschinità di tutto”. È, mi pare, la definizione più azzeccata.

Che fanno, infatti, e dove approdano, se non a questo, i due solitari scrivani Bouvard e Pécuchet, incontratisi per caso e legatisi, subito, da una patetica amicizia che fa da colla al loro successivo comportamento e costituisce l’ineffabile benché umoristico tema lirico delle loro inesauste quanto aride sperimentazioni scientifiche, sentimentali, morali e materiali, subentrate a getto continuo?

Come sapete e, sennò, son qua io, quando Bouvard, ricevuta l’insospettata eredità di uno “zio” morto, che in realtà era suo padre, si stabilisce, con l’amico, in una fattoria di campagna; dove stimolati da un’indigestione di libri d’ogni materia e d’ogni seguito, danno sfogo alla giostra dello scibile in ogni sua forma, cominciando immancabilmente entusiasti e finendo, altrettanto immancabilmente, delusi, fino a pensare al suicidio. Agricoltura, chimica, medicina, geologia, archeologia, storia, letteratura, teatro, filosofia, rapporti sociali, magnetismo, spiritismo (lasciati fuori dalla riduzione teatrale), religione, educazione dei trovatelli, amore con le donne, sono altrettanti esiti disastrosi per i visionari autodidatti, così candidamente fiduciosi nel Progresso.

Alla fine i due riduttori hanno immaginato – come del resto sembrava dover essere la conclusione del romanzo – che i delusi, tornati copisti, si mettono a ricopiare, automaticamente e tosto, tutto lo scemenzaio del sapere al quale vollero dar fondo, vale a dire un’altra opera di Flaubert stesso: il Dizionario dei luoghi comuni. Kezich e Squarzina, ricorrendo anche a qualcosa tolto dall’ Educazione sentimentale, hanno cercato di rimediare per quanto era possibile, e non lo era molto, all’episodica monotonia di decine e decine di situazioni che, alla resa dei conti, son sempre la stessa, prevista e prevedibile, ripetuta all’infinito; inconveniente, penso, che bloccò la prosecuzione del romanzo e figurarsi un’opera di teatro! Dalla “farsa filosofica”, dove Flaubert effonde il suo mortale odio contro lo spirito borghese, è caduta la celata e profonda amarezza; così come l’originario sarcasmo ha virato verso una colorita, accelerata, variante e precipitosa féerie (prezioso, in ciò, l’apporto festosamente caricaturale della multiforme e multimobile scenografia del Pizzi) che imita, che mima, ma solo in superficie, una sostanza ideologicamente immobile e drammaticamente inerte. Lo spettacolo, nella regia, per così dire da padre a figlio, figurarsi quanto attenta e accurata di Luigi Squarzina, è godibile da cima a fondo, anche se si tratta di una festosità esteriore tutta di palcoscenico.

Fortuna che, filosofici clowns, ad incornare i due enormi, classici tipi, complementari e bisticcianti, talvolta, ma mai – questo è il guaio – in reale contrasto dialettico, ci sono Tino Buazzelli e Glauco Mauri, straordinari, non esagero: clamorosamente estroverso, il primo; nevrastenicamente introverso, il secondo, fatti segno a festeggiamento innumerevoli. Gli altri, una volonterosa trentina, tra i quali citerò il Giangrande, la Di Lernia, l’Ardizzone, la Dauro, la Braschi, il De Luca, il Dal Buono, sono semplice coro, parodistico assembramento di macchiette che fa quadro, ma non esprime una società.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 16 Dicembre 2014 11:47
La Redazione

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