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Federico DE ROBERTO - I Viceré

La Notte, 19 dicembre 1969

Sono talmente tanti coloro che partecipano alla riduzione-fiume di codesto romanzo-fiume che, se interrogati: che cosa fa il tale attore quest’anno? Basta rispondere: è in giro col Teatro Stabile di Catania a recitare I Viceré di Federico De Roberto (1866-1927), scenicamente ricuciti alla brava dall’inevitabile Diego Fabbri, e si va a colpo sicuro. Certo, soltanto uno Stabile, non costretto – beati loro! – a far quadrare i conti, in tempi in cui, per poter tirare avanti, le compagnie danno la caccia alle commedie con due soli personaggi, poteva permettersi un lusso e uno spreco simile. Anche facesse sempre teatri esauriti – e non li fa –, ecco uno spettacolo il quale, così a occhio, a dir poco, ci rimette almeno un mezzo milione ogni sera. Più si replica e più il deficit cresce: potrebbe essere il motto dei nostri Teatri Stabili. Vero è che ci sono anche le sacrosante spese di rappresentanza culturale a fondo perduto. Memore del suo passato spagnolesco, la Trinacria è miserabile e splendida; considerato che il napoletano De Roberto appartiene alla letteratura siciliana in genere e a quella catanese in particolare, s’è trattato di una follia che, se non si può condividere – soltanto un risultato artistico né ambiguo, né equivoco, né opinabile avrebbe potuto far tacere le riserve – si può, fino a un certo punto, comprendere. Veduto lo spettacolo altrove, per non apparire il solito Bastian contrario, non se ne parlò. Ora che esso è giunto a Milano – iersera teatro Lirico – certe cose occorre, se non altro, accennarle.

E, tanto per incominciare, va rammentata una verità che è ormai un luogo comune e la cui citazione è d’obbligo, senza eccezione, in tutti i casi che un romanzo viene trasformato in commedia: non è colpa di nessuno, ma una narrazione nata per la pagina – e tanto più quanto essa è riuscita ed importante – diventa inevitabilmente un pessimo affare, nel meno peggiore dei casi, un’altra cosa, quando venga traslocata e costretta nelle dimensioni del palcoscenico. Per poco che si debba pagare, sono lacerazioni, irrigidimenti, fratture, superficialità, oscurità, spostamenti di prospettive, alterazioni di tono e via discorrendo. Tra il racconto e il dramma, c’è la stessa differenza che corre fra un corpo vivo e caldo e la sua morta e fredda radiografia. Figurarsi, poi, trattandosi di un racconto sterminato, superstipato di personaggi e ingorgato di eventi come I Viceré! Per quanto scrupolo, accortezza e abilità Fabbri ci abbia messo, e ce ne ha messi tanti, il risultato non poteva essere che inadeguato nei confronti dell’originale. Non solo, ma, se uno non ha conoscenza recentemente rinfrescata del romanzo, rischia seriamente di non afferrarne il senso, se non addirittura le svolte e le giravolte della vicenda, nonché le coerenze e le necessità dei singoli esponenti della folla che vi si affanna dentro, e men che meno le loro parentele.

Dalla polvere agli altari. Come è noto, il romanzo, apparso nel 1894, rimase misconosciuto in quarantena press’ a poco fino a quindici anni fa, schiacciato, oltretutto, da un drastico giudizio di Benedetto Croce. Venuto il tempo della rivalutazione, mi sa, poi, che si sia esagerato in senso contrario, sino a metterlo a paro, se non a preporlo ai romanzi di Verga, parlando nientemeno del “più grande romanzo della moderna letteratura italiana”! Romanzo politico, fu giustamente detta questa “storia cronologica della dinastia degli Uzeda”. Se, qui, col suo verismo sottratto alla retorica rusticana, proletaria e borghese, con la sua fredda curiosità, il feroce sarcasmo, l’ ambivalenza di realismo e psicologismo, col mordente rilievo dei suoi personaggi antipatici – e lo sono quasi tutti – ma, diciamolo, anche con la visione arida e immisericordiosa del suo totale pessimismo e la sua tendenza all’enfasi e alla magniloquenza, De Roberto ebbe la visione storica che a Verga mancò, non ne ebbe però l’ umana commozione e manco ancora la facoltà poetica.

L’importanza dell’opera consiste nell’essere percorsa e pervasa da un tema che verrà ereditato di peso dal Lampedusa del Gattopardo; che ne fornisce l’unità e ne costituisce l’originalità: il tema dell’immobilismo siciliano. Il Risorgimento, il regime liberale e democratico nulla mutano, è sempre la stessa classe, diversamente camuffata a dominare e a prevaricare. Per quanto tutto cambi, in Sicilia nulla cambia. Nel caso specifico, gli Uzeda, antica e superba stirpe di maniaci, visionari, stravaganti bislacchi aristocratici che ebbe, negli ascendenti, dei viceré spagnoli, padroni del vapore furono e padroni del vapore rimangono e rimarranno, unico punto sul quale vadano d’accordo nel fatto inestricabile del loro albero genealogico, coi loro egoismi, contrasti, frodi, odi, tradimenti. Da autocrati borbonici a deputati al Parlamento italiano è sempre la medesima ruota che gira nel medesimo verso.

Fabbri ha rinvigorito una certa implicita tensione contestativa tra figli e padri, ha accentuato, soprattutto, il patetico della giovinetta Teresa costretta a sacrificare l’amore agli interessi della famiglia; ha specialmente conferito simpatia e un vago sentore protestatario e positivo al personaggio più estroso e rilevato del romanzo, l’incontinente, reazionario, furioso, sardonico e furfantesco Don Blajco, empio frate benedettino, canaglia sì ma, almeno, senza le tortuosità, gli infingimenti, le ipocrisie dei suoi innumerevoli parenti, e che Turi Ferro interpreta in maniera ammirevole. Buone intenzioni di uno scaltro uomo di teatro. Alla resa dei conti, però, si assiste non più che a una serie di tableaux vivants con figure esteriori e irrigidite da museo delle cere.

Lo spettacolo – scenografie mobili alla lunga monotone, un continuo avanti e indietro di Francesco Contraffatto e acconci costumi di Titus Vossberg – nell’insieme è fortunatamente di prim’ordine, inchiavardato da una regia dai solidi spessori drammatici di Franco Enriquez che vi ha trasfuso tutta la teatrale tensione del suo temperamento. Come faccio a nominare tutti i ben trentotto attori ognuno più che a posto, molti ottimi? Di Ferro ho detto. Ricorderò ancora Filippo Scelzo, Ennio Balbo, Ave Ninchi, Umberto Spadaro, Michele Abruzzo, Corrado Annicelli, Elio Zamuto, Leo Gullotta, Lorenza Biella, Ida Carrara, Fioretta Mari, Dora Calindri e chissà quanti altri meritevoli di menzione son costretto a trascurare. Pazienza e tante scuse.

Carlo Terron

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Dicembre 2014 11:51
La Redazione

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