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Georges SION - Il viaggiatore di Forceloup

Corriere Lombardo, 30 maggio 1952

“Surtout pas trop de zèle”, diceva quel tale. Essere troppo cattolici è come essere troppo fascisti: si nuoce alla causa. Ciò si verifica nel teatro e fuori. Quanto al teatro, è il caso, mi pare, di monsieur Georges Sion, giovane promessa della attuale scena belga; incubato, coltivato e diffuso dal gruppo del Rideau di Bruxelles il quale, come è noto, riconosce a scopo fondamentale della sua attività la ricerca e la rivelazione di un teatro moderno a qualsiasi corrente e nazionalità appartenga e purché abbia qualche cosa di nuovo da dire. Si tratta, insomma, di gente persuasa che una buona commedia inedita sia più importante di una bella regia accademica. Pare che l’autore esportato ieri sera, prima di porre la propria candidatura a puntello di turno della drammaturgia  neocattolica, avesse al suo attivo due o tre successi di genere né mistico, né pensieroso.

Per combinazione,  di questo Sion ho avuto occasione di conoscere La matrona d’Efeso rappresentata con fortuna incerta l’anno scorso a Parigi, e che m’è parsa una spiritosa e impertinente rielaborazione pervasa di originale ironia, del noto e boccaccesco episodio, così ricco di macabra buffoneria, raccontato del Satyricon. Chi avrebbe mai detto che, alla distanza di pochi mesi, il nostro giovane autore sarebbe passato dalle braccia di Petronio a quelle di Claudel spostando la propria ispirazione con una diligenza, francamente eccessiva per il mio gusto, su l’Annonce fait à Marie? Ma la grazia, si sa, è come la folgore. Una volta abbattuta sulla testa di un predestinato, non si può assolutamente prevedere dove lo può trascinare. Georges Sion si è limitato semplicemente ad esagerare. E ancor meno male che s’è fermato all’Annunciazione. Avrebbe potuto capitargli anche di peggio. Pensate ad esempio se al posto di Claudel avesse preso per modello Wagner. Andava a rischio di scrivere il Parsifal.

Per fortuna, ha scritto soltanto Le voyageur de Forceloup, leggenda, mistero, parabola, sacra rappresentazione, fate voi. Non sono i termini che difettano in questi casi. Pare che il problema religioso sia diventato l’esigenza del tempo. Oggi il teatro fancese è pieno di drammi, edificanti od empi, dove la mistica cristiana non fa che metter discordia fra l’amore umano e l’amore divino con le conseguenze più catastrofiche. Se si tratta di una seria e profonda esigenza, il teatro avrà tutto da guadagnarci, se si tratta soltanto di una moda, come al solito, avrà tutto da perderci. Noi staremo a vedere.

Tanto per cambiare, siamo nel solito Medioevo allusivo e appossimativo, così adatto alle esposizioni mistiche, di pellegrinaggi senza meta, ai miracoli a ripetizione, ai personaggi senza fissa dimora, alle processioni, ai lebbrosi e alle campane che suonano da sole. Tiriamo anche noi la campanella del cancello ed entriamo fiduciosamente nella fattoria di Forceloup per fare la conoscenza della famiglia dell’agricoltore Fabre. Il padrone di casa è assente. Ce l’aspettavamo. Difatti, egli se ne è andato in giro per il mondo in cerca della fede perduta. Speriamo che la trovi e intanto diamo un’occhiata alla parentela.

Sua moglie, Bella, è giovane, sana, sensuale e scarsamente mistica. Abbandonata dal consorte a scadenza indeterminata, essa s’è rifiutata di fare, come si dice, di necessità virtù. Ha accolto in casa un soldato di nome Guillaume, se ne è invaghita e lo ha messo nel letto del marito vivendo seco lui in concubinaggio. In questo dramma i borghesi vanno in giro e i militari stanno a casa. I due peccatori si dànno alla bella vita sotto gli occhi pieni di muto rimprovero della casta giovinetta Claire cugina dell’adultera. Claire è fidanzata a un onesto garzone: Doucet. Anche quest’ultimo è temporaneamente assente. Egli è a letto a casa sua immobilizzato da una piaga alla caviglia che non lo dice ma si dà tutte le arie di essere della buona e sacra lebbra.

Le cose stanno a questo punto quando entra in scena il protagonista: il viaggiatore ignoto. E’ un personaggio di una comodità straordinaria che bisognerebbe averne uno in ogni famiglia. Una specie di cartasciugante. E capirete subito il perché.

Commosso dalla malinconia di Claire, addoloratissima di non poter star vicina al suo innamorato per via della piaga al piede, egli esce, così per dire, in una frase che si rivelerà quanto meno imprudente: “Pur di veder contenti questi due cari ragazzi vorrei avere io il male del giovanotto”. Detto e fatto, scoppia un miracolo, il primo di una serie che non si fermerà qui. Doucet guarisce immantinente e vola beato fra le braccia di Claire, mentre l’ignoto contempla rapito in estasi una bellissima cancrena che si mette a rosicchiargli il malleolo. Entusiasmato da cotesto disturbo, egli ne trae subito conseguenze assolute e cariche di arcano avvenire. Capisce che la sua autentica vocazione è quella del sacrificio della carità e della santità, e si getta a capofitto, con lo zelo dei neofiti, per questa perigliosa strada. Da questo momento egli non farà che prendere su di sé il male degli altri. Eguale e contrario al re Mida che faceva diventare oro tutto quanto pizzicava, basta una parola, un pensiero, perché ogni specie di disgrazia vada a posarsi disciplinatamente sull’anima e sul corpo di questi nuovo Giobbe come sul più comodo degli attaccapanni.

Come metter fine all’empio amore di Bella? Presto fatto. Chiedere a Nostro Signore di essere caricato del tormentoso desiderio del soldato per lei. E il Signore – quasiché per N.S. fosse lo stesso, Tizio o Caio, purché il male venga  puntualmente conservato su questa terra – lo accontenta concedendone il passaggio dall’uno all’altro. Altro miracolo. Guillaume non gradisce più la appetibile fattoressa e l’abbandona lasciandola a bocca asciutta. Lei si dispera, fa scenate e tenta perfino di rimediare seducendo il guastafeste. Ma alla povera donna il trasloco dei desideri non riesce. E lui che ora divampa fin dentro alle ossa di tutti i torbidi e lancinanti desii onde è stato liberato il militare, deve patire le pene dell’inferno per non essere da meno del casto Giuseppe quando cadde sotto gli occhi, e le mani, della maritata  Putifarre. Innegabilmente il tatto e l’ingegnosità necessari a che una situazione simile non risulti tutta da ridere rappresentano un merito non indifferente che va riconosciuto all’autore.

Avanti pure. Sempre più difficile. Esaltato dall’evangelica e fanatica fissazione di perdersi per salvarsi, il mistico protagonista non pone più limiti alla sua ambizione. Il vertice del sacrificio viene toccato appena il padron di casa torna dal suo viaggio più inquieto e incerto di quand’era partito, senza, come era prevedibile, essere riuscito a trovare la Fede, per quante ricerche abbia fatto; e scongiura lo sconosciuto benefattore di aiutare anche lui. “Signore” – implora il nostro eroe –, “compi quest’ultimo trasferimento: passa a me la sua incredulità e introduci in lui la mia fede”. Occorre proprio avvertire che, anche questa volta, viene prontamente soddisfatto?

Noi restiamo prudentemente del vecchio parere che sia meglio scherzare coi fanti e lasciare in pace i santi, a meno, s’intende, di possedere qualità di genio tali da poter azzardare ciò che a pochissimi è stato consentito. Ad onta del nostro volterriano scetticismo, siamo persuasi che l’anima, la coscienza, la fede, la salvazione, la perdizione e così via, sieno faccende delicate e misteriose da toccare coi guanti; e ci rifiutiamo energicamente di concepire Dio come un volubile e accondiscendente proprietario di casa, ingeneroso anzichenò,  restio a concedere qualsiasi riduzione di affitto ai suoi locatori; pignolo come un ragioniere e disposto soltanto a traslocare da un appartamento all’altro non le grazie concesse, che sarebbe ancora simpatico; bensì le disgrazie, a seconda della richiesta dell’inquilino del piano nobile.

E cionondimeno, fatte queste riserve, non si può negare al copione né di mirare molto alto né di perseguire temi, dibattiti e situazioni ardui, rischiosi e non comuni, con ardimento pari all’abilità e con impegno pari alla disinvoltura. Dal punto di vista strettamente scenico, poi, esso riesce indubbiamente perfino a conferire una certa persuasiva suggestione spirituale a quel gioco di passaggi, alla fine automatico e previsto, che in sé e per sé, si direbbe più comico che serio, immergendolo in un’atmosfera verbale, genericamente poetica anche se non autenticamente lirica, ed eloquente senza essere retorica; dove il teatro, ingegnosamente,  manovrato con una discrezione che, però non esclude l’astuzia – anzi ne è il primo effetto – giunge a giustificare le buone intenzioni dell’autore e a garantirne non oserei proprio dire la assoluta sincerità – è un assunto sul quale non oso pronunciarmi -- , ma la dignità di un’ansia morale e il cimento di una preoccupazione religiosa, certamente sì.

All’ospitale successo che la platea del Piccolo Teatro ha decretato alla commedia, ha contribuito l’apporto di una recitazione netta, precisa e autorevole, senza fronzoli e fioriture, registicamente governata da André Deprez. Claude Etienne ha dato al protagonista un’assorta spiritualità, tesa e trascendente; le signore Nadine e Vernal recitarono, la prima con candida spiritualità, la seconda con carnale passione; e i signori Degan, Berger e Danois unitamente alla scena e ai costumi semplici e disadorni di Charles Godefroid figurarono degnamente contribuendo al buon esito dello spettacolo. L’autore era venuto espressamente a Milano per assistere alla sua commedia. Però, all’ultimo momento, non ha resistito alla tentazione di andare alla Scala (da notare: non si rappresentava il Parsifal).

Carlo Terron

Ultima modifica il Venerdì, 19 Dicembre 2014 14:23
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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