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CARMELO BENE - L'ultimo demiurgo del Teatro Europeo .-di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese

Carmelo Bene Carmelo Bene

CARMELO BENE 
L'ULTIMO DEMIURGO

DEL TEATRO EUROPEO

Da maledetto a nostro signore delle scene
di Riccardo Di Salvo e Claudio Marchese

Parodia e chirurgia della rappresentazione
Avrebbe oggi 80 anni il "divin Carmelo". Chiamato così da qualche critico teatrale nel 1977, quando l'attore – regista – autore raggiunse l'apice della parabola espressiva con il terzo tassello del trittico shakespeariano Riccardo III (da Skakespeare) secondo Carmelo Bene. Messa in scena funebre e onirica di quell'orrore del vuoto che il geniale demiurgo di Campi Salentina (Lecce) aveva sicuramente visto nelle raffigurazioni barocche della propria terra natia. Anche nel travestimento shakespeariano più europeo, iniziato con Amleto (1975) al Teatro Metastasio di Prato e proseguito con Romeo e Giulietta secondo Carmelo Bene (1976), il suo legame con il Sud originario restò di tipo edipico. Come accadde ad altri autori, da Verga a D'Annunzio, da Eduardo a Ruccello. Ognuno con la propria cifra stilistica. Nel caso più unico che raro di Carmelo il sovrapporsi nell'unico spazio, quello teatrale, del barocco pugliese e del melodramma verdiano, delle favole della provincia italiana che ricordano il primo Arbasino, le battute bisbigliate o urlate che ricordano il teatro artaudiano della crudeltà. Tutto questo accumulo per eccesso, rigoroso come uno spartito musicale, faceva emergere il segno di una scrittura debordante dove corpo e voce, luci e suoni, oggetti scenici e costumi creavano il teatro della vita, smontando la macchina della rappresentazione o riproduzione mimetica della medesima.
L'originalità di Carmelo Bene, "artista totale", come è stato definito da Mario Mattia Giorgetti su Sipario nel 2002, anno della scomparsa del demiurgo, consiste proprio nella polivalenza della sua scrittura. O meglio nell'eccesso orgiastico della sua presenza/assenza dietro i simulacri di Narciso o di Dioniso.
C'è una sterminata aneddotica a uso e consumo del pubblico bigotto e dei cronisti mediocri che Carmelo definiva ironicamente "gazzettieri". Il suo primo spettacolo Caligola di Camus debuttò al teatro delle "Arti" di Roma nel 1959, nell'incomprensione di pubblico e critica che si strapparono i capelli di fronte a quello che sembrava uno sberleffo del teatro. Una parodia grottesca della rappresentazione. Carmelo rischiò il linciaggio, ma proseguì riproponendo lo stesso spettacolo a Genova nel 1961. Tra provocazioni memori delle soirées futuriste e innovazioni, nasceva con Carmelo Bene la tumultuosa stagione dell'avanguardia teatrale italiana. All'inizio era parodia dei testi classici dell'Ottocento e del Novecento, rilettura irriverente al limite dell'osceno. Poi si trasformò in una vera operazione chirurgica sul corpo segnico del teatro. Scrisse il filosofo Gilles Deleuze, dopo aver visto a Parigi nel 1977 Romeo e Giulietta secondo Carmelo Bene e S. A. D. E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina, rilettura avanguardistica del tema sadiano masturbazione – voyeurismo, "...L'uomo di teatro non è più autore, attore o regista. È un operatore. Per operazione, bisogna intendere il movimento della sottrazione, dell'amputazione, ma già ricoperto dall'altro movimento, che fa nascere e proliferare qualcosa d'inatteso, come in una protesi..." (Bene Deleuze "Sovrapposizioni", Feltrinelli, 1978).

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Carmelo Bene una caratura degna di un diamante, l'ultimo grande attore – regista del teatro europeo.
Viviamo in una società "fluida" dove tutto scorre senza lasciare memoria. Così veloce e sfuggente come ci insegna il sociologo Bauman nel saggio sulla globalizzazione del Duemila "Modernità liquida" del 2011.
Carmelo Bene è stato, suo malgrado, in anticipo rispetto a questo mutamento antropologico. Come fu negli anni Sessanta contestatore prima del '68, prima del Maggio Francese che resta nella storia del costume come la pietra miliare della "imagination au povoir": quella che stravolse gli stili di vita, dando potere di parola ai "diversi".
Di quegli anni che noi abbiamo vissuto insieme con lui, scarsa memoria resta nei media. Fatta qualche rara eccezione: Rai Storia, a notte fonda, "quattro modi di morire in versi: Majakovskij, Blok, Esenin, Pasternàk". Rarissimo cult document del miglior Carmelo Bene. Voce recitante su sussurri e toni urlati, sberleffi istrionici e sguardi ingigantiti dal trucco nei primi piani. Occhi bistrati da "diva fatale" dell'iconografia novecentesca, Carmelo smontava i poeti russi con l'ironia dissacrante del teatro d'avanguardia da cui proveniva, prima di diventare mattatore del teatro europeo. Prima che il filosofo francese Gilles Deleuze scrivesse su di lui il saggio "Un manifesto di meno". Seguì un intervento provocatorio da parte dell'attore " Ebbene sì Gilles Deluze!".
"Tu sai, da ballerino e da filosofo – rispose l'attore – che è quello che siamo in chiave unica. Conosci l'indicibile, lo sprezzo di far mostra di sé sera per sera con tutto quello sforzo gladiatorio – idiota che ne segue...vanità!...Vanità...cos'è Teatro?".
Colpiscono queste parole dette da un operatore teatrale come Carmelo Bene: "Far mostra di sé sera per sera". Evento effimero, non glorioso né eterno. Una specie di scontro tra gladiatori e pubblico, simile ad uno spettacolo circense. Tutto questo per sottolineare l'inutilità dell'arte. Vanitas vanitatum, come nel teatro barocco che ci ricorda il nostro destino di creature destinate a diventare polvere dopo l'aureo splendore mondano.
Figlio del profondo Sud di cui cantò la tragica malinconia nel romanzo teatrale "Nostra Signora dei Turchi" (1966) e nella relativa riduzione cinematografica presentata alla mostra di Venezia nel 1968, Carmelo conosceva l'arte teatrale come messa profana della vita. Una messa dissacrante, visione della Madonna e dei Santi, dentro un quotidiano borghese degno del racconto della provincia italiana. Una moderna non – rappresentazione: teatro di una tranche de vie di stampo antinaturalistico, rito profano nell'epoca della desacralizzazione. Sia il romanzo che il film celebrano il teatro come sublime idiozia, sberleffo alla serietà dell'ego, con tutti i suoi attributi di coscienza e razionalità. Tra Artaud e Pirandello il romanzo racconta una storia non lineare in forma di recita fatta da un personaggio che finge sapendo di farlo. Come scrisse Ugo Volli nella prefazione di "Nostra Signora dei Turchi", "Questo falso romanzo... si può leggere e godere come moltiplicata e consapevole menzogna, come teatro".

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Voce musicale e occhio meduseo
Non abbiamo potuto vedere Carmelo "enfant prodige" ai suoi esordi, quando scandalizzava pubblico e critica nelle cantine dei teatri d'avanguardia romani. Fu un vero e proprio scandalo sui quotidiani. Arbasino, Flaiano, Chiaromonte scrivevano entusiasti di questo giovane folle e controcorrente che nelle cantine del Beat '72 provocava con riletture futuriste opere come "Caligola" di Camus (1958) e "Salomè" di Wilde (1964). A proposito della rilettura wildiana, lo stesso Arbasino scrisse alcune pagine su Carmelo nel saggio "Grazie per le magnifiche rose".
In pochi anni il geniale esule del Sud leccese, odiato dai critici ufficiali, si trasforma in una vera e propria icona. Con la trilogia skakespeariana da "Amleto" a "Riccardo III", Carmelo Bene inventa una vocalità e una gestualità che vanno oltre lo stile mattatoriale di Vittorio Gasmann, cresciuto alla scuola ottocentesca. Carmelo si dimostra figlio del Novecento, smontando i testi teatrali in brandelli scenici privi di un filo narrativo, giocando con la voce tra mormorii e urli sfrenati, bassi al limite del silenzio e calembour futuristi.
L'occhio vivente diventa visionario sullo stile dei grandi "Maledetti", da Rimbaud ad Artaud. Il trucco bistrato, le mani inquiete trasformano Carmelo in una maschera medusea. Volutamente sfigurata, occhio trasformato in sipario da cui i riflettori fanno uscire l'Io presente e/o assente. Col passare del tempo, mentre il corpo si trasforma in maschera totale anche la voce diventa notturna. Ecco il recital dannunziano liberamente tratto dalla tragedia pastorale "La figlia di Jorio", tra eros e misticismo folklorico. Infine una full immersion nei canti del poeta di Recanati tenuta nel palazzo del conte Leopardi. Qui l'attore è trasformato in suono. Canto polifonico che restituisce del poeta un'immagine antiretorica. Quella a cui si ispirò qualche anno fa il regista Mario Martone nel film "Il giovane favoloso" con Elio Germano.


Bibliografia su Carmelo Bene:
Arbasino, "Grazie per le magnifiche rose" (1965)
Augias, "L'anthyfisis di Carmelo Bene" in Teatro (1967 – 1968)
G. Bartolucci, "Carmelo Bene o della sovversione" in La scrittura scenica (1968)
M. Grande, "Prassi della teoria nel teatro e nel cinema. Un esempio: Carmelo Bene" in Quaderni della biblioteca (1973)
F. Quadri "L'avanguardia teatrale in Italia - materiali /1960/1976 –" (1977)
C. Marchese, "Il barocco delle avanguardie teatrali" in "Il geroglifico teatrale" Skakespeare & Company (1983).
M. M. Giorgetti, "Carmelo Bene: artista totale" in "Sipario" n. 634, aprile 2002

Ultima modifica il Domenica, 18 Marzo 2018 13:01

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