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E pur si muore! - "La bella morte" di Paola Fossataro

Lorenzo Marangon e Benedetta Laura nella lettura di "La bella morte" di Paolo Fossataro Lorenzo Marangon e Benedetta Laura nella lettura di "La bella morte" di Paolo Fossataro

E pur si muore!
Recensione "La bella morte" di Paola Fossataro

Ecumenico. All'incirca così potrebbe essere definito il testo di Paola Fossataro. "La bella morte" scardina il tabù della vita che si spegne, investendo il lettore di domande tanto grottesche quanto profonde, cercando di coinvolgerlo nel suo aspetto più sensibile. La scena vede l'intervento fisso di Filippo (Lorenzo Marangon) e della sua compagna (Benedetta Laurà), prossima alla vedovanza. Anche se non scritturata, della morte si percepisce la presenza incombente e la pesantezza insostenibile, tirate costantemente in ballo. Filippo regala al pubblico alcuni momenti della sua vita, gli ultimi: attimi di paura e fascino, di fronte ad un evento prima relegato soltanto alle pagine di cronaca nera. E pur si muore! Filippo è un uomo di cui si sa poco e di cui non si vorrebbe sapere niente; è un personaggio duttile, modellabile a suo piacimento. "[...] Il nostro immedesimarci in lui è involontario ma inevitabile. [...]" scriveva Harold Bloom. "In parte ci terrorizza perché quell'aspetto della nostra immaginazione è così spaventoso: pare trasformarci in ladri, assassini, usurpatori e stupratori. [...]"1. Il critico parlava di Macbeth, è vero, ma qualche somiglianza salta spontanea all'occhio. Il protagonista ritiene immeritata la morte, considerata una colpa, una punizione per qualche grave torto commesso. Ma se tutti muoiono allora tutti hanno qualcosa per cui giustificarsi. "E tu cos'hai fatto?" viene chiesto agli spettatori, costretti a darsi risposte che non esistono. Viene dunque stravolto il concetto brechtiano di pubblico produttivo, critico e creativo che non entra più attivamente in causa ma la subisce, senza diritto di controbattere. Da qui, la speranza arrogante di controllare la morte decidendo di presentarsi a lei vestito di lino, profumato con oli pregiatissimi, senza sepolcro e con le braccia in posizione definita. E paradossalmente Filippo ci riesce: il suo personaggio è già morto in scena, perché ha deciso come affronterà il trapasso in una battaglia di cui si sa già il vincitore. È però anche una sorta di eroe: stabilisce lui quando morire. La sua folle rincorsa alla vita, cercando disperatamente di ottenere qualche secondo in più, si trasforma, durante il monologo alla dama nera, in un accordo tra amici di vecchia data. Ha già conosciuto la morte, ma come vita: due facce della sola medaglia che ci permette di essere unicamente autentici. E Filippo sembra averlo capito, sebbene continui ad ardere in lui la fiducia nella risurrezione. La compagna, annichilita anch'essa, non ha nome, non ha identità. Una spettatrice ostinata che ha il coraggio di contrattaccare ma alla quale Filippo affida la sua salvezza. Un testo ricco di interrogativi che insieme attira e sgomenta. Un elastico drammaturgico che lascia il segno.
1 Macbeth (W. Shakespeare), I libri del Corriere della Sera – William Shakespeare – Opere N. 5, Presentazione di Harold Bloom p. 6, ed. Milano: BUR, 2012.
Giovanni Moreddu – 12 Ottobre 2018

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Ottobre 2018 21:48

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