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Festival Territori, dal 12 al 16 luglio 2016 - L’inquietudine contemporanea, in scena a Bellinzona.a cura di Niccolò Lucarelli

"Sortilegi per marito straniero", scritta e interpretata dalla ballerina ucraina Victoria Myronyuk "Sortilegi per marito straniero", scritta e interpretata dalla ballerina ucraina Victoria Myronyuk

L'inquietudine contemporanea, in scena a Bellinzona

Al Festival Territori, dal 12 al 16 luglio 2016. www.territori.ch

BELLINZONA - Quaero hominem (cerco l'uomo). Così rispondeva il filosofo Diogene, a chi gli avesse chiesto cosa stesse facendo con una lanterna in mano, in pieno giorno. Per l'edizione 2016 del Festival Territori, il direttore artistico Gianfranco Helbling sguinzaglia l'uomo alla ricerca di se stesso, costruendo un cartellone dedicato alla migrazione, all'anelito di nuovi territori, siano essi fisici o mentali. La nostra epoca è dominata dalla paura, dal disagio, dall'insicurezza, dalla povertà e dalle catastrofi naturali, e le recenti vicende mediorientali (ma non solo) sono la causa di imponenti migrazioni di massa verso l'Europa. Anche su queste si riflette a Bellinzona, perché argomento di stretta attualità. Tuttavia ci sono anche migrazioni meno visibili, legate a una sfera intima e mentale, ma non per questo meno dolorose, o ancora "viaggi" intrapresi attraverso cambiamenti di metodo o autentiche rivoluzioni. Il territorio è un concetto dall'estensione quasi infinita, ha sfumature geografiche e fisiche, ma soprattutto culturali e psicologiche, e include svariate dinamiche relazionali. Soprattutto su queste si è concentrata l'attenzione dei 19 spettacoli che in cinque giorni hanno animata la città.
Noi, ne abbiamo visti e recensiti alcuni:

La suggestiva performance di teatro-danza, Sortilegi per marito straniero, scritta e interpretata dalla ballerina ucraina Victoria Myronyuk, affronta, fra ironia e realtà, superstizione e fascino femminile, la ricerca di un marito occidentale quale carta vincente per ottenere il visto d'ingresso in Europa, oppure la loro cittadinanza. Matrimoni quasi sempre di comodo, che nascondono un giro economico dai grandi numeri, dove i sentimenti non entrano nemmeno per errore. Nonostante questa triste evidenza, Myronyuk immagina che a portare compimento questi matrimoni, siano in realtà alcuni incantesimi che le donne ucraine compiono per legare a sé un marito occidentale.
A ognuno degli spettatori, X distribuisce il "vademecum" dello spettacolo, e fra una coreografia e l'altra accompagna il pubblico nella lettura, di modo che la performance diventa una sorta di rito collettivo, in cui ognuno dei "sortilegi" è introdotto da una danza propiziatoria, le cui movenze sottolineano la gestualità meccanica del corpo, quasi ci trovassimo davanti a una serie di scatti cronofotografici di Eadweard Muybridge, e a uno studio di biomeccanica, di cui fu precursore. Canti propiziatori fra religioso e profano accompagnano questa sorta di danza spirituale per compiere sortilegi legati al mondo arcaico e naturale della tradizione ucraina, con l'utilizzo di piante, cereali, fiori, tipici di un'alimentazione e una farmacopea contadina. Emerge quindi lo stretto rapporto, fra superstizioso e devoto, con il mondo naturale, considerato diretta emanazione di Dio; un mondo e una cultura che chi emigra è costretto a lasciarsi alle spalle, sradicandosi dalle proprie radici.

Dada

Un territorio ben diverso, è quello esplorato dal radiodramma Dada, scritto e diretto da Flavio Stroppini, che, fra invenzione e realtà, racconta il clima di euforia che infiammò la notte del 14 luglio 1916, quando a Zurigo, al cabaret Voltaire, nacque il movimento Dadaista, con il fermo e ambizioso proposito di rifondare l'arte europea e mondiale. Mentre il Vecchio Continente era in gran parte sconvolto dalla guerra, a Zurigo si gettavano le basi per una nuova visione artistica, partendo dal presupposto per il quale "la testa è rotonda, così il pensiero può cambiare direzione". Il movimento Dada rappresentò una sorta di migrazione del pensiero, sradicamento di idee e valori; arte, politica, religione e quant'altro, avrebbero dovuto essere ripensate, compiendo un viaggio verso un ignoto che si presupponeva migliore. Sullo sfondo, anche le teorie di Lenin, anch'egli presente a Zurigo nel 1916, e impegnato a organizzare una rivoluzione sociale che avrebbe sradicato un sistema ormai millenario. Tuttavia, secondo alcune fonti, riportate dagli autori dello spettacolo, il nome del movimento potrebbe essere stato suggerito proprio da lui, che gridò "da, da" (sì, in lingua russa), in segno di approvazione di un'esibizione di una ballerina al Cabaret Voltaire, che frequentava quando la preparazione della rivoluzione gli lasciava tempo libero.
Il radiodramma è recitato con la tecnica dell'olofonia, che distribuisce voci e suoni (ascoltati in cuffia), tutto attorno a ogni singolo ascoltatore, come una sorta di proiezione su tre dimensioni, e restituisce l'atmosfera "frizzante" che caratterizzò il movimento dadaista. A dar voce agli artisti dell'epoca, Claudio Moneta, Matteo Carassini, Davide Garbolino, Jasmin Mattei, Luca Maciacchini e Riccardo Ruggeri.
Tristan Tzara, Lenin, Sophie Treuber-Arp, James Joyce, sono alcuni dei protagonisti di quella febbrile notte, in cui ci si interrogò sulla necessità del gesto artistico, su quale gesto utilizzare per rivoluzionare l'arte, così come le fondamenta del pensiero, demolendo le basi della logica. La distruzione della memoria dovrebbe essere la prima scintilla da cui far scaturire la prima scintilla rivoluzionaria.
Trattandosi di un radiodramma, non vediamo la scena, ma questo permette al pubblico di immaginare come meglio crede l'atmosfera di quella notte, aiutato anche dal clima di euforia apportato dalla recitazione in musica delle poesie dadaiste, insiemi di sillabe accostati per assonanza, esempio di pura creazione in libertà. A queste, si affianca una colonna sonora composta da brani di canzoni, stralci di trasmissioni radiofoniche, quadri ambientali, che si innestano sul serrato dialogo fra gli attori, a sua volta costituito da conversazioni che si intersecano e si sovrappongono a vicenda, a metà fra l'umoristico e il filosofico.

Twilight

A metà fra teatro e istallazione artistica, Twilight (della compagnia ticinese Trickster-p), è un'esperienza sensoriale fra luce e ombra, con le luci ora fisse, ora lampeggianti, ora spente. Una luce artificiale che suggerisce un lisergico tramonto, e una colonna sonora fatta di scrosci di pioggia, tuoni, stridii di auto in corsa, ossessive melodie al pianoforte, su una sola nota. Tuttavia, c'è un ordine armonico nella distribuzione dei suoni. Un esperimento teatrale che si avvicina alla concretezza di Stockhausen.
Il pubblico si trova sorpreso e spaesato, perso fra luci e suoni, in un'atmosfera fra l'onirico e l'ossessivo, ma che indubbiamente favorisce il raccoglimento interiore, la concentrazione sui propri pensieri, lontani dal caos dell'esistenza quotidiana. Alla stregua di De Maistre, che scoprì se stesso fra le mura della propria camera, Cristina Galbiati e Ilija Luginbuhl ci invitano a compiere un analogo viaggio, fra le mura della Sala Arsenale di Castelgrande, appositamente adattata. Il pavimento costituito da lastre di acciaio specchiato riflette, raddoppiandole, le luci calate dal soffitto, come fossero stalattiti di una qualche oscura caverna. Immerso nella semioscurità della sala, il pubblico reagisce in vari modi: qualcuno è appena atterrito, un paio sembrano annoiarsi, ma la maggior parte si rilassa beatamente lasciandosi trasportare dal flusso lumino e sonoro, che sul finire cambia bruscamente atmosfera, con un jazz da music hall sparato a tutto volume, e ironicamente "ballato" anche dalle lampade del soffitto, che si agitano seguendo il ritmo scatenato.
Nel finale, tutto sfuma nel silenzio e nel buio più completi, prima che le luci si riaccendano e questo viaggio dentro noi stessi abbia termine.

Roberta cade in trappola

Il Festival Territori si è chiuso sabato 16 luglio, con il delicato Quando Roberta cade in trappola, uno spettacolo scritto e interpretato da Roberta Bosetti e Renato Cuocolo, costruito come una scatola magica, dove il passato contiene il presente, ed è da questo contenuto; si tratta di un testo dal forte carattere psicologico e metaforico, sorta di autoanalisi nell'estremo tentativo di continuare a guardare avanti, pur in mezzo a una profonda depressione.
L'attrice siede a un tavolo, e recita con un microfono, quasi come dovesse interpretare un radiodramma, ma anche per suggerire l'idea della distanza. Roberta, infatti, è prigioniera del suo passato e parla dal lontano "pianeta G570"; il nome, è quello di un vecchio modello di registratore degli anni Settanta, su cui sono incise la sua voce, e quella di amici e persone più o meno conosciute; le ricordano momenti del passato, più o meno felici. In ogni caso, si tratta di un passato concreto, al quale la donna vuole rimanere attaccata, trovandovi l'unica ancora di salvezza alla depressione che la attanaglia da quando è morta sua madre, figura per lei di riferimento, dopo che ad appena tre anni ha perso il padre. Una morte difficile da elaborare, cui ha fatto seguito un periodo di irrequietezza, frequentando svariate persone. Amici veri, amici presunti, semplici conoscenti, ognuno dei quali le ha però lasciato un ricordo, positivo o negativo che sia, sottoforma di una cartolina, una fotografia, una serata trascorsa insieme. Mentre la donna racconta queste vicende, sullo sfondo (dirette da Cuocolo), scorrono le immagini di gusto iperrealista, tratte dal suo diario, realizzato incollando sulle pagine una serie di fotografie, bizzarri ritratti che interpretano, più che descrivere, il personaggio in questione. Un periodo controverso, quello, vissuto in giro per il mondo, fatto di incontri sfuggenti, con persone che per una ragione o l'altra si allontanano da lei, chiamati da tutta una serie d'impegni. C'è quindi un costante senso di perdita, un po' come nei racconti di Raymond Carver, dopo il quale resta il rimpianto per quelle amicizie intense ma ormai finite, come quella per Cristina, forse la più sensibilmente vicina a Roberta, che molto spesso ha incontrate persone ipocrite e superficiali, non interessate ad ascoltarla e a lenire la sua sofferenze interiore. Dopo anni di psicanalisi e psicofarmaci, decide di abbandonare il percorso, e affidarsi all'ascolto del suo passato, l'unica cosa che abbia una forma compiuta, nel caos del suo presente.
Uno spettacolo in forma di monologo, intimo e sofferto, interpretato con grazia e intensità, caratterizzato da un'illuminazione soffusa, come si addice a un'atmosfera del genere. Un disperato tentativo di fuggire da se stessi, l'unico territorio che non sarà mai possibile lasciare, e che può persino trasformarsi in una trappola nella quale ci ritroviamo quasi sepolti vivi.
Il Festival Territori si conferma una dinamica finestra sul teatro, in particolare quello giovanile e sperimentale, e un'arena di discussione e riflessione sulla natura intima dell'essere umano.

Ultima modifica il Mercoledì, 27 Luglio 2016 00:15

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