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2° Edizione IL CORTILE-TEATRO FESTIVAL DI MESSINA - “Lo scoglio del Mannaro”, di e con Simone Corso. -di Gigi Giacobbe

“Lo scoglio del Mannaro” di e con Simone Corso. Foto Giuseppe Contarini “Lo scoglio del Mannaro” di e con Simone Corso. Foto Giuseppe Contarini

Lo scoglio del Mannaro
di e con Simone Corso
Collaborazione artistica: Adriana Mangano
2ª Edizione de "Il Cortile. Teatro Festival"
Palazzo Calapaj-D'Alcontres 6 agosto 2018

Che il giovane Simone Corso di Patti, adesso 28enne, fosse un talentuoso drammaturgo nonché un eccellente attore, ce n'eravamo accorti almeno da tre anni, da quando abbiamo assistito a due sue pièces d'impegno civile titolate Contrada Acquaviola n.1 e a Vinafausa. In morte di Attilio Manca, (entrambe recensite su questa rivista) in cui al dialetto siciliano s'alternava efficacemente una scrittura in lingua. Una caratteristica espressa anche in questa sua più recente opera, Lo scoglio del Mannaro, che ha debuttato all'interno del Palazzo Calapaj-D'Alcontres di Messina all'interno della 2ª Edizione de Il Cortile Teatro Festival diretto da Roberto Bonaventura e Giuseppe Giamboi. Sulla piccola scena Simone Corso di nero vestito inizia il suo racconto in un dialetto che sarebbe piaciuto molto ad Ignazio Buttitta per i versi poetici che districano duri quasi in rima e che hanno il dono di mostrarci visivamente come il popolo di Patti, nonostante cinto da fortificazioni fatiscenti, sia riuscito a difendersi, utilizzando soltanto pietre e mazzacani d'ogni misura, dagli attacchi dei saraceni che arrivavano per mare da Lipari, costringendoli infine alla ritirata. Dopo lo scontro vittorioso si rinviene sulla spiaggia un cadavere di rosso vestito, riconosciuto poi come Sefìr, fratello del primo Rais Dragut, che aveva la diceria d'essere un potentissimo mago e come tale un personaggio temuto dai cittadini pattesi che non sapevano come sbarazzarsi del pericoloso involucro: perché se l'avessero fatto scivolare in mare poteva infettare i pesci buoni da mangiare: se l'avessero bruciato il suo spirito poteva infestare case e chiese. Che fare dunque? Qui entra in gioco Lo scoglio del mannaro che nel racconto di Simone Corso non è più un superbo pezzo di roccia nera ben visibile da ogni angolo di Patti, ma un isolotto calpestabile, ricco di vegetazione e abitabile. Una location quasi da Robinson Crosue venuta in mente al vescovo Arnaldo che esorta un gruppo di pescatori a lasciare colà il corpo di Sefir, senza avere avuto il tempo costoro, per la troppa paura, di chiudergli gli occhi definitivamente perché dopo averlo gettato velocemente come un sacco sono scappati via come lampi in una notte di luna piena in cui gli occhi di Sefir si aprono, si riempiono di desiderio di vita e u spiritu malvaggiu d'u majaru si ruspigghia cu li vesti d'un mannaru! (lo spirito malvagio del mago si risveglia con le vesti d'un mannaro). Adesso dopo un salto almeno di quattro secoli, Simone Corso inforcati un paio di occhialini, simili a quelli indossati da Gandhi, e chiuso il colletto della camicia alla coreana, dice d'essere Edward Hutton studioso classico, scrittore e viaggiatore inglese, i cui suoi interessi lo conducono a Tindari e poi a Patti accompagnato da un pastore di capre che gli parla di quello scoglio lontano abitato da quattrocento anni da uno stregone saraceno che nelle notti di luna piena si trasforma in un lupo mannaro. Una storia incredibile che in una sera d'aprile del 1926 gli racconta meglio nei suoi particolari un pescatore chiamato Don Calogero, cui lo scrittore, senza essere uno Sherlock Holmes, non crede cercando tuttavia di scoprire cosa si nasconda dietro, anche perché è impossibile che qualcuno possa vivere 400 anni. Perché un prete con la sua barchetta tre quattro volte al mese deve portare in quel luogo roba da mangiare a base di pane uova, ortaggi e formaggi, tolti al popolo di Patti per vivere tranquillamente? Un interrogativo che lo scrittore risolve facendosi accompagnare da Don Calogero su quello scoglio, scoprendo che in una baracca vive di nascosto un tale di nome Luca Visalli, di professione spazzino, che era stato costretto anni prima durante la peste ad avvelenare l'acqua dei pozzi per disposizioni comunali per ammazzare i menu valenti e forti e pi farila cchiù prestu cu cu era già malatu e che poi è dovuto scappare rifugiandosi su quello scoglio vivendo come un eremita, dove una roccia forata da parte a parte emanava un sibilo molto vicino all'ululato d'un lupo. Un cuntu ricco di particolari e di dotti riferimenti come può leggersi su alcune pagine di Vincenzo Consolo e di Gesualdo Bufalino.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Sabato, 11 Agosto 2018 07:39

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