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BIENNALE TEATRO 2019. Se gli oggetti valgono più delle parole e poi arriva il rap di Cirano. -di Nicola Arrigoni

"War", regia Jetse Batelaan "War", regia Jetse Batelaan

Biennale teatro 2019
Se gli oggetti valgono più delle parole e poi arriva il rap di Cirano
Da War di Batelaan a Mystery Magnet di Warlpop: la drammaturgia è materia
di Nicola Arrigoni

La drammaturgia è azione, è racconto che si compie non necessariamente a parole. Generare azione è dopotutto l'etimologia del termine 'drammaturgia', un'azione che in teatro sa essere rito, visione. In questo sta il plurale scelto da Antonio Latella per il terzo atto della sua Biennale Teatro dedicata alle drammaturgie. È questo plurale che sintetizza la riflessione condotta intorno al termine drammaturgia e alle sue molteplici modalità espressive. A questi aspetti sembrano rifarsi alcuni degli spettacoli visti in apertura di rassegna. Il leone d'argento Jetse Batelaan dopo The story of the story ha proposto al Goldoni il suo War. In questo caso l'azione drammaturgica è tutta nello spazio scenico, una sorta di camera in cui sono ammassati i più svariati oggetti che a uno a uno cadono, sembrano dotati di vita propria, si spostano, si scontrano, una caduta ne provoca altre... I bambini in sala ridono, ma quel movimento sembra poter far presupporre altro: fra quelle quattro mura accade qualcosa che inquieta e diverte al tempo stesso. L'ingresso di tre graduati s'inserisce in quello spazio come un elemento di variazione, si parla di guerra e nel cadere degli oggetti si svela la scritta: GUERRA. I tre sono creature clownesche, interloquiscono con pubblico, uno di loro si fa male, gli sanguina il naso e chiede aiuto a un tecnico per avere un fazzoletto. Uomini e oggetti sembrano essere in balia di quello spazio che si connota come carico dell'attesa di qualcosa di ineluttabile. I tre finiscono col litigare, sollecitano la partecipazione del pubblico che all'aprirsi di una tazza del water appesa alla parete frontale deve produrre i suoni di un bombardamento. La guerra è un gioco, un gioco che si svolge su un confine sottile fra divertimento e crudeltà. Basta superare quel limite e lo scherzo diventa violenza, il fratello si trasforma in carnefice, l'altro diventa nemico. Si sa in tanta tensione – quella che malgrado la leggerezza si respira nella stanza/magazzino ed è espressa dall'atteggiarsi guardingo dei tre - ci scappa la scintilla che fa scattare la guerra: una battaglia di palline rosse gettate in platea e rilanciate sul palco dal pubblico divertito. In tutto questo gioco e riflessione trovano un loro equilibrio, attraverso l'azione dei tre militari/clown, attraverso il coinvolgimento del pubblico. Come per The story of the story sarebbe stato interessante vedere lo spettacolo – pensato per i ragazzi – in un teatro pieno di bambini: la battaglia delle palline sarebbe stata totalizzante, più di quanto non sia stata nella replica alla Biennale. La calma dopo la battaglia, lo sguardo allampanato dei tre e la speranza che la guerra sia finita, che una soluzione altra ci sia sono strazianti e raggiungono il cuore degli spettatori, grandi e piccoli. La potenza dello spettacolo War sta nella capacità del regista olandese di affrontare il tema della guerra con inedita leggerezza, senza risparmiare ai piccoli spettatori gli interrogativi sul non senso dell'azione bellica, sulla necessità di coltivare la pace, sull'interrogativo perché mai l'uomo non riesca a trovare una soluzione migliore per risolvere condizioni conflittuali della guerra e della violenza. Un interrogativo che ci si porta via e che in un certo qual modo si collega allo spettacolo Mauser del regista Olivier Frljic. A tale proposito pare interessante sottolineare come il programma della Biennale Teatro di Antonio Latella viva di interessanti richiami interni di carattere semantico e tematico, aspetti questi che intrecciano gli spettacoli in cartellone in una sorta di filo conduttore, in una drammaturgia della proposta artistica volta a sollecitare una riflessione non solo sul modus narrandi, ma anche sul tema narrato: in questo caso la guerra e le sue ricorrenti atrocità. Nessun desiderio di fare la morale o dare risposte, ma la possibilità di accostare estetiche e racconti che spetta poi allo spettatore connettere, leggere per similitudini o differenze.

mistery-magnet

Puro divertimento è invece Mystery Magnet di Miet Warlpop. Si arriva in sala e in scena c'è un grosso uomo riverso a terra. L'uomo si alza e da qui prende il via tutta una serie di azioni. Entrano tre allampanate paia di pantaloni che fanno pipì colorata, entrano figure con enormi capigliature colorate, una pioggia di freccette arriva da dietro, mentre l'uomo grasso sta a penzoloni, conficcato nella parete bianca che pian piano si colora... Action painting e un giocoso susseguirsi di figure improbabili, di donne cavallone, l'esplodere e il fiorire di sostanze cromatiche danno corpo ad un caos creativo che a tratti nel suo comporsi sembra riecheggiare le creature di Max Ernst, oppure certe visionarie creazioni di Dalì. Si tratta di riferimenti iconici e artistici che lo sguardo dello spettatore va cercando, quasi a non volersi far incantare e spiazzare dall'azione pura e forse dal puro gioco che non conosce necessità rappresentativa, né di racconto. Ciò che accade davanti agli occhi dello spettatore è un divertissement, forse sono i sogni erotici dell'uomo grasso. Si ha l'impressione di essere davanti a uno spettacolo pirotecnico in cui materiali e colori si fondono con l'ingresso di uno strampalato coretto di pupazzi che compaiono sulla fine quando la parete si apre per svelare una sorta di laboratorio della creatività. Su tutto dominano ritmo, abilità tecnica, ma soprattutto un racconto che chiede di essere goduto con leggerezza, il cui significato appare oscuro o forse semplicemente non c'è. Mystery Magnet mantiene dunque il proprio mistero e offre al pubblico il piacere un po' compiaciuto di un teatro di figura tutto compreso nel suo essere stupefacente drammaturgia di oggetti. L'invenzione scenica di Miet Warlpop conferma come si possa fare drammaturgia con la costruzione fisica e visiva di una serie di azioni performative che non necessariamente chiedono di essere racconto, ma sono semplicemente nel loro accadere.

ciranoNA

Poi improvviso, sorprendente, esaltante arriva Cirano deve morire di Leonardo Manzan e Rocco Placidi, vincitore della Biennale College Teatro 2018/2019, presentato in prima assoluta, messinscena affidata a tre interpreti di possente intensità Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini e Paola Giannini, sostenuti dalle musiche di Alessandro Levrero e Franco Visioni. Manzan e Placidi riscrivono il testo di Edmond Rostand rappandolo, fanno loro il punto di vista di Rossana, raccontano di due amanti per certi versi mancanti e destinati a perire per mano della stessa Rossana che rivendica la volontà d'essere amata senza inganni. Cirano deve morire si avvale di una riscrittura potente che dialoga alla perfezione con la musica e trasforma la vicenda del bel Cristiano e del nasuto Cirano in un concerto rap che si compie fra impalcature di tubi d'acciaio, in uno stile elegantemente metropolitano, con gli attori in abiti secenteschi con bel contrasto visivo. Si canta, ci si diverse, fra rime, assonanze, riferimenti al teatro e alla Biennale in un gioco metateatrale un po' ruffiano ma che funziona e chiama a sé il pubblico. Motivetti orecchiabili, le parole che risuonano come musica, la musica che si fa racconto si intrecciano. Cirano deve morire regala una energia creativa che contagia e diverte, peccato che sul finale il testo originale abbia la meglio, qualche ammiccamento erotico di troppo scada nella gratuità e il lavoro perda di intensità. Malgrado questo Cirano deve morire è un esempio di lucida e intelligente riscrittura drammaturgica, ma soprattutto sarebbe uno spettacolo da programmare ovunque, in grado di portarsi dietro ragazzini dai 14 anni ai 90... Peccato che l'allestimento – elegante e raffinato – viva e muoia alla Biennale Teatro per la scelta dell'ente di non far circuitare le produzioni nate in seno al College Teatro. Recuperando il disegno di senso – messo in atto dal direttore Latella – con Cirano deve morire ci si trova a confrontarsi con una drammaturgia di un giovanissimo autore di soli 26 anni, con una regia fresca, ma soprattutto con la capacità di mischiare i linguaggi, di lavorare sul ritmo unendo parola e musica, chiedendo agli attori una prova interpretativa di grande intensità espressivo/vocale a cui assolvono con convincente maturità. Nell'ansia di documentare le diverse modalità di costruzione drammaturgica, il lavoro under 30 di Biennale Teatro dimostra come la semantica tradizionale della scena s'addica ai millennials, semantica che gli under 30 dimostrano di saper smontare e rimontare con creatività e intelligenza, non necessariamente mossi da furore iconoclasta, ma piuttosto intenzionati a recuperare nella tradizione del testo ciò che per loro risuona e a trasformarlo nel linguaggio loro più consono.... E allora ben venga Cirano rap, ben venga l'atmosfera da concerto e la voglia di divertirsi con ironia e divertimento... per un teatro vivo e capace di dire dell'oggi e del presente senza atti sterilmente rivoluzionari. Ancora una volta dai ragazzi di Biennale College arrivano le indicazioni reali di un teatro che sa esser e stare al passo con i tempi.

Ultima modifica il Sabato, 03 Agosto 2019 17:43

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