giovedì, 28 marzo, 2024
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Benevento, Città Spettacolo

Ugo Gregoretti Ugo Gregoretti

 Per le sue vie, delle sue e nelle sue meraviglie architettoniche e archeologiche, grazie ad una di esse, stupendo gioiello tra i gioielli, la Chiesa di Santa Sofia (edificata nel 760 dal Duca longobardo Arechi II), e con essa tutta la città, è stata riconosciuta Patrimonio Mondiale dell'Unesco e, che nel mese di settembre, per dieci giorni, si trasforma in un grande, prestigioso, superbo palcoscenico en plein air grazie alla rassegna "Benevento Città Spettacolo", fondata da Ugo Gregoretti, giunta alla sua trentaduesima edizione, diretta, in maniera magistrale, da Giulio Baffi che ha proposto un cartellone ricco di appuntamenti d'eccezione, sono stati oltre cinquanta gli spettacoli di questo anno con prime nazionali assolute, nei teatri e negli spazi di grande bellezza che offre Benevento, in una miriade di palcoscenici. Prosa, musica, danza, letteratura, mostre, performances d'avanguardia, microazioni, racconti ed incontri, teatro in collaborazione con prestigiosi Festival, per una apertura ed un respiro europeo ed internazionale da condividere culturalmente e territorialmente.

In questo turbinio di bellezze, di festeggiamenti, da quello per i 150 anni dell'Unità d'Italia al riconoscimento dell'Unesco al connubio con il Premio Strega, si è avuta l'occasione di assistere a quattro spettacoli molto diversi tra loro, ma allo stesso tempo affascinanti ed interessanti, pieni di significati esistenziali, di emozioni, di sentimenti, che ci portano a fare delle profonde riflessioni sull'essere umano, la sua spiritualità, la sua esistenza, sulla società, le sue perversioni, le emarginazioni, sul momento storico che stiamo vivendo.

 Ferito a morte – Preludio

Il primo, "Ferito a morte – Preludio", andato in scena al Teatro Comunale in Prima Nazionale assoluta, per la regia di Claudio Palma e l'interpretazione di Mariano Rigillo, tratto dalle pagine di Raffaele La Capria, vincitore cinquanta anni fa del Premio Strega, è un insieme di poesia, di magia evocativa e suggestione, datoci sia dalla scenografia essenziale sul palcoscenico, fatta da un velario, posto lì determinare la distanza tra presente e ricordo evocato, altrimenti impossibile da definire, dietro il quale compaiono, illuminati da flebili luci gli altri elementi e interpreti dello spettacolo : sulla nostra sinistra i musicisti, Paolo Vivaldi al suo pianoforte, Prisca Amori con il suo violino e Claudia Gatta con il suo violoncello; mentre alla nostra destra una struttura metallica a raffigurare un edificio, ferito a morte dal mare, inclinato su se stesso, dove, in alto, troviamo, di profilo, la cantante Yasemin Sannino, anch'essa nascosta dal velario, ma un po' più in luce, ci appare come in un quadro del Caravaggio. E nel gioco di luci ed ombre e nel nudo proscenio emergono le atmosfere, quasi preraffaellitiche, le pose plastiche, la voce sussurrata, melodica, suadente della Sannino, le musiche struggenti, malinconiche, evocative, un leggio ed una sedia, la parola esperta e sapiente, la gestualità colma di teatralità nello sfogliare il libro dei ricordi, del racconto, della vita, di Mariano Rigillo, che ne sottolinea a volte la drammaticità, altre volte la dolcezza del passato e del presente, dell'infanzia, delle belle giornate, del pescare una spigola, di Napoli, di una figura di donna, entrambe perdute o forse occasioni mancate della vita o nella vita. Emozioni quasi palpabili di quel tempo che ci sfugge, inafferrabile, inarrestabile.

 Urge di Alessandro Bergonzoni

Il secondo spettacolo è un vortice di storie, un'eruzione di parole, di sogni, di assurdità, di zibaldoni andato in scena al Teatro Massimo dal titolo "URGE", di e con Alessandro Bergonzoni, attore teatrale poliedrico, anarchicamente comico, espressione di un teatro italiano irriverente e giocoso. Giocoso come il suo ingresso in teatro, come uno spettatore. Una voce ci giunge dal fondo, dietro le spalle dicendo: "Ho fatto un sogno"..., e mentre l'attore si dirige a grandi passi verso il palco si è già presi e immersi in quel sogno vorticoso. Indossa un abito scuro e cappello, sopra la sua chioma folta e grigia, segno del tempo che passa ma che non altera in nessun modo l'originalità, la schiettezza, la maestria nel fare teatro di Bergonzoni. In scena si diverte ad usare, oltre che le parole, anche il corpo, in pose scomode, plastiche, impensabili, quasi a maltrattarlo a trasformarlo come fa con le stesse, con la complicità di un tavolo, di una gabbia-prigione, di luci poste sul palcoscenico, gli "illuminati", che ne costituiscono la scenografia minimale, essenziale, firmata da lui. Usa le parole, anche complesse, in modo magistrale,  giocandoci, trasformandole per poi inserirle in frasi sparate a ripetizione, come bombe ad orologeria, pronte a scoppiare, cambiandone il significato in maniera quasi scientifica, con scambi di vocale, doppi sensi, smembrando le sillabe in un infinito gioco di suoni, facendoci perdere e perdersi nel suo mondo, rapiti definitivamente nelle immagini del suo sogno, nella sua comicità sapiente e colta, ma allo stesso tempo libera dai condizionamenti della società, lasciandoci senza fiato, senza la possibilità di riflettere, senza la cognizione del tempo, che passa senza accorgercene, due ore di un monologo intensissimo, divertentissimo ma anche profondo. Il suo teatro è un teatro di necessità: artistica, di non astensione, del dire e del fare. Con questo spettacolo vuole segnalarci un urgenza, un'allerta, delle differenze che possono cambiare il senso delle cose se vengono trascurate, come quelle tra sogno e bi-sogno, di non distogliere lo sguardo dal " tutto", ma direzionarlo verso "vasti" spazi, la vastità in cui siamo immersi, mettendo sotto i nostri occhi il suo "voto di vastità", fatto sia come uomo che come artista.

 Mi manca la giraffa

Il terzo spettacolo visto è stato "Mi manca la giraffa" - Imprevisto esotico a partire dal repertorio del Quartetto Cetra; Prima Nazionale in scena al Teatro De Simone, per la regia di Paolo Coletta; con Stefano Ferraro, Massimo Masiello, Adriano Mottola, Nicola Vorella; e la band dal vivo: Davide Esposito, batteria; Mariano Bellopede, tastiere; Valerio Fluido Celentano, basso; Filippo D'Allio, chitarre; le scene di Roberto Crea ed i costumi di Maddalena Marciano. Luci psichedeliche dai colori vivaci, forti sonorità in uno spazio atipico per questo tipo di spettacolo: un musical rock da camera, quasi un "Rocky Horror Show". La camera è quella particolare e preziosa del palcoscenico del Teatro De Simone, uno dei tanti gioielli di Benevento, in netto contrasto con la rappresentazione ma che allo stesso tempo gli ha donato suggestione, nelle immagini, nei suoni, nelle luci, nei protagonisti, nella scena e nei costumi, che ci suggeriscono i tempi ed i personaggi, anche se il tutto è stato un po' sacrificato dallo spazio un po' stretto per questo spettacolo, pieno di movimento, dal ballo ai cambi di scena, o meglio ai cambi di posizione degli elementi, dei parallelepipedi che delimitano e creano degli spazi, dei luoghi, ed alla band, che suona dal vivo, posti sul palcoscenico, in un viaggio immaginario attraverso l'universo teatrale e musicale, nel tempo e nello spazio, che va dai grandi compositori di musica classica come Mozart e Beethoven, agli autori di teatro tutt'ora viventi, agli spettri di attrici. In un fragoroso, divertente susseguirsi di immagini, di suoni, di situazioni si svolge la ricerca di una fantomatica " giraffa", fatta da tre attori più una aspirante cantante di un improbabile gruppo musicale, un "quarto elemento" che non riesce a trovare la sua collocazione nel gruppo, nello spettacolo, ma che invece ne risulta la vera protagonista. Ironica e divertente, nella recitazione, ma anche nella sua tutina blu-elettrico e la sua parrucca bionda super-laccata come negli anni quaranta-sessanta, impegnata in una conversazione con una misteriosa entità, una voce, nascosta nella sua borsa rosso fuoco, ci accompagna nella scoperta dei tre personaggi con "lei" in scena e della " giraffa", che altro non è che l'asta del microfono per i cantanti. Lo spettacolo a leggerlo bene è profondo, è la rappresentazione dei nostri tempi, della nostra società, pieni di incertezze, di precarietà, di disagi sociali ma che serbano in se anche la voglia di riemergere dal buio, con la creatività, l'ironia, con lo stare insieme, fare gruppo. Un messaggio per tutti, in particolar modo per i giovani. Portato dai quattro giovani, brillanti e bravi attori con umorismo, ironia e senza banalità.

 Medea di Antonio Tarantino

Ed infine il quarto spettacolo visto è stato "Medea", in Prima Nazionale al Mulino Pacifico, di Antonio Tarantino; con Frédérique Loliée (Medea) e Caterina Carpio (la Vigilatrice); spazio scenico di Grazia Pagetta. Uno spazio claustrofobico, ristretto, forse una prigione, una cella o forse una scatola cranica, suggeritaci dall'impianto scenografico fatto da un cubo, sospeso nell'aria su cui è raffigurato in maniera molto schematica un cranio, che delimita uno spazio, lo spazio mentale o quello vitale, o forse una gabbia, un luogo di dolore (chissà se la scelta del luogo della rappresentazione è stata casuale o voluta,è l'ex mattatoio, un luogo di estremo dolore e solitudine sia per gli animali che per gli uomini), all'interno del quale troviamo Medea, ma del mito greco c'è solo il ricordo, tutto è già avvenuto o forse non è avvenuto niente. Una straniera, una donna disperata, imbarbarita dalle difficoltà, dagli incontri e le situazioni sbagliate che la vita, la famiglia le hanno serbato. Prigioniera, emarginata, straniera nel suo stesso essere, sola nella sua lacerante solitudine, che la isola e la spinge ad affrontarla da sola di fronte al vivere quotidiano, portandola a rivedere totalmente la sua identità. All'esterno del cubo – prigione - cella, delineando un percorso, come i corridoi delle carceri, o come un percorso mentale si aggira, come un animale ferito, un'altra donna, una Vigilatrice. Anche lei prigioniera della solitudine, dell'emarginazione, dei pregiudizi sociali. Questa stretta convivenza le porta ad instaurare un dialogo serrato ed intenso, pieno di significati emotivi, sentimentali, esistenziali. Le parole delle due donne vengono urlate, sussurrate, deridono, denunciano, desiderano, rimbalzano dall'interno all'esterno e di nuovo all'interno della cella, nei corridoi (effetto creato dalla fonica, con le voci registrate di altre donne prigioniere). Due destini diversi ma simili tra loro nello stesso tempo, entrambi prigioniere, segregate, private della loro libertà, della loro femminilità, della loro vita. Parlare è l'unico modo che hanno per provare a se stesse di essere ancora vive, anche se devono fare i conti con la diversità e la solitudine, e le parole sono lo strumento che le spinge verso la " libertà".

Tiziana Gagliardi

Ultima modifica il Venerdì, 11 Ottobre 2013 22:29
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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