venerdì, 29 marzo, 2024
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66. Festival del cinema di Berlino. - di Franco Sepe

"Crosscurrent" di Yang Chao "Crosscurrent" di Yang Chao

Anche questa rassegna della Berlinale, che in una decina di giorni ha mostrato a pubblico e critici oltre quattrocento film distribuiti nelle varie sezioni toccando la cifra record di circa trecentoquarantamila biglietti venduti, è giunta a conclusione. Lo spirito del festival, a detta del direttore Dieter Kosslick, è rimasto fedele a quello degli esordi, in una Berlino allora ancora reduce dalla catastrofe bellica, non più capitale e ripartita in settori, battuta dai venti di una incipiente guerra fredda. Così suonava infatti, nel 1951, il motto del suo iniziatore, Alfred Bauer: superare le divisioni tra i popoli, riportare l'armonia tra le nazioni. Questo rimane dunque a tutt'oggi il tratto distintivo della mostra cinematografica berlinese, che oltre a coniugare, come avviene anche a Cannes, a Venezia e a Locarno, il cinema d'autore con il red carpet, le prospettive nuove e l'impegno con le risate, si fa specchio dei tempi, cerca di cogliere a caldo, attraverso le opere selezionate, la realtà storica del momento, cioè quanto più vi è di drammatico e inquietante nel mondo. Così si spiega l'attenzione rivolta ai flussi migratori e ai problemi connessi all'integrazione, temi ricorrenti quest'anno in alcune delle pellicole presentate nelle diverse sezioni, che mettono in dialogo lo sguardo del cineasta con i fatti della politica che ci assillano giornalmente e che costellano il nostro universo mediatico. Perciò non è casuale che tra i film italiani mandati dalle rispettive produzioni la scelta sia caduta su Fuocoammare di Gianfranco Rosi, che della tragedia dell'immigrazione a Lampedusa si fa acuto portavoce. Ma sarebbe erroneo pensare che la conquista dell'Orso d'oro da parte di Rosi possa rientrare in quel genere di successi più o meno scontati e facilmente definibili come premi "politici". Le lunghe ovazioni in sala allo scorrere dei titoli di coda e poi di nuovo al riaccendersi delle luci lasciavano chiaramente intendere che il film italiano aveva toccato il cuore di ogni spettatore e convinto la critica circa le sue qualità narrative e stilistiche, anche al di là del valore civile e umano espresso dall'opera con estrema naturalezza. Unanime è stato del resto il verdetto della giuria, come risulta dalle parole di Meryl Streep, sua presidente, e unanime anche il giudizio di molta stampa internazionale, l'indomani della prima mondiale del film. Un film documentario sobriamente genuino ma tutt'altro che ingenuo nella sua realizzazione – il montaggio è firmato da Jacopo Quadri, la consulenza alla fotografia reca il nome di Luca Bigazzi – che descrive due mondi venuti a coesistere sull'isola ma che arrivano a malapena a sfiorarsi; un film che racconta non solo gli sbarchi, descrivendone tutta la crudezza, ma anche la realtà di chi vive su questo lembo di terra del Mediterraneo – spazio tanto reale quanto simbolico – la vita semplice e antica di "gente di mare che accoglie con piacere e naturalezza tutto ciò che viene dal mare", come dice Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa, il quale, nel film come nella realtà, è addetto ai primi soccorsi ai migranti ma appare restìo a parlare di un'esperienza umana d'eccezione non priva di un'angoscia terribile, che toglie il sonno e al suo posto mette incubi, soprattutto quando il ricordo dei salvataggi è soffuso di morte. E tuttavia è necessario raccontare, per Bartolo; come è necessario far vedere, per Rosi, con la sua "sfida narrativa", a un occhio altrimenti "pigro verso l'immigrazione". Metafora, questa, della pigrizia oculare diagnosticata al piccolo Samuele (Samuele Pucillo), il protagonista della vicenda indigena parallela all'altra degli sbarchi. Con una purezza disarmante viene descritto nel film il gioco e l'immaginario del bambino davanti al mistero della natura, la vita in famiglia con i suoi rituali a tavola, le regole impartite dal padre pescatore al figlio che soffre il mal di mare – iniziazione imprescindibile per il futuro destino di un giovane isolano.

berl Fuocoammare 1

Tra le pellicole presenti al concorso ufficiale, diciotto erano in gara, e a sette di esse è andato un Orso d'argento. Quello per la migliore regia lo ha ottenuto la parigina Mia Hansen-Løve con L'avenir, mirabilmente interpretato da Isabelle Huppert nella parte di una non più giovane insegnante di filosofia che vede sfumare le sue certezze – una famiglia consolidata, gli allievi prediletti, la stima dell'editore – a partire dal giorno in cui il marito le confessa di avere un'amante e l'abbandona. Impreparata di fronte a quest'inattesa solitudine, Nathalie riscopre, anche se a fatica, l'obliato gusto della libertà. Vincitore dell'Orso d'argento Gran Premio della Giuria, il regista bosniaco Danis Tanovic con Smrt u Sarajevu (Death in Sarajevo), tratto da Hotel Europe di Bernard Henry Levy, racconta in maniera avvincente la parossistica giornata in un hotel, il migliore di Sarajevo, di un direttore in crisi per via dello sciopero del personale, sciopero fatto da quest'ultimo coincidere con i preparativi per la ricorrenza ufficiale del centenario che scatenò la Prima Guerra Mondiale; di una madre e una figlia impiegate nell'albergo ma diversamente orientate verso la protesta; di un ministro francese che prova nella sua super protetta suite il discorso da tenere per le celebrazioni; di una giornalista che al suo intervistato chiede se il gesto omicida di Gavrilo Princip, un secolo prima, sia da attribuire a un criminale o a un eroe nazionale.

berl kollektivet 2

Majd Mastoura, premiato come miglior interprete maschile per "la tenerezza e la sensibilità della sua recitazione", come recita il verdetto della giuria, nel film Inhebbek Hedi del regista tunisino Mohamed Ben Attia veste i panni di un giovane di indole delicata fortemente in crisi perché tormentato dalle irremovibili altrui decisioni: innamorato di una ragazza deve sottostare al volere della propria madre che ha pianificato il suo matrimonio con un'altra donna; a una settimana dalle nozze, i capricci del suo capo lo obbligano ad esaudire tutte le sue richieste, come ad esempio quella di intraprendere un viaggio d'affari nella remota Mahdia. L'Orso d'argento per la migliore attrice è stato assegnato alla danese Trine Dyrholm, che nel film Kollektivet di Thomas Vinterberg spicca per la sua capacità di esprimere a fondo la dolcezza e la gioia e con la stessa intensità le zone più in ombra di una persona assediata dal dolore. La china inattesa di Anna, nota presentatrice televisiva, moglie di un docente universitario di architettura e madre di una amabile adolescente, segue paradossalmente alla proposta di fare della grande vecchia casa, ereditata dal padre del marito, una comune, soprattutto per vincere la noia che con gli anni toglie slancio a ogni vita coniugale. Ma insieme a una dozzina di donne, uomini e bambini viene ad abitare con loro, per volontà della stessa Anna, anche la giovane studentessa a cui il marito si è da poco sentimentalmente legata. L'esperienza comunitaria viene così messa a dura prova, e a farne le spese è proprio la sua ideatrice travolta di colpo da una profonda crisi professionale e personale. Ispirato a un'esperienza realmente vissuta dal regista danese, il film sostiene sapientemente i toni della commedia per tradurli poi in quelli suggestivi del dramma, ma abdicando in gran parte alle rigide norme stilistiche di Dogma, di cui Vinterberg insieme a Lars Von Trier era stato promulgatore. Premiato per la migliore sceneggiatura, il regista polacco Tomasz Wasilewski, autore di Zjednoczone stany miłości (United States of Love), ritrae con una finezza e una sensibilità pari a quelle di un Wajda, di un Kieslowski o di un Fassbinder, suoi probabili modelli, le vite intrecciate di quattro donne che nella transizione da una forma di società a un'altra – siamo nella Polonia dei primi anni Novanta – si portano dentro il malessere di un ambiente squallido al quale restano abbarbicate con le loro emozioni impoverite, i loro desideri frustrati, le vane aspirazioni a una felicità promossa dai cambiamenti esterni e tuttavia nel proprio intimo neppure sfiorata.

berl United States of Love 1

Un altro orso d'argento è andato a Mark Lee Ping-Bing per la magnifica fotografia che ha impresso forza poetica e visionaria al film cinese Chang Jiang Tu (Crosscurrent) di Yang Chao, sorta di viaggio simbolico nel tempo e nello spazio, lungo il fiume Yangtse, di un giovane marinaio a bordo del proprio cargo che ad ogni nuovo attracco ritrova misteriosamente la stessa donna da lui amata. Ogni tappa della storia è scandita dai versi di un poeta sconosciuto, il mondo interiore del protagonista si staglia sullo sfondo di una realtà quotidiana greve e rarefatta ma dalla quale scaturisce il fascino di un universo magicamente ricreato. Vincitore del Premio Alfred Bauer per l'innovazione, è risultato il film filippino Hele Sa Hiwagang Hapis (Lullabay to the Sorrowful Mystery) diretto da Lav Diaz, racconto epico della rivolta antispagnola contro il dominio coloniale capitanata da Andrés Bonifacio y de Castro, considerato ancora oggi il padre della rivoluzione filippina. Realizzato in bianco e nero, con inquadrature fisse e quasi interamente privo di primi piani, di una lentezza snervante che impegna lo spettatore per otto lunghissime ore – e culminando la sua smisurata ambizione in un eccesso di pedanteria – l'opera annunciata come l'evento più atteso della Berlinale si è rivelata, nonostante i pregi stilistici, tutto sommato poco convincente.

Tra le produzioni non premiate e i film fuori concorso vanno menzionati tra gli altri Alone in Berlin di Vincent Perez, tratto dall'ultimo romanzo di Hans Fallada Ognuno muore solo, ispirato al sacrificio di Otto e Elise Hampel – stupenda qui l'interpretazione di Brendan Gleeson e Emma Tompson – eroi dimenticati della resistenza al Nazismo; Genius, diretto da Michael Grandage, con un bravissimo Jude Law nella parte dell'eccentrico Thomas Wolfe, lo scrittore scoperto negli anni Venti, come del resto prima di lui Fitzgerald e Hemingway, dal geniale Max Perkins, il direttore editoriale nel film magnificamente interpretato da Colin Firth. Merita di essere ricordato anche il melanconico e raffinato Cartas da guerra del regista portoghese Ivo M. Ferreira, girato in bianco e nero e basato sulle lettere del poeta e medico António Lobo Antunes inviate alla giovane moglie durante la guerra di liberazione dell'Angola. Hail, Caesar di Joel & Ethan Coen, film d'autore sulla Hollywood degli anni Cinquanta con il quale è stata inaugurata l'odierna rassegna, tranne che per l'affascinante fotografia di Roger Deakins, nonostante il cast d'eccezione (George Clooney, Ralph Finnies, Johs Brolin, Scarlett Johansson) appare esile nella trama e scontato in buona parte dei dialoghi, soprattutto in quelli, pallida parodia del maccartismo, che emergono dalle riunioni della cellula comunista.

Ultima modifica il Mercoledì, 09 Marzo 2016 00:42

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