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JOIE DE VIVRE - coreografia Simona Bertozzi

Compagnia Simona Bertozzi in "Joie de Vivre", progetto Simona Bertozzi, Marcello Briguiglio. Foto Luca Del Pia Compagnia Simona Bertozzi in "Joie de Vivre", progetto Simona Bertozzi, Marcello Briguiglio. Foto Luca Del Pia

progetto Simona Bertozzi, Marcello Briguiglio
ideazione e coreografia Simona Bertozzi
danza Wolf Govaerts, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga

canto Giovanni Bortoluzzi, Ilaria Orefice

musica e regia del suono Francesco Giomi

dramaturg Enrico Pitozzi

set e luci Simone Fini

costumi Katia kuo
foto e video Luca Del Pia

Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Fondazione Teatro Comunale di Modena, Associazione Culturale Nexus
Con il contributo di MIBAC, Regione Emilia-Romagna, Fondo Regionale per la Danza d'Autore
con il sostegno di Fondazione Nazionale della Danza-Aterballetto, L'Arboreto Teatro Dimora di Mondaino.
Teatro Storchi, Modena 14 e 15 dicembre 2018

www.Sipario.it, 27 dicembre 2018

Nel pomeriggio il dramaturg Enrico Pitozzi nel ridotto del Teatro Storchi in un incontro aperto al pubblico racconta il percorso di lavoro e l'idea che sta dietro la concezione coreografica di Simona Bertozzi. Tra le altre cose introduce un'interessante riflessione sull'idea di movimento: si tratterebbe di provare a pensare che è il "movimento a muovere i corpi", non questi ultimi a creare il movimento; come una forza che pre-esiste e che i corpi possono intercettare, e che si trasmette per contagio. In una sorta di abbandono dunque, che nascerebbe da ricettività e non è inerzia. Come dire: percepire le energie sottili del cosmo o del mondo naturale che risuonano con il corpo umano a patto di rendere il corpo talmente sensibile da non poter fare altro che vibrare... Così il riferimento al mondo delle piante è quanto di più appropriato per rendere il senso di un'intelligenza che trova nella "propensione" una chiave per interrogare i corpi nello spazio: propensione al dialogo con lo spazio, con gli altri corpi, con la luce e con il suono. Luce e suono che lungi dal tradursi in meri frame di accumulazione decorativa o narrativa diventano organicamente masse, volumi con cui tessere una continua rete di impulsi di relazione. In scena avremo corpi non unificati da un senso estetico del movimento come traduzione di un bello convenzionale, ma corpi nella loro costituzione particolare, vettori di forze che si articolano a partire da quella particolarità: la forma – se ben ricordiamo, ricostruendo a memoria le parole dello studioso – non esiste prima, ma viene trovata a partire dalle potenzialità o propensioni del danzatore. E' un lavoro dove l'apertura al dialogo continuo è un fattore imprescindibile, e l'accoglienza dei corpi nel processo di creazione a partire dalla loro irriducibile unicità può generare una sorta di gioia, quella joie de vivre da cui il titolo dell'opera. Lo spettacolo prende a ispirazione la vita nel mondo vegetale, in quella sua disposizione vitale a orientarsi per forme di percezione sensoriale peculiari, così che, citando il programma di sala: "i comportamenti dei danzatori in scena sono modellati da un processo di metamorfosi che non ha nulla a che fare con l'imitazione del mondo vegetale".
Dunque l'incontro e la fuga dei corpi in scena, che vediamo muoversi in uno spazio completamente bianco che verrà di volta investito del dinamismo cromatico delle luci di Simone Fini è anche sottile costruzione di un ecosistema, nella ricerca di un vocabolario coreografico costruito a partire da alcune parole chiave designanti azioni: innervare, lanciare, brulicare, insieme a parole che rimandano a elementi naturali (luce, umidità, vento, linfa); o altre, leggibili anche in coppie di progressioni, come limite/vibrazione, vibrazione/resistenza, resistenza/propulsione ecc.
I quattro danzatori procedono per linee di fuga e convergenza, per intensificazioni e dilatazioni ritmiche, a costruire un vocabolario che nasce da un lavoro di traduzione fisica delle parole chiave, per momenti di solitaria ricerca o di messa in vita degli opposti per agglutinazione, in cui il contatto tra i danzatori, ancorché periferico, tangenziale, trova un suo costrutto nelle composizioni a quattro, schiacciate verso terra da una forza di gravità che preme e pare non lasciare spazio a elevazioni. Così non può non venire in mente la strategia tutta orizzontale, strisciante, di una pianta obliquamente intelligente nella sua attitudine generativa come il rovo, che pare aver sostituito la propensione all'elevazione a un'estensione in orizzontale lenta e pervasiva – le spine essendo semmai gli unici elementi di elevazione, che sembrano scongiurare un intervento dall'alto più che attrarlo, tuttavia la sommità della spina rimanendo punta, vertice, proiezione verso il cielo, non mero meccanismo di difesa. Così sembrano muoversi in certi momenti i danzatori, con strategia strisciante e ancoraggi perigliosi, dilatati, come a voler occupare più spazio possibile, e a rendere al massimo efficienti i pochi punti di contatto tra i corpi. Ma la danza che Bertozzi e compagni ci consegnano è anche fatta di cellule solitarie che sotto il martellio puntinato del flusso sonoro di Francesco Giomi, specie all'inizio, ricevono impulsi centrifughi, che vengono caparbiamente rivolti al interno, in un movimento che è ancora autoriflessivo, con quel puntare degli sguardi in un dentro terragno o su una terra che è proiezione di un dentro. Infine quegli elementi di segnalazione dei cantieri edili manovrati dagli attori e dai cantanti (la rete arancione, i coni stradali bicolore, e poi il groviglio di tubi colorati) paiono alludere al paesaggio umano nel quale spesso questa strategia obliqua trasversale di sopravvivenza delle piante arbustive e abusive si sviluppa pienamente: come non pensare allora proprio a quel terzo paesaggio teorizzato da Gilles Clément, che nasce nei luoghi abbandonati delle città, ri-sorgenza della natura in siti già precedentemente antropizzati e che trova una sua organicità tra i residui del lavoro e della trasformazione umana? Così verso il finale il fitto ammasso di tubi di plastica colorata che entra in scena e che i danzatori trattano come un fiotto organico di viscere, diventa lotta di inumazione e rinascita (tra mondo organico perituro ed eternità della plastica?), per finire con un'immagine in cui l'umano prende le sembianze di un nuovo essere, che emerge in piedi dall'oscuro e terragno im-bragarsi dei corpi con la brillantezza tersa e artificiale di un nuovo ventre materno.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Venerdì, 28 Dicembre 2018 01:26

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