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AUTODAFÉ - regia Maria Federica Maestri

"Autodafé", regia Maria Federica Maestri. Foto Francesco Pittito "Autodafé", regia Maria Federica Maestri. Foto Francesco Pittito

dal III atto del Don Carlo di G. Verdi.
Installazione e regia Maria Federica Maestri,
imagoturgia Francesco Pititto,
disegno sonoro Andrea Azzali.
Produzione Lenz Fondazione in collaborazione con Teatro Regio, Festival Verdi, Conservatorio A. Boito, Ars Canto. Commissione del Festival Verdi in prima assoluta.
Con: Domenico Mento basso; Eugenio Maria Degiacomi basso allievo del Conservatorio A. Boito;
selezione del Coro Voci Giovanili Ars Canto diretto da Gabriella Corsaro: Elena Alfieri soprano, Jacopo Jorge Antonaci, Guido Larghi, Gioele Malvica baritoni, Giovanni Pelosi, Giacomo Rastelli bassi, Michelangelo Turchi Sassi tenore; performer: Valentina Barbarini, Walter Bastiani, Paolo Maccini, Delfina Rivieri, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Barbara Voghera, Lara Bonvini, Marco Cavellini, Chiara Garzo, Federica Goni, Silvia Settimj

www.Sipario.it, 25 ottobre 2016

"Autodafé". Rielaborazioni musicali e performative dall'atto III del Don Carlo di Giuseppe Verdi

Dentro il carcere l'"Autodafé" di Lenz, dal Don Carlo di Verdi

"Don Carlo" è opera dolorosa, furiosa nell'amore come nell'amarezza e nella violenza, ossia la storia umana di sempre. Non ci sono né vinti né vincitori. Se mai, vince il dolore che dà dignità a chi soffre e la speranza nel dopo morte in un "mondo migliore". Giuseppe Verdi, che nel 1867 trasse l'opera dal dramma di Schiller, parte da un dramma familiare - l'incomprensione tra padri e figli, l'impossibilità per i giovani di essere liberi nell'amore, svincolati dalle consuetudini sociali -, per estendere e raccontare la tremenda solitudine dei potenti, il conflitto Stato-Chiesa e l'ingerenza politica di quest'ultima, il pericolo del fondamentalismo (il Grande Inquisitore) senza cuore, insomma una società (allora la Spagna del Cinquecento o l'Italia dell'Ottocento,) senza amore che genera "mostri" nei rapporti e uccide chi ha un ideale puro di bene sociale (il marchese di Posa). Verdi è riuscito a dire tutto questo, senza retorica, con un susseguirsi concatenato di scene scabre alternate a grandi momenti spettacolari come la scena dell'auto-da-fè. Si concentra su questo frammento verdiano lo spettacolo di Lenz Fondazione, "Autodafé", nato su commissione del Festival Verdi di Parma e allestito nell'ala napoleonica dell'ex carcere di San Francesco aperto per l'occasione (destinato, nel 2017, ad una ristrutturazione per diverso uso). Impregnato di storia, reso tra lo spazio mistico/religioso e lo spazio detentivo, scelto per essere luogo emblematico di echi di sofferenza e reclusione, di confessioni e condanne, è diventato "palcoscenico" drammaturgico sonoro e installativo altamente potente per resa scenica ed emozionale che vede uniti performer, "attori sensibili" e cantanti d'opera per dare corpo a quello che rappresenta, forse, una dei lavori site-specific più acuti e riusciti degli autori, Maria Federica Maestri e Francesco Pititto, nella loro lunga e intensa pratica teatrale, foriera sempre di nuove scritture sceniche e contaminazioni.
Mescolati a suoni reiterati, note musicali remixate, rumori metallici, della suggestiva campionatura sonora del sound designer Andrea Azzali,  s'odono lamenti, pianti, grida, sussurri, preghiere, provenire dalle anguste celle dei corridoi laterali che noi spettatori in movimento percorriamo, smarriti e disorientati, sbirciando dentro dove si trovano anime in pena. La sofferenza dei corpi è ingrandita nei volti delle "imagoturgie" concepite da Francesco Pititto proiettate in loop lungo le lunette del corridoio centrale, e nella loro stessa immagine ripresa in un piccolo monitor posizionato nelle singole celle. Da qui i reclusi, quelli in fogge ottocentesche, e altri, i coristi, negli ampi e militareschi costumi conici simili a involucri larvali, a corazze di difesa o di annientamento, usciranno formando file progressive lungo il corridoio centrale, e assumere la severa consistenza dei personaggi del dramma verdiano: Filippo, Rodrigo, Don Carlo, Elisabetta, l'Araldo reale, il Grande Inquisitore, il coro del popolo, dei frati, i deputati fiamminghi. Abbassando il passamontagna che nasconde loro il volto e la bocca, daranno voce canora, in ripetuti frammenti verdiani, ai dialoghi, alle accuse, ai sentimenti che li animano, per ritornare a censurarsi la bocca ricoprendosela dopo il canto. Il canto del baritono, del basso, del soprano, del tenore, del coro, risuona potente davanti agli spettatori itineranti che, nell'attraversamento fisico e mentale, ne scrutiamo i volti e gli occhi. Poi, in questa coreografia agìta sulle lunghezze dello spazio, seguiamo i loro passi e il rientro nelle celle; spiamo, nell'orizzontalità depistante dell'androne, il cantare moltiplicato di altre voci; ascoltiamo il raddoppiarsi della gravità vocale con il canto all'unisono dei due bassi potenziando così la gravità del Grande Inquisitore, colui che obbliga il re a sacrificare suo figlio alla Ragion di Stato; assistiamo al riscatto del coro prostrato a terra; per ritrovare, infine, tutti gli interpreti nel giardino esterno del carcere a ridosso delle alte mura. Immobili nelle loro corazze, sono lì ad attenderci e guardarci in un rispecchiamento tra passato e presente, tra libertà e responsabilità di ieri e di oggi. Senza proferire parola.

Giuseppe Distefano

Ultima modifica il Giovedì, 27 Ottobre 2016 11:26

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