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DON GIOVANNI - regia Rosetta Cucchi

"Don Giovanni" - regia Rosetta Cucchi "Don Giovanni" - regia Rosetta Cucchi

Dramma Giocoso in due atti
Musica Wolfgang Amadeus Mozart
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Direttore Christoph Poppen
Regia Rosetta Cucchi
Scene Andrea De Micheli
Costumi Claudia Pernigotti
Luci Luciano Novelli
Don Giovanni Erwin Schrott
Il Commendatore Graeme Broadbent
Donna Anna Serena Gamberoni
Don Ottavio Patrick Vogel
Donna Elvira Maija Kovalevsta
Leporello Alex Esposito
Masetto Francesco Verna
Zerlina Sophie Gordeladze
Orchestra e coro del Teatro Carlo Felice
Maestro del Coro – Patrizia Priarone
Allestimento Ópera de Tenerife Auditorio Adán Martin coprodotto con Tondazione Teatro Comunale di Modena, Fondazione Teatri di Piacenza, Teatro del Giglio di Lucca
Genova, Teatro Carlo Felice, dal 30 gennaio al 7 febbraio 2016

www.Sipario.it, 31 gennaio 2016

Il Dissoluto si punisce da sé, la ferita da taglio contratta nel duello iniziale lo sottrae, goccia dopo goccia, alla sua furiosa quanto adolescenziale percezione d'immortalità. I due atti del capolavoro mozartiano fotografano (e Leporello lo fa per davvero, fotocamera al collo) gli ultimi metri di questa folle corsa.
Don Giovanni à bout de souffle, sul palcoscenico genovese, nella coraggiosa lettura di Rosetta Cucchi, la quale sposta le lancette del mito fino agli anni '80 newyorkesi, fra la risacca dell'ideologia reaganiana e l'agonia d'un sogno trasgressivo che tenta di cambiare le regole e che si spegne tragicamente, obnubilato dalle droghe, decimato poi dall'Aids.
Spettacolo musicalmente superbo, grazie ad un cast eccezionale, spettacolo nel complesso avvincente per la scelta registica: una partitura visiva cheap quanto a mezzi, ma ricchissima di idee (la maggior parte delle quali, prive di quel retrogusto di forzatura che, dato il triplo salto mortale proposto, era un morbo "a rischio contagio").
Sorta di Ulisse pelvico, tutto imploso nella sfrenatezza delle pulsioni, Don Giovanni è un mito e non appartiene né a un tempo né ad un luogo specifico: il "grande seduttore" eccede, sfida il limite e conduce una battaglia fin dal principio perdente, perché non fa i conti con la finitezza dell'esistenza, con la fragilità della materia organica. Non elabora, non si misura con l'altro, vive come se non ci fosse domani, o meglio come se l'oggi sia replicabile all'infinito (e chi non, almeno un po', ha attinto a tale fittizio e consolatorio antidoto?). Aggressivo e fragile come un bambino, tragicomico nel suo eroismo solipsistico che fa vittime e sbatte contro la vita degli altri, che lui neppure vede, Don Giovanni muore perché è nato. Muore male, perché non ha voluto sottostare alla perenne necessità di mediare, che questo viaggio misterioso che è l'esistenza, impone.
In questa edizione, il mito è "applicato" all'altro ieri, ad un periodo storico di cui portiamo ancora le cicatrici, tra banalità, gente strafatta e beatificazione del kitsch. Don Giovanni sembra raccontarci gli attimi ultimi ed esiziali d'una tragica resa dei conti che manda definitivamente in malora l'utopia d'altre regole ed altri equilibri, un sogno che aveva inondato i giovani cuori a partire dagli anni '60.
Coming out: ancor prima che il sipario s'aprisse, chi scrive godeva della piacevole compagnia di un pregiudizio (è sempre soddisfacente, credere di sapere in anticipo...) che aveva preso forma, prima ascoltando le parole della regista, non esattamente catturanti, in conferenza stampa, poi leggendo le sue "note registiche" (per fortuna, la regia si fa sul palco, non con le parole. Anzi, spesso più è alto e audace il volo dell'idea, meno persuasive sono le parole che lo raccontano).
La domanda "Perché?", sulle prime, si è rafforzata, quando Don Giovanni rockstar si spupazzava Donna Anna al di là dei vetri d'un taxi giallo, davanti ad un piuttosto desolato ingresso discotecante (Studio 54?). Da "Perché?" a "Perché no?", il passo è stato breve però... Gli archetipi, in quanto tali, in verità non soffrivano di nostalgia per qualche secolo di slittamento. La Siviglia del burlador può essere ovunque, anche negli Stati Uniti di quegli anni, in una cornice di decadenza che, a ben guardare, ci trova ancora invischiati... Tra culto dell'apparenza ed aria fritta – e solitudine - in salsa social, in fondo, potremmo farci anche noi, purtroppo, un bel selfie.
Fatto sta che i personaggi calzavano sorprendentemente, da Elvira, ossessiva e integralista di redenzioni fallimentari, a Leporello (un "Don Giovanni" in minore, arginato dal moralismo, dalla paura, dall'invidia), da Zerlina, tutta astuzia, erotismo sorridente e gioia concreta, a Masetto, sprovveduto, rabbioso, pericolosamente tontolone.
Lasciando a chi vorrà rischiare (un rischio che caldeggiamo), a chi vorrà valutare da sé questo allestimento, il piacere di scoprire come l'attualizzazione qui coniughi l'intreccio, ci dirigiamo verso lidi meno opinabili, dicendo della pura meraviglia realizzata dai cantanti. Un team così, una tale perfetta centratura dei personaggi, una eccellenza così diffusa, sul palco, a 360 gradi (per voce, per bravura attoriale, per affiatamento), è un avvenimento da festeggiare, è un risultato che fa onore a tutti: agli artisti, a chi li ha scelti, a chi li ha convinti ad esserci.
Già una decina di anni fa Erwin Schrott aveva calzato, sul medesimo palcoscenico, il medesimo personaggio. Un "Don Giovanni" vocalmente ineccepibile e trascinante sulla scena, maschera commovente e comica insieme, scientemente sovraccarica e infantile. Ha tenuto testa, senza cadute, ad un simile mattatore, la triade femminile: Serena Gamberoni (eccellente debutto nel ruolo, per una grande professionista), Maija Kovalevska (fossimo a scuola, a lei il bacio accademico e Magna cum laude), Sophie Gordeladze. Cast stellare, in cui brilla non meno il "Leporello" di Alex Esposito, il "Masetto" di Francesco Verna. Bene, il commendatore Graeme Broadbent. E bene pure ha tenuto tutti e tutto, la bacchetta di Christoph Poppen: una lettura mozartiana rigorosa e convincente, abbastanza severa nei confronti dei cantanti (che dovevano adeguarsi al gesto, e non viceversa), ma che ha garantito saldezza e pulizia, contrappeso sano, tutto sommato, nell'equilibrio di una bacchetta prudente che sosteneva un allestimento viceversa ardito.
Applausi a scena aperta per tutti i cantanti, in chiusura festeggiati con entusiasmo. Qualche contestazione per la regia, più che preventivata: la nostalgia è un sentimento nobile, comprensibile ed anche condivisibile (quando però non preclude l'apertura all'alterità). Congratulazioni a Rosetta Cucchi ed alla sua squadra... A sipario chiuso, resta, abbagliante, l'immagine di quella macchina fotografica di Leporello che "immortala" Don Giovanni (e tutti noi). Ma la morte non si lascia intimidire neanche un po', e fa il suo lavoro.

Giorgio De Martino

Ultima modifica il Domenica, 31 Gennaio 2016 14:36

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