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TURANDOT - regia Denis Krief

Turandot Turandot Regia Denis Krief. Foto Jaqueline Krause-Burberg

di Giacomo Puccini
direttore: Zhang Jiemin
regia, scene, costumi e luci: Denis Krief
con Giovanna Casolla, Enrico Cossutta, Federico Sacchi, Walter Fraccaro, Maria Luigia Borsi, Giorgio Caoduro, Gianluca Floris, Matthias Wohlbrecht, Timothy Sharp
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Venezia, Teatro La Fenice, dal 9 al 18 dicembre 2007

Corriere della Sera, 16 dicembre 2007
La Stampa, 13 dicembre 2007

Fenice, sul podio una direttrice cinese che non convince

È molto snob mettere in scena Turandot fin dove Puccini la compose. Dopotutto, non mancano le giustificazioni del caso e non si rischia nulla. L' enigma sulla natura della principessa cinese resta irrisolto, né ci si addentra sul tema che più affascina dell' opera, il suo non essere né totalmente fiaba né totalmente melodramma. Terminare con la morte di Liù segna semmai un punto a favore del melodramma. A maggior ragione è scelta discutibile nel caso di un' edizione tutta volta al fiabesco come quella in scena alla Fenice di Venezia, che reca la firma registica di Denis Krief. Un bellissimo spettacolo, nel quale i termini della fiaba sono raccontati attraverso un impianto scenico severo e rigoroso, col popolo di Pechino (in divisa come ai tempi di Mao) disposto qual spettatore in cima a un muro in fondo alla scena, pochissima attrezzeria e una recitazione molto stilizzata. Luci coloratissime. Spettacolo «sovietico», lo si direbbe, che della fiaba di Gozzi ricorda sempre l' esito morale, violento e cattivo, anche laddove esiste il gioco e il divertito desiderio d' evasione. Un altro enigma è però la presenza sul podio di Zhang Jemin, una graziosissima direttrice d' orchestra cinese. Barenboim diceva scherzando che se fosse vera la «geografia della musica» propugnata da alcuni, lui argentino dovrebbe suonare solo i tanghi. A Venezia sembra l' abbiano preso sul serio. C' è Turandot in cartellone? Allora prendono una cinese. Peccato però che il livello esecutivo sia ai confini del dilettantismo: una serie di intenzioni discutibili, comunque non realizzate. Tempi strambi, colori approssimativi, è già molto che vadano tutti insieme. Il cosiddetto «secondo cast» tuttavia non è niente male, a cominciare da Caroline Whisnant che è una Turandot molto superiore alla media, affiancata da Antonello Palombi, tenore che ha imparato a convivere con la propria fragilità e a sopperire ai limiti attraverso la tecnica. Ottima inoltre la Liù di Raffaella Angeletti, interprete giovane e sensibile, naturalmente portata alla sfumatura lirica però capace anche di vigoroso temperamento. Difficile credere che il «primo cast» (la sempiterna Giovanna Casolla, Walter Fraccaro e Maria Luigia Borsi) sia decisamente superiore. Buona la prova del coro, istruito da Maria Bortolato. Discreto successo di pubblico.

Enrico Girardi

Bella "Turandot"
di gabbie e di luce

Turandot, le colonne d'Ercole di Giacomo Puccini. L'opera che amava troppo, alla quale pensava «ogni ora, ogni minuto» e che lasciò incompiuta: forse la malattia, forse l'impossibilità di risolvere, nonostante quattro anni di continuo lavoro, una vicenda che nelle due donne protagoniste contrappone orizzonti poetici e drammatici inconciliabili. L'ultimo titolo della grande storia del melodramma italiano, dice un luogo comune. Il primo capolavoro, invece, di un faticoso e necessario cammino di rinnovamento.

La Fenice porta in scena la «principessa di ghiaccio» e anzitutto toglie: via le cineserie monumentali ed esteriori; via tutti i finali aggiunti: i due di Franco Alfano, uno lungo, l'altro scorciato da Toscanini, entrambi troppo violenti rispetto agli abbozzi lasciati da Puccini; via anche quello, recente, di Luciano Berio: sapientissima pagina musicale, ma un ramo che, dal punto di vista teatrale, male si innesta sul tronco da cui prende vita.

Finire con le ultime note scritte dal Maestro: la morte di Liù, il compianto per il suo sacrificio di schiava innamorata: così pucciniano! E, prima, raccontare i binari paralleli lungo i quali corre l'opera: la fiaba e la tragedia, il mito - presente in tante culture - della donna che ama la Luna, detesta l'Uomo e non si vuole sposare, e la storia di un principe che, mettendo in gioco la testa, si innamora dell'idea di lei e del potere che promette. Una scena essenziale, colmata di gesti mai gratuiti e viva di continue invenzioni di luce. Il coro che appare e scompare, alto sul palcoscenico, sempre incombente, sempre passivo: e quando accenna una sommossa, guardie vestite come i poliziotti cinesi di oggi lo manganellano. Questo allestimento - regia, scene, costumi e luci - di Denis Krief viene dalla Germania e andrà negli Stati Uniti, certamente non a Peckino, capitale di un paese che manganellate, e di più, continua a darne.

Turandot e Calaf sono chiusi nella loro gabbia, ognuno vittima del ruolo che gli è stato assegnato e delle proprie irrisolte angosce. Il gioco teatrale è governato dal Mandarino (perfetto Timothy Sharp), il volto bianco di biacca: apre e chiude la storia e gioca con la Luna con la grazia con cui Charlie Chaplin danzava col mappamondo. Poi il palloncino scoppia: un'altra testa è stata mozzata, il coro urla il suo orrore. Qualche compiacimento solo quando Ping, Pang e Pong (Giorgio Caoduro, Gianluca Floris, Matthias Wohlbrecht, ottimi interpreti) allineano quello che resta dei prìncipi pretendenti: crani alla sommità di manichini metafisici, come volti di De Chrico.

Dirige la trentenne cinese Zhang Jiemin: stacca tempi saettanti nel primo atto e, ben coadiuvata dall'orchestra, fa capire quanto, dietro Puccini, ci siano anche lo Stravinskij della Sagra e il Novecento inebriato di ritmi. E' più vigorosa che precisa e non ancora autorevole con i cantanti; ma come governare Giovanna Casolla, storica interprete del ruolo? Stile verista e gigione, però una voce che trapassa lo spazio come una lama di ghiaccio. Neppure Walter Fraccaro è campione di eleganza: un Calaf che punta tutto sul «Nessun dorma» e, lì, sbanca il teatro. Come Maria Luigia Borsi, una Liù intima, intensa, convincente nel fraseggio. Doti in parte condivise dal Timur di Federico Sacchi. Un solo intervallo, due ore e trenta di durata, applausi convinti.

Sandro Cappelletto

Ultima modifica il Mercoledì, 17 Luglio 2013 09:44
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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