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ALCESTI - regia Cesare Lievi

Galatea Ranzi e Danilo Nigrelli in "Alcesti", regia Cesare Lievi. Foto G.L. Carnera Galatea Ranzi e Danilo Nigrelli in "Alcesti", regia Cesare Lievi. Foto G.L. Carnera

di Euripide
regia di Cesare Lievi
al Teatro greco di Siracusa nel 52° Ciclo di rappresentazioni classiche dell'Inda dal 14 maggio al 19 giugno 2016

www.Sipario.it, 18 maggio 2016

L'equivoco che l'Alcesti non sia una tragedia tout court nasce dal fatto che al suo esordio (438 a.C.) andò in scena al quarto posto d'una tetralogia che comprendeva tre drammi satireschi. Certo il carattere dell'opera è poco tragico, come lo evidenziano alcune scene, al punto d'essere considerata una tragedia semicomica, una tragedia con elementi satireschi. Ma sono in tanti che considerano Alcesti una vera tragedia, anche se a lieto fine, per il modo come la protagonista offre la sua vita a Thanatos al posto di quella del marito Admeto, splendendo la sua figura d'una luce eroica rispetto all'egoismo e alla mediocrità degli altri personaggi. La regia intelligente e accurata di Cesare Lievi si snoda nel modo di non scontentare detrattori ed estimatori dell'opera. Facendola iniziare con un funerale, simile a quello che poteva scorgersi nel film Divorzio all'italiana di Pietro Germi, con tanto di banda musicale, feretro sulle spalle, prelati e chierici dietro e poi una lunga processione nera di uomini con coppole e donne con scialli in testa. Un modo anche per dire che quello è il funerale di Alcesti in terra di Sicilia, con le musiche di Marcello Panni, e che ciò che poi si vedrà sulla scena è il plot di Euripide nella contemporanea traduzione di Maria Pia Pattoni, raccontato come in flash back. Plot che si svolge sulla scena di Luigi Perego (suoi pure i costumi) che ha sintetizzato la reggia del re Admeto come lo scheletro d'un palazzo laccato di rosso, col piano superiore in vista diviso in più scomparti o siparietti chiusi da tendaggi neri e con tre larghi scivoli/pedane che declinano verso l'orchestra occupata tutt'intorno da un fiorire di migliaia di papaveri rossi, quasi in stile pop. Qui Thanatos, dio della Morte, quasi un Nosferatu quello di Pietro Montandon di nero vestito e dal volto imbiancato, s'incontra con il dio Apollo, tutto dorato e con arco e faretra quello di Massimo Nicolini. Il quale chiarisce a se stesso e al pubblico che a causa d'una lite con suo padre Zeus, sia stato punito a servire il mortale Admeto (un misurato Danilo Nigrelli in grigio, chioma folta che per via del lutto sparirà) con il quale ha stabilito un bel rapporto al punto da sottrarlo alla morte ingannando le Moire, terribili dee mortifere che accettarono che l'amico potesse sfuggire alla morte, a condizione che qualcuno si sacrificasse per lui. Anche se amici e parenti non fanno il gesto dell'ombrello, si capisce che nessuno è disposto a sacrificare la propria vita per Admeto, neppure suo padre Ferete, tutto in rosso quello di Paolo Graziosi, dalla voce chiara e convincente che nel suo pistolotto (applaudito) argomenta che la vita è un bene assoluto non barattabile né cedibile con niente, cazziando il figlio piuttosto a farsi una severa autocritica. Solo la moglie Alcesti, agghindata di bianco-giglio quella di Galatea Ranzi, accetterà di morire al posto del marito, facendosi promettere che non prenderà un'altra moglie e che si curerà dei figli. Intanto il coro, in grigio militare con bretella attorno al torso nudo, capitanato dai due autorevoli corifei Sergio Basile e Mauro Marino, fa una bella figura non solo vocalmente ma anche inscenando compatte coreografie di stampo militaresco, e si noterà, scendendo dalla pedana centrale, la figura in rosso dell'ancella Ludovica Modugno che annuncia con commozione che la sua padrona è pronta a morire. Eccola ancora Alcesti in una scena strappalacrime, tipo I figli di nessuno con la coppia Nazzari/Sanson, pronunciare le sue ultime parole, salutare la luce del sole, compiangere se stessa, accusare i suoceri, che egoisticamente non hanno voluto sacrificarsi, consolare il marito e infine morire. Con l'arrivo di Eracle con clava in mano ( un po' falstaffiano invero quello di Stefano Santospago) la tragedia rallenta. E rallenta pure per l'entrata in scena d'un servo di stampo plautino (Sergio Mancinelli) che si lamenta del comportamento del super-eroe, che senza alcun riguardo per lo status di lutto della famiglia ospitante, del resto occultato in parte dallo stesso Admeto, si è perfino ubriacato mangiando a quattro ganasce. Come sempre accade quando si dice a qualcuno di non rivelare una qualche verità, il servo spiffererà ad Eracle che la tristezza percepita in Admeto non è per la morte d'una donna del palazzo, ma per la moglie Alcesti. L'eroe è dispiaciuto e risentito e come nel suo stile, una-fatica-tira-l'altra, decide emulando Orfeo di scendere nell'Ade e prendersi la sua Euridice, per riportarla in vita. Eracle ritorna con una donna velata, situata in piedi all'interno d'un carrettino, dicendo agli amici d'averla vinta a dei giochi pubblici. Alle prime Admeto ha quasi orrore a toccarla, convinto che non sia Alcesti, poi la guarda solo per compiacere il suo ospite e scopre che la donna non è di cera come una figuretta del Musée Grevin di Parigi, ma la sua Alcesti, la donna che visse due volte, restituita all'amore suo e dei suoi cari, spiegando poi (Eracle) che non le è consentito parlare per tre giorni, il tempo necessario per essere sconsacrata agli inferi. E mentre i protagonisti escono di scena, l'oceanico pubblico del Teatro greco di Siracusa accompagna la loro uscita con ovazioni e calorosissimi applausi.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Giovedì, 19 Maggio 2016 09:30

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