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ANGELO NATO DA UN SOGNO (L') (La condizione di Pietro) - diretto da Piccolo Parallelo/ Cecchi-Zappalaglio

"L'angelo nato da un sogno", diretto da Piccolo Parallelo/ Cecchi-Zappalalglio "L'angelo nato da un sogno", diretto da Piccolo Parallelo/ Cecchi-Zappalalglio

di e con Enzo G. Cecchi
Ideato e diretto da Piccolo Parallelo/ Cecchi-Zappalaglio

visto a Pumenengo (Bg) il 20 luglio 2017 

nell'ambito di Odissea, XVII edizione Festival della valle dell'Oglio 23 giugno-23 luglio 2017
Province di Bergamo, Cremona, Mantova, Brescia

www.Sipario.it, 29 luglio 2017

Un angelo di Romagna tra le campagne della bergamasca

Per anni si è parlato tanto di decentramento. Prima ancora che il progetto del Piccolo di Milano - il tendone da circo che ospitava gli spettacoli del repertorio strehleriano, ma non solo, nei quartieri - era stato il progetto dello Stabile torinese, inaugurato con le controverse Azioni di Decentramento di Giuliano Scabia, a dare il senso di una svolta nel rapporto tra teatro centrale e periferie urbane. Poi ci fu l'Animazione, i Gruppi di Base, il Terzo Teatro: come non ripensare al lavoro dell'Odin Teatret in Salento nel 1973-74, che pose le basi per la successiva esplosione di creatività organizzativa e artistica, di cui ancora oggi si colgono i frutti in tutta una rete di villaggi tra Carpignano e Gallipoli, e, in fondo, in tutto il Salento?
Semplificando e saltando un po' di passaggi si potrebbe poi arrivare alle residenze piemontesi, nei primi anni duemila, che ripresero quel discorso, facendosi promotrici di una cultura teatrale che nasceva dal basso, professionale e artigianale, radicata e proiettata, stanziale e fluida. Il Piemonte è stata la prima regione italiana a dotarsi di una legge che dava facoltà, e risorse, a piccole compagnie, di insediarsi in un territorio "decentrato" per attivare tutta una serie di pratiche artistiche e organizzative. Dove l'organizzazione si traduceva in arte teatrale di preparazione dell'evento, e l'atto artistico conteneva anche un atto sociale e organizzativo nel dialogo con un territorio. Legge ed esperienza pilota in Italia, questa piemontese, che ha prodotto tanti frutti molto diversi tra loro e che fu cassata nel 2009 a seguito dell'elezione della giunta regionale leghista.

Il punto è che, sparite in alcuni casi, o svuotate di risorse, le leggi, la tensione alla residenzialità (da alcuni anche chiamata a suo tempo "stabilità leggera") avendo assunto altra forma, nondimeno la prassi di alcune compagnie storiche non si è affatto interrotta, né ha cambiato fisionomia al cambiar delle tendenze. Tensione che ha assunto altra forma dicevamo poco sopra, perché la "residenza" spesso ormai è identificata come un luogo in cui una compagine teatrale radicata, spesso dalla fisionomia più organizzativa che artistica, accoglie una compagnia esterna, per lo più giovane, che in un contesto protetto è invitata produrre il proprio spettacolo anche a partire da dati storico-culturali del luogo ospitante, per poi restituire alla cittadinanza la propria ricerca in forma di studio.

Se il decentramento ha sempre dato la sensazione di un atto temporaneo, necessariamente tale poiché nasceva in fondo da esigenze di diversificazione strategica delle politiche istituzionali in un'ottica di intervento nelle periferie o nella "provincia", il persistere trentennale o quarantennale del lavoro di certe compagnie in determinati angoli d'Italia non si può più definire decentramento o residenzialità (specie nell'accezione ora vigente), ma forse, proprio perché esso pone l'accento sul tempo lungo, e anche per la relativa indipendenza da certe logiche del teatro istituzionale, è più preciso definirlo un ricentramento. Il ricentramento è il punto di vista di chi fa nelle condizioni date un lavoro di lentissima propagazione della cultura teatrale contemporanea, con una coerenza e una densità spesso fuori misura rispetto alla piccola tara della provincia e alle instabilità politiche degli enti locali. Un rilascio lento, ma ricco, di stimolanti culturali dentro a un corpo sociale preda spesso di quella tipica pigrizia intellettuale che, quand'è lasciata a se stessa, alle sue idiosincrasie e soprassalti, sedotta com'è da entusiasmi fugaci e sempre sopraffatta da rigidità schematiche, induce quasi sempre al ricalco pedissequo di modelli ampiamente assimilati al mainstream culturale.

Ecco che allora si può forse definire ricentramento il quarantennale operato del Teatro Tascabile di Bergamo; o quello di poco più giovane di Piccolo Parallelo, che si è ritagliato una propria particolarissima modalità di "nomadismo stanziale", si potrebbe dire con un utile ossimoro, in un territorio che comprende i confini di ben quattro province (Bergamo, Brescia, Cremona, Mantova), e lungo un itinerario naturalistico, quello del fiume Oglio, cui spesso ha dedicato camminate teatrali site specific colme di un senso mistericamente laico del paesaggio naturale.

Guarda caso le due realtà appena citate appaiono poco nel discorso critico odierno: forse le si ritiene solo il lascito residuale di una passata e pur gloriosa stagione del teatro di ricerca italiano? Eppure il pubblico che si vede al festival Odissea di Piccolo Parallelo non è affatto composto di fantasmi, è un pubblico vero, in carne ed ossa, numeroso, di cittadini comuni, e anche di spettatori allevati negli anni alla visionarietà resiliente del duo Cecchi-Zappalaglio, anima-corpo della compagnia. Si può non accorgersene?

Così veniamo a sapere che il nuovo lavoro del drammaturgo, attore e regista Enzo G. Cecchi L'angelo nato da un sogno (la condizione di Pietro), collocato in uno spazio non teatrale come la sala consiliare di Pumenengo, dentro al suggestivo, piccolo castello Barbò, avrebbe dovuto accogliere non più di quaranta persone alla volta per le tre repliche previste il 18, 19 e 20 luglio, e invece ha ricevuto richieste molto superiori al previsto.

Lo sguardo di Cecchi drammaturgo spesso si è appuntato su personaggi e situazioni immersi in una mai neanche apparente tranquillità provinciale, anzi da essa ben lontani, calati in una irrequietezza e un disagio esistenziale che non sono certo la cifra di una buona vita appartata, ma registrano il fermento occulto che muove le pieghe più nascoste – e vive e contraddittorie e lacerate – di questi angoli remoti di terra italiana. Così, se gli spettacoli precedenti potevano parlare di un partriarca del Nord est come di un Re Lear delle nebbie alle prese con la scomoda eredità della sua famiglia dispersa e disastrata, o, in anticipo sui tempi, della perturbante presenza di uno straniero che si insinua pian piano nel tran tran di un "tranquillo" indigeno di mestiere muratore, attraverso l'atto concreto della costruzione e distruzione di un giardino (Il giardino delle arance e degli angeli che piangono), in L'angelo nato da un sogno (la condizione di Pietro) vediamo il persistere di un dolore immedicato, dove l'impulso che muove il personaggio di Pietro in cerca della propria incerta origine, dinamizza tutta la vicenda, la colora di una irrequietudine che non si placa mai, neanche per un momento; ricerca che viene messa in moto da un evento traumatico, cioè la scoperta, fatta da Pietro in età ormai matura, che egli non può essere il figlio naturale della propra madre.

L'indagine sulla propria vera radice familiare da quel momento in poi si insinua nelle pieghe di un'area geografica all'epoca della nascita del protagonista poverissima, situata in un'ampia area intorno a Cesena: cioè tutta una fascia di Romagna ben diversa dalla riviera riminese, pur da essa non troppo lontana, racchiusa in un misterioso triangolo che sembra definirsi come figura geometrica dell'incertezza, del pericolo, dell'alterità ("di là dal fiume c'erano gli stranieri..." recita più o meno una delle battute dello spettacolo); spazio di una nascita indeterminata, disseminata, come si fosse in presenza di uno sparagmos immediatamente postnatale, di cui radunare dolorosamente i lacerti, ma solo molto tempo dopo, a maturità pienamente realizzata, dentro al reticolo di una toponomastca mitica, quasi sacra, da cui trarre però altro che consolazioni, incertezza pittosto, angoscia, smarrimento; ed ecco emergere allora, a partire dalla scena iniziale in cui si racconta della fatidica scoperta, causata dall'incompatibilità del proprio gruppo sanguigno con quello della madre, tutto l'iter di ricostruzione dell'origine di Pietro, lacunoso, confuso, compiuto in terza persona da un suo alter ego: ricostruzione che non approderà a nulla, se non a supporre la scena originaria di uno scambio nel quale una donna cede il proprio figlio neonato, non desiderato, a un'altra donna cui è appena morto un figlio viceversa assai desiderato.

Lo spettacolo vede Enzo Cecchi solo in scena muoversi in uno spazio dove un tavolo e due sedie ricoperti di grandi lenzuoli bianchi disegnano una scena candida, tratteggiata da fitti segni di pennarello rosso e nero che coprono tutti i teli, a ricreare una mappa geografica carica di toponimi di quella Romagna "dove il vento delle montagne si incrocia con quello che arriva dal mare".

Una presenza non canonicamente attoriale quella di Cecchi, verrebbe da dire, dal momento che egli non recita, e neanche parla come farebbe un attore che cerca di non recitare. Il suo eloquio, mai enfatico, anzi quasi straniato, attento a non farsi catturare troppo dal magma anche emotivo del racconto, segue piuttosto una cadenza sua propria, con pause, sospensioni, ripetizioni, cambi di ritmo, che non ha nulla a che fare nemmeno con la narrazione teatrale. In scena non c'è un attore e non c'è un narratore; c'è un uomo in elegante giacca nera, dai movimenti precisi, dalle traiettorie spaziali ben delineate, che pare evocare mondi remoti, e lo fa a volte lasciando sgorgare per repentini sussulti una risata profonda, grave, ironica, antica, consapevole. La sua è una presenza quasi ieratica, ma di una ieraticità contadina, con quella solennità semplice che può avere un uomo che ha lavorato la terra tutta la vita, e tuttavia in quella terra ha visto il proprio piccolo cosmo riflettersi nel cosmo più grande, con i suoi misteri. Si può dire che Cecchi danzi, in quel suo modo quasi sbilenco, da ballerino che ne ha fatti di balli, e ora li accenni con una punta di ironia; e che canti, in quel suo modo quasi rauco, come si canta tra sé, e che sentiamo definirsi nella melodia del "Tango delle capinere", a voce ora spiegata ora mormorata. Ma oltre a questo Cecchi cerca tutto il tempo la posizione esatta da cui dire il suo racconto, e lo fa salendo e scendendo dal tavolo-mappa, salendo in piedi or su una sedia ora sull'altra incastellata sul tavolo; o sedendo e mirando, aggomitandosi alla spalliera. In certi momenti il lenzuolo-mappa copre il corpo del performer, e verrebbe voglia di vederlo scomparire, a volte, quel corpo, sotto le bianche e pesanti coltri tracciate: sparizione del corpo anagrafico nel paesaggio riscritto, come per riattivare un senso che sfugge alla lettura del paesaggio semplicemente naturale, e che pure sembra essere inscritto in quella geografia.

E' curioso nell'era ipertecnologica dei GPS vedere una traduzione tanto povera di quello che una videoproiezione sarebbe in grado di fare con più rutilanti effetti; tuttavia questa sorta di rovesciamento paradossale dell'effetto proiettivo acquista un sapore terragno che sarebbe impossibile rendere diversamente, generato com'è da ripetute, e non coreografate, manipolazioni dei lenzuoli-mappa, usati anche per detergersi il volto dal sudore - e qui il richiamo a certa iconografia della Passione arriva, forse involontario, tuttavia pertinente - in una casualità voluta che allontana il rischio di cadere nel cliché, nell'ormai più che stucchevole maniera del "lavoro col lenzuolo".

Spettacolo potente insomma, anche perché fuori dai canoni e dalle mode, forte di un'appena accennato sapore biografico, ma che soffre forse di un'eccessiva lunghezza, su cui la ripresa prossima, in vista della stagione invernale, potrebbe con profitto intervenire.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Domenica, 30 Luglio 2017 23:49

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