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ALLARMI - regia Davide Sacco

"Allarmi" - regia Davide Sacco. Foto Gianluca Sacco "Allarmi" - regia Davide Sacco. Foto Gianluca Sacco

Ideazione: Davide Sacco e Agata Tomsic/ ErosAnteros
Testo: Emanuele Aldrovandi
Regia: Davide Sacco
Con: Maurizio Cardillo, Giusto Cucchiarini, Luca Mammoli, Massimo Scola, Agata Tomsic
Produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
Teatro delle Passioni di Modena, dal 5 al 17 dicembre 2017

www.Sipario.it, 1 gennaio 2018

Un fondale rosso-sipario di velluto e due schermi laterali su cui campeggia un simbolo, un motivo grafico nero in tondo bianco su fondo rosso. Il simbolo è una doppia croce, una "x" stretta e lunga che si ripete due volte, in orizzontale e in verticale. Richiama fin da subito la croce uncinata (ma anche alcuni lavori grafici dell'artista visiva Fausta Squatriti), poi un braccio-gru mobile con sopra montata una videocamera: sullo sfondo di tutto questo ecco entrare Vittoria (Agata Tomsic): personaggio sinistro e conturbante, movenze sinuose e aggressive, a scandire con colpi del microfono nel palmo della mano un passo marziale con il quale prende la scena e introduce il tema dello spettacolo. Un giorno di qualche anno prima, l'attentato al presidente dell'Unione Europea ha gettato nel caos tutti i paesi membri che si sono visti attaccare da cellule dormienti di terroristi facenti capo a Vittoria. Ed è lei che sentiamo magnificare le sorti progressive di un nuovo ordine dove violenza xenofoba e prevaricazione sistematica sono ora realtà quotidiana. Siamo in una distopia in fase iniziale il cui percorso di affermazione verrà fra poco narrato a ritroso. L'apparato visivo-sonoro che si mobilita fin da subito con l'attivazione della videocamera, degli schermi e della colonna sonora è volto ad amplificare la presenza fisica della dittatrice inguainata in pantaloni di pelle nera, giacca militare aderente ai fianchi, scarpe con zeppe e tacchi altissimi – ma non stivali marziali, come a suggerire uno stretto rapporto tra potere e sesso, sotto tema che tornerà a emergere nel corso dello spettacolo – coda di cavallo, volto biaccato e segnato da due arcate sopracciliari nerissime, labbra rosso fuoco: una figura che richiama l'espressionismo, l'estetica nazista e il sadomaso; il suo è un recitare per modulazioni quasi cantate al microfono, un lasciare che la maschera del volto si deformi in spasmi o in una dilatazione meccanica del sorriso spinto nella direzione del digrignamento canino, il tutto segnato da una gestualità esatta, marcata, vigorosa, elegante. Tutti questi elementi, a cui si aggiunge un mix sonoro di musica elettronica e canti epico-guerrieri ad altissimo volume con bassi percussivi profondi da vibrastomaco, e l'abbondanza di strumenti tecnologici dell'amplificazione sonora e della riproduzione visiva (selve di aste e microfoni, oltre al braccio-gru detto che riprende in primissimo piano ogni espressione del volto di Vittoria) evocano molto bene la violenza propagandistico-suggestiva, la seduzione aggressiva in chiave femminile che potrebbero costituire l'efficace cifra comunicativa di una presunta futura dittatura neonazista.

La trama è presto detta – e il testo di Emanuele Aldrovandi prende poi da subito una piega più narrativa che stempera progressivamente (e ci pare quasi un peccato) la martellante violenza visivo-sonora delle primissime scene: è la storia di un reclutamento nel quale incappa un universitario precario attratto da un annuncio di lavoro cui segue la convocazione per un colloquio: il disagio social-esistenziale dello studente emerge dalle risposte alle domande della leader e fornisce un'istantanea, ancorché un po' schematica e prevedibile, della situazione attuale di tutta una generazione; ed ecco la proposta rivoluzionaria offerta al gruppetto (entrare a far parte della cellula che rovescerà il sistema con l'attentato in diretta streaming) prendere i tratti non tanto di quella che potrebbe eventualmente rivelarsi come una liberazione di sé all'interno di un processo collettivo, quanto quelli di una liberazione da un fatto collettivo, epocale, che chiede una risposta di responsabilità, attraverso un processo di intensificazione del proprio narcisismo: è solo eliminando il diverso, pericolo che mi minaccia sulla porta di casa, che posso trovare una forma di felicità sociale e personale, sembra enunciare fra le righe il programma terroristico. Ancora una volta è la superfetazione della sicurezza a lastricare la strada per una qualche forma – contorta – di realizzazione personale. E in questo lo spettacolo, prodotto nel 2015, sembra aver anticipato triste ricorrenze dell'attualità più recente. Il testo procede per consequenziali situazioni che conducono gradatamente il nuovo arrivato a integrarsi nel gruppo e via via a percepire con sempre maggiore chiarezza – e noi con lui – la situazione nella quale si ritrova implicato. Vittoria è un'abilissima dominatrice: il suo più fedele sgherro è uno che lei ha cooptato probabilmente promettendogli delizie sadomaso, ed è anche un'adolescente nauseata dal mondo post politico degli adulti rappresentato dalla figura del padre: un tipo di conformista di sinistra immerso in una specie di patetica deriva libertaria senza criterio, che sostiene di poter accettare ogni posizione e scelta esistenziale possibile, salvo poi bloccarsi, ma più per un riflesso pavloviano che per vera convinzione, sul dogma dell'illegalità dell'apologia di fascismo.
La vicenda, paradossale e grottesca, si muove tra colpi di scena, dilatazioni oniriche della pulsione sadico-erotica che pare muovere Vittoria, rappresentazioni più o meno naturalistiche, dotate di una certa forza ed energia, di una sessione di addestramento militare condotta dalla stessa marionetta-capo (ché da qui viene la forza teatrale del personaggio di Vittoria: dalla sua inquietante de-umanizzazione; una marionetta, appunto, che richiama certe figure archetipiche del teatro orientale: il trucco pesante, i coturni-tacchi a spillo, certe linee geometriche dell'abito militare; ma è anche in qualche modo una sorta di delirante versione femminile in veste nazi di padre Ubu). Il tutto è sostenuto da un tono di intelligente ironia, tuttavia, specie nei "siparietti" quasi cabarettistici che si interpongono ogni tanto nell'azione – in cui vediamo all'opera dialoghetti surreal-simbolici per esempio tra la Statua della Libertà e Adolf Hitler o tra Ponzio Pilato e Gesù – è un po' appesantito dalla volontà di dire troppe cose: piccoli apologhi questi che avrebbero una loro autonomia di sketch, per un tipo di istant theatre da mettere alla prova magari in contesti non teatrali, ma che risultano eccessivi nell'economia generale del lavoro.

Il progetto di eliminare il presidente dell'UE alla fine va in porto, ma si ritorce subito contro gli attentatori, che appaiono ora come ingenui sognatori: ogni azione volta a debellare il sistema del turbo-capitalismo transnazionale imperante sarà resa innocua perché prevista e recuperata dallo stesso come variante, come eccezione che conferma la regola. La tesi, qui spinta al paradosso, ed enunciata in un discorso agli attentatori dalla stessa vittima designata, non è nuova, anzi, è quasi un luogo comune, e viene resa con un certo humour nero dalla risuscitazione continua del presidente UE crivellato di colpi (prontamente rilanciato in primo piano sui due schermi, nei quali vediamo il sangue che nella realtà della scena non appare – un riferimento involontario alla funzione ideologica di certa informazione televisiva dove il sangue esibito della violenza esplicita, o la pornografia del quotidiano, è make up che copre la violenza occulta delle dinamiche e dei processi di oppressione sociale e politica contemporanee?) con un efficace gag che riprende in chiave grottesca certe soluzioni da b-movie di fantascienza dove il mostro, l'alieno, il robot risorge nel momento stesso in cui sembra definitivamente morto.

Insomma, il lavoro benché presenti qualche lungaggine ha una sua forza preponderante nel gruppo di attori (Maurizio Cardillo, Giusto Cucchiarini, Luca Mammoli, Massimo Scola, Agata Tomsic: tutti bravi) e nell'attento e per certi versi visionario lavoro della regia di Davide Sacco. Certo, la schematicità un po' "a tesi" del testo non aiuta, ma lo spettacolo resta comunque una bella prova di un teatro che cerca di sondare alcune pieghe della contemporaneità, ricco visivamente e attorialmente, per giunta realizzato da un giovane gruppo che merita attenzione; e speriamo che ERT - Teatro Nazionale, produttore del lavoro, confermi alla compagnia tutto il sostegno che merita.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Venerdì, 05 Gennaio 2018 09:27

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