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CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO (LA) - regia Claudio Longhi

"La classe operaia va in paradiso", regia Claudio Longhi. Foto Giuseppe Distefano "La classe operaia va in paradiso", regia Claudio Longhi. Foto Giuseppe Distefano

liberamente tratto dal film di Elio Petri
sceneggiatura Elio Petri e Ugo Pirro
drammaturgia di Paolo Di Paolo
regia di Claudio Longhi
scene di Guia Buzzi, costumi di Gianluca Sbicca
luci di Vincenzo Bonaffini, video di Riccardo Frati
musiche e arrangiamenti di Filippo Zattini
regista assistente Giacomo Pedini
assistente alla regia volontario Daniel Vincenzo Papa De Dios
con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell'Utri,
Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Manea, Eugenio Papalia,
Franca Penone, Simone Tangolo, Filippo Zattini
produzione Fodazione Emilia Romagna Teatro
Roma, Teatro Argentina, dal 22 maggio al 2 giugno
In ripresa autunnale

www.Sipario.it, 30 maggio 2018

Il lavoro, caro mio, qualsiasi lavoro...prima te ne esci meglio è... (Ugo Pirro)
Gli Ultimi resteranno tali

Excusatio non petita? Singolari ma indubbiamente sintomatiche -di una transizione d'epoca.. "liquida", sciamanica, senza destinazione.. che investe non solo ciò che resta della 'classe operaia' (nucleo omogeneo? Sylos Labini ne dubitava), ma l'intera 'civiltà' di un Occidente in declino- rimbombano le delucidazioni con cui Di Paolo e Longhi (drammaturgo e regista) si sperticano nel "giustificare", accreditare, dare senso e attualità a questa complessa, ambiziosa, fuor di dubbio convincente (avvincente) trasposizione del film realizzato da Elio Petri, su sceneggiatura di Ugo Pirro, nel 1971, immediatamente dopo la (tribolata) conquista dell'Oscar con "Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto". Sempre con Gian Maria Volontè, e Salvo Randone, a farla da padroni del set. Personalmente temo che vi sia ben poco di cui chiosare e preoccuparsi: giusto in attesa che la "gioiosa macchina da guerra" dell'utopia neo-illuminista, contrapposta alla mai debellata alienazione da lavoro," specie se insulso e ripetitivo", teorizzata ed auspicata dal caro (ed empatico) Mimmo De Masi, faccia giustizia di ogni disparità e morfologie di nuova 'schiavitù'.

Come dire? Magari "La classe operaia..." fosse un reperto d'epoca, un residuato di archeologia industriale da esporre, come odiosa reliquia, ad una 'nuova-plebe' affrancata dal bisogno e dalla biblica maledizione di 'sudore in fronte' e facchinaggi da schiattare. Non solo "La classe operaia..." ma anche "Tempi moderni" di Chaplin e i primi documentari di Ermanno Olmi su 'torture e storture' da catena di montaggio (e 'morte al lavoro') non perdono un grammo di significato in tema di alienazione (e abbrutimento) da "cupidigia e profitto". Peraltro reiterati in una "sporca dozzina" di altri titoli ammonitivi (di ciò che "siamo") fra i quali, cito a memoria, meritano degno ripasso i più recenti "Sole cuore e amore", "Mi piace lavorare", "Tutta la vita davanti", "Hotel Paura", "Giorni e nuvole", "Gli equilibristi" -giusto nell'ambito della produzione nostrana non sempre pronuba di cine-panettoni e 'perfetti sconosciuti'.
Pertanto- e nel confuso indugio che qualche brandello di integrazione al reddito o sbafo da cittadinanza rendano , chi più chi meno, parassiti sdraiati e fancazzisti da riporto- limitiamoci alla sola (nostra) competenza che è quella di confermare l'originalità e la qualità di un'operazione drammaturgica che non è, innanzi tutto, il ricalco calligrafico del pur intrigante plot narrativo tramandato dal film. Ma una sorta di laboratorio, officina, montaggio 'a scalare' (fra l'artigianale e l'industriale, considerato l'economico azzardo di produzione) di due metalinguaggi, cinema e teatro, esposti ad una sorta di destrutturazione e ri-assemblamento mosaicale, probabilmente ardui da decifrare se non si ricorda l'originario filmico (perché non proiettarlo prima che si vada in scena?), ma certamente inusitato e coraggioso rispetto ad una drammaturgia corrente (un esempio?"Il nome della rosa") che si adagia sul "titolo" (ad effetto) per trarne un più sbrigativo sbigliettamento e feconda tournée. Per il resto, nulla nasce dal nulla, così come è palese che dietro la scelta di Longhi e Di Paolo esiste una benemerita 'scuola' di teatro di ricerca – da Pippo Di Marca ad Antonio Latella, sottintendendo Carmelo Bene e rivalorizzando il tandem Paolo Poli\ Ida Omboni- che, dagli anni settanta in poi, ha fatto a 'brandelli' (con le migliori intenzioni) la più schietta grandeur del teatro d'ogni tempo (da Shakespeare a Molière, da Williams a Eduardo) per offrirla in pubblico con la magnifica, crudele irriverenza con cui Tito Andronico "serviva il pasto" (antropofago) agli ignari commensali.

Che poi l'increscioso apologo di Mimì Massa ("omen in nomen"?) sia quello di sempre; che la sua vita da stakanovista redento (verso nuovi inferni di efficientismo) blateri di perfezionismo, morte della libido e grotteschi obnubilamenti non fa una grinza; che il reclusorio in cui egli si esagita (con esplicite citazioni da Lang e "Metropolis") somiglia più a un manicomio che fabbrica... nulla che non si sappia. Giunge in contropiede, invece, la reiterazione dell'ultima sequenza del film e dei suoi titoli di coda - a significanza, un po' didascalica, di torture cinesi e fatiche di Sisifo. Lo stesso valga per i brechtiani (non invasivi) intermezzi di commento, assenso e riluttanza che Petri e Pirro (sobriamente 'replicati' da due attori emersi dall'affiatata coralità dell'ensemble) effettuano nella 'visita al cantiere' della loro contrastata impresa (poi accusata di disfattismo dai 'padri nobili' del P.c.i).
Blandito e 'deriso' da un novello cantastorie (che sembra tratto da un romanzo di Bianciardi) e con fattezze di Immensa (kafkana) Cella da 'evasione impossibile', lo spazio scenico è diviso per grandi grate e nastri trasportatori, "indispensabili" per frazionare persone e meccanismi produttivi da "ciò che starà oltre": nessun mistero, altri gulag di internamento e 'beato ottundimento'. Nei quali ci si propone di vivere, ieri come oggi, come se nulla fosse, o meglio, come se la Storia fosse tabula rasa.

Ps. Secondo il principio già espresso del "nulla nasce dal nulla", riconosciamo all'opera di Petri la sua dichiarata contiguità (e ispirazione) con esperienze letterarie anni settanta, incentrate sulla condizione del lavoro 'alienante-protoconsumista', tramandata lapidariamente dai romanzi e poemetti (alcuni musicali) di Ottieri, Volponi, Balestrini, Pagliarani, De Andè, Bassignano, Della Mea. E altri lodevoli 'avvistatori' che probabilmente dimentico.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Venerdì, 01 Giugno 2018 09:39

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