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C'E' DEL PIANTO IN QUESTE LACRIME - regia Antonio Latella

C'è del pianto in queste lacrime C'è del pianto in queste lacrime Regia Antonio Latella

drammaturgia: Antonio Latella e Linda Dalisi
regia: Antonio Latella, scene e costumi: Simone Mannino e Simona D'Amico, musiche: Franco Visioli, luci: Simone De Angelis
Con: Leandro Amato, Michele Andrei, Alessandra Borgia, Caterina Carpio, Michelangelo Dalisi, Francesca De Nicolais, Lino Musella, Candida Nieri, Emilio Vacca, Valentina Vacca, Francesco Villano
Teatro San Ferdinando, Napoli. Anteprima. Repliche dal 30 gennaio 2013

www.Sipario.it, 28 ottobre 2012

Il debutto al Napoli Teatro Festival è stato il 'ballon d'essai' di questo nuovo, possente spettacolo di Antonio Latella (scritto in collaborazione con Linda Dalisi), che giunge a completare un'ideale triade di inusitati, 'esasperati' eventi scenici iniziati, due anni fa, con lo sconvolgimento molièriano di "Don Giovanni, a cenar con teco" e proseguiti (ne abbiamo scritto su queste pagine) con la magistrale trasfigurazione (in incantesimo frantumato, jazzistico) di "Un tram che si chiama desiderio" di Tennesse Williams. Seguendo un personale percorso di contaminazione, meticciato, sperimentazione di generi e linguaggi (escandescenti o 'ululati' in fremente dosaggio), il Latella di "C'è del pianto in queste lacrime" eleva a prismatica roccia d'escursione i canoni, gli stilemi, la memoria autoctona della sceneggiata napoletana per restituire ad essa la 'singolarità', la dignità di cui è stata derubata durante il novecento. Assumendo un dirompente mix di antropologia 'disperata' e cultura dei 'basci' a baricentro di uno spettacolo ruvido, 'opprimente', ritualistico, l'autore partenopeo mira a ricomporre una sorta di mosaico drammaturgico ('cuore pulsante, dopo lacerate arterie ematiche') affrancato da ogni residuato di turpitudine, volgarità, sradicamento da certe radici popolari che 'narrano di passione e di morte' in misura degna dei grandi 'sacramentales', degradati nella miseria e nelle vessazioni subite da Napoli e dalla sua gente nel corso dei secoli. Senza -questa volta- piangersi addosso.
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La struttura dello spettacolo non comporta l'allestimento di una sceneggiata in senso stretto (con tipi, macchiette, figuranti previsti dall'iconografia popolare),semmai una 'summa' di suggestioni ed evocazioni, una stratificazione ossessiva di nenie e di temi misturati in forza centripeta di canzoni 'sguaitate e melodiose', in tormentoni da umile ecolalia 'ncopp e quartieri', in graduale approdo ad una sorta di io -narrante (Giovannino o Assuntella?) che ha natura ambigua, femmeniella, emendata di 'sfrogoliamento' e morbosità poiché nominata 'simbolo' di una collettiva dannazione dissolta in smarrimento dell'anima, sonno della ragione, svendita d'ogni idea di futuro. Prospettiva etica ed antropologica in cui Napoli smette di essere città solare , chiassosa, viscerale, caricandosi sulle nude (sue ) spalle peso e sacrificio di ben più diffuse soverchierie, iniquità 'a cielo aperto'.
Quella che in genere si definisce l'idea forte della rappresentazione è data dalla raffigurazione post-moderna del personaggio da cui dirama ogni cosa: una creatura (un body cult?) con artigli di rasoio, sperduta nello sguardo e nel tempo, identica all' "Edward mani di forbice" di Tim Burton bloccata su di un letto di contenzione (in proscenio) in grado, come alieno o puparo metallizzato, di governare le fila di una memoria familiare, che-a sua volta- scaturisce da una fenditura a medio livello, lungo tutto il palcoscenico, donde emergono 'remoti nativi' costretti a muoversi come dentro un tunnel di cupi fetori e malsani respiri ('Gesù, fate luce!' sarebbe una citazione appropriata) preposti a 'recintare' una città abnorme, squartata, consegnata ad un genere di spettri cui è negata persino la consolazione del 'farsi' espressionismo.
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Guappi, maluommi, questurini e 'malamente' sono rispediti (a purificarsi?) in una specie di inferno, anzi di fafkiana latrina, in cui subiscono la più abietta delle metamorfosi: mosche, scarafaggi gi, 'zoccole' di una pestilenza morale e materiale non dissimile da quella enfatizzata da Malaparte in "La pelle", ma che in questo caso non deriva da 'occupazione' straniera, da eventi taratologici, da prostituzione in cambio di cibo- ma da una sorta di raggelata ossificazione del paesaggio geografico ed umano (che pur inneggia 'o sole mio') in incrostazioni gelide, ferrigne, cronemberghiane- come in un film di fantascienza al suo ultimo stadio di laidume.
Pestilenze,delazioni, tradimenti, puttanesimi hanno –in Latella- connotazioni orripilanti e, allo stesso tempo, tragicamente poetiche. Come se 'i fiori del male' (la cui lingua suona cavernosa, sovrapposta, incomprensibile) fossero fuggiti dalla Parigi di Baudelaire per appestare e ridestare (da atavico torpore) l'immane, immonda sceneggiata cui è stata ridotta la nostra vita relazionale. Da cittadini a sudditi. Derubati di memoria e futuro.

Angelo Pizzuto

Ultima modifica il Domenica, 11 Agosto 2013 15:56

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