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DON GIOVANNI RITORNA DALLA GUERRA - regia Carlo Cerciello

Don Giovanni ritorna dalla guerra Don Giovanni ritorna dalla guerra Regia Carlo Cerciello

di Ödön von Horváth
traduzione Teodoro Scamardi
regia Carlo Cerciello
con Remo Girone e con Daria Pascal Attolini, Monica Bauco, Francesca Caratozzolo, Isabella Carloni, Angela De Matteo, Desirée Giorgetti, Milvia Marigliano, Valentina Picello, Alessia Vicardi
scene Roberto Crea, costumi Daniela Ciancio, musiche Paolo Coletta
Napoli, Teatro Mercadante, dal 15 ottobre al 2 novembre 2008

www.Sipario.it, 29 ottobre 2008
Corriere della Sera, 26 ottobre 2008
La Stampa, 23 ottobre 2008
La Repubblica, 20 ottobre 2008
Il Mattino, 18 ottobre 2008

Se qualcuno dovesse chiedermi cosa rimane nella memoria dopo aver assistito a questo "Don Giovanni ritorna dalla guerra" di Odon von Horvàth (ben tradotto da Teodoro Scarmardi), per la regia di Carlo Cerciello, regista premiato recentemente con gli "Olimpici-Eti", settore Innovazione, e questo riconoscimento è già una garanzia, risponderei senza esitazione:

la ricchezza delle immagini sceniche che animano le innumerevoli sequenze; la pluralità dei segni emblematici, evocativi, provocatori - sintesi di un pensiero creativo eccellente e impegnato sul versante sociale, corredato da una bella dose d'ironia;

la capacità di utilizzare gli elementi scenografici (un divano, un lettino, un armadietto, una saracinesca, ecc.) che entrano ed escono dall'alto, dai lati; l'uso sapiente delle musiche; l'amalgamare armoniosamente in un modello recitativo e canoro il gruppo delle nove attrici che devono far rivivere l'universo femminile di Don Giovanni. E l'elenco degli elementi che hanno impressionato la memoria potrebbe continuare.

E se quel qualcuno mi chiedesse ancora che cosa ha voluto dire l'autore, risponderei senza esitare: narra il viaggio di un Uomo reduce da una guerra che devasta, come tutte le guerre, l'essere umano, riducendolo a relitto, rottame di se stesso. Narra del viaggio che l'Uomo compie nelle macerie della sua memoria, alla ricerca di quei frammenti d'amore e di vita da rimettere insieme per ricostruire la donna "ideale" che lui ha amato e che impedisce l'accesso ad altre. La donna amata a cui lui scrive continuamente in attesa di una risposta che non arriverà mai perché morta di abbandono; un viaggio dentro la guerra interiore di un Uomo che, egoista, prendeva e distruggeva sul piano dei sentimenti.

E poi potrei continuare a dire che la proposta da parte di un Teatro Stabile qual è il Mercadante, diretto con acume da Roberta Carlotto, è stata coraggiosa perché esposta a molti rischi, intelligente, innovativa, appunto.

Il regista ha calato la storia in uno spazio mnemonico buio, nero, da cui spuntano i personaggi femminili. Descritti in chiave grottesca, essi si esprimono in maniera antinaturale dissolvendo dal recitativo sul cantato, creando un mondo che si antepone dialetticamente a quello spento, affranto, realistico del reduce, che vive tra passato e presente.

Il rapporto tra Don Giovanni e i personaggi evocati può spiazzare qualcuno che vorrebbe una unità di stile, ma secondo noi, Cerciello, che in questa messa in scena ha cavalcato i diversi generi teatrali del teatro contemporaneo, dall'espressionismo, al grottesco, al teatro epico, straniato, bene ha fatto a insistere sulla dialettica tra i linguaggi.

Bene ha fatto ad usare insegne luminose per indicare le tappe dei luoghi che il Nostro attraversa, conferendo allo spettatore la responsabilità di coinvolgere il proprio immaginario. Lo faceva lo stesso Shakespeare per le sue opere, lo ha fatto Brecht e tutti quelli che puntano alla ragione dello spettatore, anziché ingabbiarlo in soluzioni definite.

La chiave di lettura, il regista ce la offre fin da quando il pubblico entra in sala, e là, in alto, campeggia l'insegna che pone una domanda: "La guerra è finita?". E che tornerà a chiudere lo spettacolo, mentre Don Giovanni in un mitico abito bianco, si lascia morire sulla tomba della donna da lui amata, mentre in successione, si spengono tutte quelle insegne accese che hanno fatto da capitolo alle sequenze sceniche per concludersi sull'unica che rimarrà accesa, cioè quella che ha accolto il pubblico, mentre da lontano arriva in primo piano, assordante, il rombo degli aerei che preannunciano ancora guerra.

Se un piccolo appunto possiamo sollevare è sul versante delle luci: Cerciello ha puntato su luci molto suggestive, ricche di atmosfere, ma ogni tanto qualche lampo di luce brechtiana non avrebbe guastato, dando allo spettatore nuova carica all'attenzione.

Come dimenticare quella danza notturna dove sui volti delle interpreti è stampata una svastica luminosa, terrificante; e questo simbolo giustamente insistito lo si ritrova anche in altre scene. Come dire: meglio non dimenticare.

Degli attori possiamo dire che Remo Girone, protagonista di un disfatto Don Giovanni alla ricerca di un nobile riscatto a una esistenza dissoluta, predatoria, offre una interpretazione sofferta, con scatti irosi; ma avrebbe dovuto, secondo noi, in certe occasioni, darci anche lampi di erotico seduttore. Comunque, il suo piano recitativo si contrappone ottimamente agli altri modelli recitativi delle eccellenti interpreti femminili che, grazie al regista che ben si comprende ama le interpreti ed è aperto alla creatività da loro offerta, hanno saputo dare il meglio di loro stesse e in perfetta armonia con le soluzioni sceniche previste dalla regia. Tutte da citare, indistintamente, perche tutte insieme costituiscono un coro, un corpo unico. E sono: Daria Pascal Attolini, Monica Bauco, Francesca Caratozzolo, Isabella Carloni, Angela De Matteo, Desirée Giorgetti, Valentina Picello, Alessia Vicardi.

Di notevole incisività la vecchia bloccata su una sedia a rotelle interpretata da Milvia Marigliano, attrice di razza.

La scenografia del giovane Roberto Crea, anche lui premio Olimpico-Eti, è determinate per l'intero progetto, ricca d'invenzioni come quella della vestizione delle donne ragno: costumi, intrecciati tra loro da una rete a grandi maglie, scendono dall'alto e vestono le attrici. Essenziali, gli elementi scenografici diventano linguaggio integrante con la drammaturgia.

I costumi di Daniela Ciancio, fantasiosi, danno ai personaggi il giusto carattere, li definiscono e ne esaltano la cifra registica.

Le musiche di Paolo Coletta, alcune note alla memoria del teatro, altre create ad arte sono un altro valore aggiuntivo al progetto di Cerciello.

E il pubblico (di una bella pomeridiana domenicale) del Mercadante, all'inizio dello spettacolo rimane un po' smarrito, poiché il gioco teatrale arriva in scena subito con forte impatto; ma superato il primo smarrimento, viene avvolto dal vortice delle scene inchiodato alle poltrone per poi sfogarsi in un intenso e insistito applauso di consenso. E all'uscita si accendono le discussioni. Buon segno.

Mario Mattia Giorgetti

Ma per fortuna c' è Girone

Con argomentazioni del tutto convincenti Masolino D' Amico ha sollevato serie obiezioni al Re Lear di Marco Sciaccaluga, inaugurazione dello stabile di Genova, il più probo tra i nostri teatri stabili. Ma a proposito di inaugurazioni, come omettere la Filumena Marturano di Francesco Rosi, che ha aperto la stagione dello stabile di Roma? Più tardi ho riferito del pedissequo Il piacere dell' onestà di Fabio Grossi, spettacolo inaugurale dell' Eliseo, fino a oggi trincea del teatro rispettabile (non dico d' arte) del nostro teatro privato. Non ho invece visto Va' dove ti porta il cuore al Quirino, cioè in un altro teatro di pubblica gestione. Mi basta il titolo scelto. In un simile panorama, l' inaugurazione del Mercadante spicca per la proposta, Don Giovanni che ritorna dalla guerra, mai rappresentato in Italia. Dico che uno spettacolo tratto da un dramma del fiumano Ödön von Horvath è già motivo sufficiente per destare la curiosità. Ma poi, a conti fatti, e nonostante la firma del regista, Carlo Cerciello, premiatissimo l' anno scorso, che cosa si è visto se non uno spettacolino? All' uscita, rimuginavo su quanto nello spettatore rimarrà di ciò che aveva un po' forzosamente applaudito. Ben poco, io credo. Anzi, niente. Il dramma è del 1936, di poco prima, dunque, della fortuita e tragica scomparsa del trentasettenne autore, emigrato a Parigi in fuga da Hitler e dalle SA, che avevano perquisito la casa dei genitori. Questo Don Giovanni ha una sua efficacia, benché non sia più che un contributo alla poetica dominante degli anni di Weimar, gli anni della Nuova Oggettività. Don Giovanni vi appare nella sua ultima peregrinazione. Sconvolto dalla guerra, in cui è stato ferito e da cui ha riportato danni probabilmente irreparabili alla salute (si tocca in continuazione la regione cardiaca), è alla ricerca di una donna amata anni prima e, come tutte le altre, abbandonata. Perché la cerca? Perché proprio lei? Non viene detto ed è giusto così. Quella donna è un tipo, anzi un archetipo della femminilità. È addirittura l' ideale della femminilità. Giusto che Don Giovanni vi cerchi l' estrema conferma e un riparo. Le ha scritto più volte, lei non ha mai risposto. Egli suppone che si sia risposata, dunque non ha neppure fini di nuova conquista. Nel corso del cammino incontrerà, secondo uno schema classico e per brevi sequenze, ventitrè in tutto, una serie di personaggi, tutti residui bellici o, della guerra, uno squallido risultato. Su Don Giovanni, sulla sua possibile ricerca di una redenzione, si potrebbe avere qualche dubbio quando di sé dirà d' essere diventato uno speculatore: anche lui trae profitto (benché magro) dall' inflazione che sta preparando l' avvento di Hitler. Ma nella scena finale, quando scoprirà che l' amata (o la ricercata) non rispondeva perché era morta di crepacuore, si lascerà morire - congelato, sulla tomba di lei. L' immagine del pupazzo di neve, il Commendatore di Horvath, è molto bella ed è un peccato che Cerciello l' abbia sconciata caricandola di significato: ne fa un gigantesco fallo, là dove il pupazzo è proprio e solo il senso della morte che guida le azioni di Don Giovanni, anche del soldato che alla morte è scampato. Per fortuna c' è Remo Girone, che normalizza e rende plausibile (ovvero umano) il tutto. In quanto alla regia, Cerciello è acriticamente calato nella scansione di quadri con titoli luminescenti e figuratività espressionista ben nota nella rappresentazione di Horvath. Ciò che si dimenticherà è questo, ed è quasi tutto.

Franco Cordelli

Don Giovanni? Un reduce sedotto e abbandonato

Il protagonista di Don Giovanni ritorna dalla guerra (1936) di Ödön von Horváth è reduce dal primo conflitto mondiale, dove sembra aver perso tutto il suo dinamismo: ora non insegue più le donne, al massimo si lascia sedurre, e accetta con filosofia che lo si abbandoni, come immancabilmente avviene. Mentre vivacchia con un piccolo commercio di antiquariato cerca dappertutto la sola ragazza di cui nel ricordo gli sembra di essere stato innamorato davvero. Ma costei era defunta già da molti anni; quando finalmente lo apprende, il nostro si lascia morire a sua volta, assiderato in un bosco.

Lo stanco progresso di questo personaggio cinico e rassegnato è raccontato mediante i suoi incontri con ben trentacinque femmine, impersonabili a teatro da nove attrici che si trasformano rapidamente in soubrette, popolane, borghesucce, cameriere e via dicendo. Tra costoro spiccano la vedova presso la quale egli affitta una stanza e della quale diventa l'amante, e la figlioletta di costei, gelosa del pensionante a tal punto di denunciarlo per stupro. La regia di Carlo Cerciello organizza gli episodi in un brillante cabaret a tratti quasi brechtiano, movimentato da continue invenzioni scenografiche, da vivaci costumi anni Dieci e Venti e da musiche del tempo (i responsabili sono, nell'ordine, Roberto Crea, Daniela Ciancio e Paolo Coletta). Eccellenti le nove spiritosissime e versatili interpreti, e adeguatamente sornione nonché, malgrado la passività, fascinoso il pivot Remo Girone. Due ore, ottimo successo.

Masolino d'Amico

Don Giovanni deriso dalle sue donne

Ben si adatta a questo momento di perdita di ideali, e non soltanto, il ritorno alle scene italiane, mai con lui molto generose, e a quelle parigine, di Ödön von Horváth, beffardo scrittore del periodo di crisi tra le due guerre mondiali, perseguitato dal Terzo Reich prima di morire per caso nel 1938 a Parigi, travolto dalla caduta di un albero centenario. Nel suo Don Giovanni ritorna dalla guerra (o Il pupazzo di neve), scritto tre anni prima e ambientato nell'autunno 1918, vediamo il grande amatore dibattersi nel vuoto di una città in disarmo alla ricerca di un passato che non riesce a ritrovare, incapace com'è di riconoscere la realtà e teso a inseguire i ricordi nei nuovi incontri con l'universo femminile, aspirando a ripetere un passato che è morto come la sua ultima fidanzata, troppo amata e poi lasciata, che lui ora riempie di lettere alla sua casa, non sapendo che da tempo è scomparsa nel manicomio dove aveva dovuto essere ricoverata. E davanti a questa fine non gli resta che lasciarsi morire sulla tomba di lei, sotto la neve, atteso da un immaginario doppione fantasmatico del Commendatore.

In effetti si rappresenta l'esaurimento di un mito in questa figura di uno stanco amatore di apparenze ridotto a ripetere meccanicamente dei gesti vani destinati a venirgli presto a noia, anche perché finiranno col deriderlo le molte donne che incontra, e sono trentacinque quelle previste dal copione, che ammette l'uso di nove attrici che si suddividano le parti di attrici di cabaret, peripatetiche, dame di mondo, speculatrici alle prese con l'inflazione, vecchie e ragazze impegnate politicamente o a divertirsi sui pattini.

Ora l'acuta lettura di Carlo Cerciello per il Teatro Mercadante trasporta quel dopoguerra in uno spazio vuoto dove gli essenziali elementi scenici di Roberto Crea necessari all'abbozzo di questa dissoluzione sono disposti verticalmente e scendono agilmente dall'alto, mentre sullo sfondo si illuminano, secondo la tecnica brechtiana, i titoli dei quadri destinati a succedersi nello svariare degli ambienti, mentre a dare l'atmosfera di provvisorietà del testo provvede un andamento da musical curato da Paolo Coletta scavalcando le epoche, e passando dall'opera ai richiami filmici, alle canzonette per cui dagli accenni mozartiani non smette di tornare il vecchio Ciribirin, non solo sullo sfondo, perché neanche gli scambi di battute rinunciano al canto, prima del finale che vede il Don Giovanni pensoso e volutamente assorto dell'ottimo Remo Girone sparire dentro una parete di svastiche. Ma accanto a lui va applaudito l'intero complesso delle girls, affiatatissimo con Monica Bauco, Milvia Marigliano, Valentina Picello in prima fila.

Franco Quadri

Don Giovanni tra Fellini e «Ciribiribin»

Se fosse ancora il caso di porsi domande circa le strategie del teatro di oggi, dovremmo chiederci per quale misteriosa ragione lo Stabile di Napoli, produttore, e Carlo Cerciello, regista, abbiano scelto di portare in scena (lo spettacolo apre la stagione del Mercadante) «Don Giovanni ritorna dalla guerra» di Ödön von Horváth. D'accordo, il drammaturgo ungaro-austriaco è certamente, insieme con Brecht, il poeta più autentico che possa vantare il teatro di lingua tedesca tra la fine dell'espressionismo e il secondo conflitto mondiale. Ma quello che prima aveva costituito la sua preziosa cifra stilistica ed espressiva - il mélange sorvegliatissimo di tragedia e commedia, amarezza e umorismo, realismo e fiaba, canto e disincanto, lirismo e denuncia sociale - nel suo ultimo lavoro, appunto «Don Giovanni ritorna dalla guerra», datato 1935, diventa stanca maniera e ricalco debole di precedenti altrui. Per quanto riguarda la struttura del testo e la storia in esso narrata, Horváth si divide tra il «Girotondo» di Schnitzler (1896-'97) e il «Toboggan» di Menzel (1928): sicché abbiamo da un lato un concatenarsi di brevi scene e dall'altro un andamento narrativo quasi picaresco, che del citato dramma di Menzel addirittura riprende pari pari l'epilogo, col personaggio centrale che si lascia morire sotto la neve. E questo personaggio centrale, il nostro Don Giovanni, è poi, evidentissimamente, un fratello minore di Hans Karl e Ulrich, gli «antieroi» protagonisti, rispettivamente, de «L'uomo difficile» di Hofmannsthal (1921) e de «L'uomo senza qualità» di Musil (1930). Senonché - mentre, poniamo, l'Hans Karl di Hofmannsthal, convinto dell'«indecenza» delle parole, «tace» o «fuma» o «fuma e tace» - il Don Giovanni di Horváth, un reduce dalla guerra che con le parole ancora si consola, non fa che scrivere lettere alla fidanzata, ignorando ch'è morta, e - come dice la Prima Signora nel secondo dei tre atti - «cerca di mettere insieme il suo grande amore pezzo per pezzo». Insomma, l'uomo «assente» partorito dal tramonto della Mitteleuropa diventa, con questo Don Giovanni, un avvilito moschettiere tardo o post-romantico. Ma suppongo che, a motivare l'approccio a una simile materia, sia intervenuta la parola magica che presso i teatranti tutto giustifica e tutti assolve: la famosa «attualità». Qui, udite udite, si parla d'inflazione. Ma, beninteso, Cerciello - il quale dichiara di tener d'occhio un Brecht che, temo, con Horváth non c'entra molto - si preoccupa coscienziosamente di «straniare», chiudendo l'insieme in una cornice da varietà: dentro cui le musiche di Paolo Coletta cacciano prelievi dall'universo mondo sonoro del Novecento, fra Debussy e «Ciribiribin», e lui, il regista, accumula non meno svariate reminiscenze che vanno dal solito «catalogo» mozartiano e dal «Casanova» di Fellini al De Simone della «Gatta Cenerentola» e, nientemeno (vedi gli arboscelli legati sulla schiena delle due ragazze), al Nekrosius del «Macbeth». Il finale, in un tripudio di svastiche e saluti romani, vede il pupazzo di neve di Horváth trasformato in un enorme fallo portato a spasso da due fanciulle della Hitlerjugend mentre si sente, minaccioso, il rombo degli aerei da bombardamento. E sotto un cielo di cartelli per l'appunto brechtiani, si accapigliano la recitazione di stampo classico messa in campo dal Don Giovanni di Remo Girone e quella sopra le righe, o sincopata alla Ronconi, delle donne che lo circondano. Segnalerei, fra queste, la Madre di Isabella Carloni.

Enrico Fiore

Ultima modifica il Lunedì, 16 Settembre 2013 09:45

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