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GIORNATA QUALUNQUE DEL DANZATORE GREGORIO SAMSA (UNA) - regia Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses, Julia Varley

Lorenzo Gleijeses in “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”, regia e drammaturgia: Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses, Julia Varley. Foto Tommaso Le Pera Lorenzo Gleijeses in “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa”, regia e drammaturgia: Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses, Julia Varley. Foto Tommaso Le Pera

Con Lorenzo Gleijeses
Regia e drammaturgia: Eugenio Barba, Lorenzo Gleijeses, Julia Varley
Suono e Luci: Mirto Baliani
Voci off: Eugenio Barba, Geppy Gleijeses, Maria Alberta Navello, Julia Varley
Assistente alla regia: Manolo Muoio
Consulenza drammaturgica: Chiara Lagani
Spazio scenico: Roberto Crea
Foto di scena: Tommaso Le Pera
Teatro dell'Arte Triennale di Milano, dal 24 al 27 gennaio 2019

www.Sipario.it, 3 febbraio 2019

E' un dialogo con la luce e il senso della propria posizione nello spazio l'inizio dello spettacolo di Lorenzo Gleijeses, che svela gradualmente un alfabeto di movimenti preciso come una lama e martellante come un'ossessione. Un succedersi di frasi fisiche che tagliano lo spazio in ogni direzione, a indicare, dubitare, voltarsi, torcersi, fermarsi, riprendersi, calare al suolo, per spostamenti repentini giocati su un continuo alternarsi di ginocchia che toccano terra e s'aprono lateralmente in una specie di camminata dimezzata, da granchio; è una dialettica continua tra posizione eretta e schiacciamento della figura al pavimento, con l'apparire periodico di una postura-impulso che richiama l'inossarsi del corpo umano in un carapace. Questa struttura di movimenti – come una scala i cui gradini innestano nello spazio l'azione ininterrotta, la fatica di Sisifo di un andirivieni tra verticalità e orizzontalità a richiamare, sembra, un destino fatale che si sia compiuto o si compia ogni giorno – è la sequenza madre che ci accompagnerà per tutta la durata dello spettacolo, nel quale si svolge ciò che il titolo già inquadra: una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa.
Il riferimento letterario è, ovviamente, alla "Metamorfosi" di Kafka, ma non è immediato. All'inizio entriamo dentro alla routine quotidiana di un attore-danzatore che sta portando a termine le prove di uno spettacolo in vista del prossimo debutto. Routine che consiste nella ripetizione rigorosa di una partitura di poche azioni. Può un alfabeto di soli sei movimenti organizzarsi come fosse una lingua vera e propria e aspirare a dire tutto, o quasi? Questa è la sfida che sembra di scorgere davanti al defatigante lavoro di Gleijeses. Dopo una prima parte in cui assistiamo al ripetersi della sequenza in prova con tanto di voce del regista che lamenta scarsa applicazione ed esorta infine il danzatore a prendersi una serata di pausa, vediamo Gregorio, indossati giacchetta e zainetto, fare l'atto di uscire dalla sala prove e "incamminarsi" (anche se tutto questo è sempre messo in forma dalla minuziosa esecuzione della sequenza, tale che ogni intenzione naturalistica viene sistematicamente debellata), entrare nella propria stanza e prepararsi a un riposo popolato di presenze che dall'esterno cercano di strapparlo al suo monomaniaco ritiro, ma si direbbe anche da una situazione esistenziale in qualche modo "mostruosa". Ed ecco che "a casa", in un proliferare dettagliatissimo di micro azioni perfettamente inserite nel continuum coreografico, Gregorio comincia ad azionare nell'aria interruttori immaginari, a evocare con precisione un appartamento hi-tech che reagisce con puntuali innesti di luci e suoni, e rende lo spazio una sorta di scultura, di bozzolo immateriale, tecnologico, grazie all'altrettanto straordinario lavoro di Mirto Baliani. Un'infermità, un'impasse sembra cogliere il protagonista nel momento in cui la sua assoluta ossessione per la creazione nella quale si trova immerso si trasforma in una subìta o voluta clausura, fino ad arrivare, per successivi innesti di voci familiari (il padre, la fidanzata, la psicologa), allucinatorie si direbbe se non fosse che fuoriescono da un onnipresente smartphone azionato da Gregorio, al nucleo primario, ci sembra, dello spettacolo, al suo cuore segreto: un frammento del celebre testo di Kafka che a un certo punto G. dice, incastonandolo, con corrispondenza più stringente fra testo e azioni, nella partitura.
Ma di fatto questo cuore segreto è come "tirato via", con un procedimento ironico: si presenta infatti come il racconto di un incubo che Gregorio riversa angosciato nella segreteria telefonica della psicologa, interrotto dal messaggio che dichiara esaurito lo spazio di memoria a disposizione. Ulteriore tragicomico gap. E in questa atmosfera di débâcle quasi tragicamente clownesca un altro memorabile personaggio della letteratura del '900 sembra affacciarsi: quell'Hans Schnier protagonista di "Opinioni di un clown" di Heinrich Böll, spinto da una sorta d'infermità morale-fisica, a isolarsi dal mondo, a star chiuso nel proprio appartamento facendo e ricevendo telefonate, rimettendo a posto pezzi della propria vita.
Così la reiterazione ininterrotta del frammento coreografico, nel suo farsi oggetto polisemico che assume di volta in volta sfumature diverse a seconda del contesto in cui è calato, diventa una sorta di carapace esistenziale, la corazza nella quale Gregorio forse non può che rinchiudersi per sfuggire alla negazione di senso che sembra circondarlo.
E ci sembra, questa, un'efficace metafora dell'artista nella società contemporanea: la forza del suo lavoro forse non può che scaturire dalla limitazione, da una struttura costrittiva che lo racchiuda, lama che incide in profondità il tessuto morto della vita, ribellione al flusso dei disvalori e dei nonsensi, che non si perde nella cortina fumogena, e in fondo imbelle quanto quella dei consensi, dei semplici dissensi, piuttosto cerca e crea un proprio senso. Come l'atto di fede di qualcuno che abbia deciso di leggere la vita attraverso la lente di una rigorosa messa in forma artistica, tanto che la metamorfosi di Samsa appare non tanto una disgrazia, ma un antidoto alla fatuità del mondo, alla pressione di chi cerca di riportare tutto a una medietà quotidiana vista come un tedioso rappel à l'ordre.
Con un'estetica scenica del tutto diversa, questo, a prima vista, non sembra uno spettacolo dell'Odin; e non lo è infatti in senso stretto; purtuttavia, allo stesso tempo, è in fondo uno spettacolo dell'Odin, ne preserva lo spirito, e anche, in un certo senso, il modello attoriale, dal momento che esso afferma, per forza di disciplina, rigore e invenzione, un caratteristico discorso sul teatro e sull'attore.

Franco Acquaviva

Ultima modifica il Mercoledì, 06 Febbraio 2019 10:16

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