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GO DOWN, MOSES - regia Romeo Castellucci

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Go down, Moses" - regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci. Foto Guido Mencari "
Go down, Moses" - regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci. Foto Guido Mencari

di Romeo Castellucci
regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci
musica Scott Gibbons
con Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella
assistente alla scenografia Massimiliano Scuto
assistente alla creazione luci Fabiana Piccioli
direzione della costruzione scenica Massimiliano Peyrone
sculture di scena, automazioni, prosthesisGiovanna Amoroso, Istvan Zimmermann
realizzazione dei costumi Laura Dondoli
assistenza alla composizione sonora Asa Horvitz
tecnica di palco Claudio Bellagamba, Michele Loguercio, Filippo Mancini
tecnica del suono Matteo Bragliatecnica delle luci Danilo Quattrociocchi
produzione Benedetta Briglia, Cosetta Nicolini
foto Guido Mencari
Roma, Teatro Argentina, 18 gennaio 2015

www.Sipario.it, 23 gennaio 2015

Iperrealismo e iconoclastia

Nonostante uno dei principi delle lingue sia la loro onnipotenza semantica – potenzialmente tutto si può dire con le parole –, le immagini di Castellucci sono sempre difficili da descrivere, così come il senso dei suoi spettacoli. Forse anche perché i sensi che esprime sono molteplici, essendo il suo un linguaggio che, delle proprietà delle lingue storiche, condivide la vaghezza e l'indeterminatezza: un segno linguistico non veicola mai un senso chiaramente definito, è aperto a interpretazioni. Le immagini che crea Castellucci, per di più, sono dei segni complessi, montati per analogia e non seguendo una logica univoca. Si esce dal teatro con tanti spunti di riflessione, tanti interrogativi, eppure in Go down, Moses, forse per la prima, volta Romeo Castellucci dedica uno spazio anche alla narrazione nella sua manifestazione più schietta, a una trama, con tanto di dialoghi e personaggi.
In una sala vuota dai muri bianchi (solo un foglio è appeso, e raffigura il Leprotto di Dürer), si aggirano otto individui dall'aria assorta nella contemplazione del nulla. Mimano di aprire libri e leggere pagine, di ammirare quadri appesi alle pareti, di commentarli. Si fanno oggetto d'ammirazione abbandonando i movimenti compiti e naturalistici per assumere pose plastiche da tableau vivant. (Siamo così schiavi delle immagini, delle raffigurazioni, da vederle anche laddove non ci sono? Da sentirci in dovere, in ogni contesto, di porre attenzione all'immagine di noi che rimandiamo?) Cala il buio e, lentamente, appare l'interno della toilette di un luogo pubblico. Una giovane donna dai capelli scuri piange e perde sangue dalla vagina. Stacco. Un cassonetto stracolmo di spazzatura. Nuovo buio. La donna è nell'ufficio di un ispettore di polizia. Ha l'aria allucinata, vaneggia intorno a Mosè. Poi, entrando nel gantry di una TAC sbuca in un aldilà terreno, un aldilà nel tempo. È l'interno di una grotta in cui si muovono figure primitive e si svolge una scena di vita ordinaria, 75.000 anni fa la morte potremmo chiamarla, adattando il famoso titolo del Banco del Mutuo Soccorso: un neonato muore, la disperazione della madre, il sollecito nuovo amplesso col padre come rimedio alla perdita, ma non al dolore. La richiesta d'aiuto, un aiuto a capire, un s.o.s. scritto sul muro e destinato ai posteri – o a un dio. (La condizione umana, in fondo non è poi così cambiata. Da quando l'uomo è uomo, la domanda esistenziale, nonostante secoli di scienza e di filosofia, perdura senza risposta: possibile che non ci sia altro, dopo la vita? La raffigurazione, e con essa l'arte, nasce come inconsapevole richiesta d'aiuto? E oggi, invece, è diventata una vuota abitudine reiterata meccanicamente?).
In Go down, Moses la figura di Mosè aleggia, ma non compare. Si disincarna e si fa simbolo di quell'iconoclastia che predicò contro l'idolatria delle immagini degli egizi.
Il concetto di immagine, il velo che impedisce alla verità di manifestarsi e farsi intelligibile sono i gangli intellettuali intorno a cui ruota l'ultima ricerca di Castellucci. Gangli che ripropone secondo combinazioni diverse nei vari suoi lavori, riuscendo a non ripetersi mai, o quasi mai. La metafora del velo, ad esempio, che aveva attraversato l'ultima sua trilogia, in Go down, Moses si concreta nel tessuto bianco opaco frapposto, come una quarta parete, tra il pubblico e la scena, come un filtro che, attraversato dalle luci, disegna un mondo che pare irreale, lontano e onirico. A questo fa da contrappunto l'iperrealismo degli oggetti di scena, dai costumi, alla riproduzione del Leprotto di Dürer, alla toilette con water, lavandino e porta chiusa a chiave, al mastodontico cassonetto pieno di rifiuti, alla macchina per fare la TAC. Forse, in questo disegno per contrasti, ciò che meno funziona è la recitazione, né naturalistica né davvero espressionista, che trova difficoltà a collocarsi tra gli spazi saturi dell'iperrealismo delle scene e l'astrattismo e la vaghezza di musiche e impianto dello spettacolo. Ma sicuramente questa trasfigurazione del reale nella concretezza dei suoi oggetti, esaltati e resi poetici dalle luci, rimarrà nella memoria degli spettatori.

Bruna Monaco

Ultima modifica il Venerdì, 23 Gennaio 2015 11:26

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