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GABBIANO - regia Carmelo Rifici

"Gabbiano", regia Carmelo Rifici "Gabbiano", regia Carmelo Rifici

di Anton Cechov

adattamento e regia Carmelo Rifici

scene Margherita Palli, costumi Margherita Baldoni

musiche Zeno Gabaglio, luci Jean Luc Chammonat

con Fausto Russo Alesi, Maria Pilar Pérez Aspa, Giovanni Crippa, Ruggero Dondi, Mariangela Granelli, Igor Horvat, Emiliano Masala, Giorgia Senesi, Anahi Traversi
e
con la amorevole partecipazione di Antonio Ballerio Maspero

scenografie, oggetti di scena e costumi realizzati dai Laboratori del Piccolo Teatro

produzione LuganoInScena 
in coproduzione con LAC - Lugano Arte e cultura, Piccolo Teatro di Milano - Teatro d'Europa e Teatro Sociale di Bellinzona
con il sostegno di Pro Helvetia, Fondazione svizzera per la cultura 

Milano, Teatro Studio Melato dal 12 al 24 gennaio 2016

www.Sipario.it, 13 gennaio 2016

MILANO - Infelicità, durezza della vita, un pizzico di atavico fatalismo russo, cui si aggiunge una vena grottesca, anelando un altrove di rousseauiana memoria, sullo sfondo di una società che sta perdendo i vecchi valori e non ne ha ritrovati di nuovi. Gabbiano è critica sociale, teatro nel teatro, è il teatro delle esistenze in cerca di riscatto.
Ospite con la madre nella tenuta di campagna dello zio Sorin, Konstantin, giovane inquieto che coltiva ambizioni drammaturgiche, attende con febbrile impazienza la messa in scena della sua commedia, la cui protagonista è Nina, figlia di un ricco possidente vicino di casa, e della quale Konstantin è innamorato. Lo spettacolo si apre proprio sui momenti appena precedenti all'alzata del sipario, e coglie il regista e i protagonisti in preda a quell'ansia da palcoscenico che però li porta a confidarsi debolezze, miserie esistenziali, difficoltà quotidiane. E per quasi tutta la sua durata Gabbiano vedrà poca azione scenica, e molto dialogo, un confronto continuo, anche conflittuale, fra i personaggi. Perché in Gabbiano troviamo il Čechov della scomoda maturità e delle disillusioni, o meglio dell'amarezza ancora più acuta, che si aggiunge a quella da lui sempre provata, e che nel 1896 riflette sull'inquietudine di una società - non soltanto russa ma europea -, che il demone della modernità sta facendo sprofondare nell'angoscia. E Konstantin ne rappresenta la punta di diamante, ovvero quella gioventù irrequieta, che si sente mancare l'aria attorno, sogna i rivolgimenti che soltanto le grandi imprese, anche letterarie, portano con sé. Da notare come in quello stesso 1896, venga rappresentato anche l'Ubu Roi di Jarry, che, come scrisse il critico Henry Bauer, «rappresenta il vento della distruzione». Ma la Russia non è la Francia, e qualsiasi impeto letterario non sconvolge più di tanto gli animi. Čechov ne è amaramente consapevole, e da attento critico della società, ne coglie gli aneliti, le contraddizioni, e le meschinità, in quegli anni cruciali che portano al Novecento, secolo di angosce e sofferenze, oppressioni e ideologie. Nel breve soggiorno di Konstantin e la madre Irina nella tenuta di Sorin,esplodono contrasti sentimentali, incomprensioni generazionali, gelosie maschili, insofferenze femminili, sogni e delusioni di ognuno. Konstantin, cui presta il volto il bravo Emiliano Masala, è un giovane troppo debole per divenire un dandy della letteratura, schiacciato com'è dai propri dubbi e dal conflittuale rapporto con la madre, alla quale non perdona la relazione con lo scrittore Trigorin, intrecciata subito dopo la vedovanza. Attraverso una recitazione equilibrata, che mai sconfina nel melodramma, ma che invece si attiene alle eleganti tonalità dell'esistenzialismo, Masala dà vita a un commovente personaggio, che cerca nell'impegno letterario una fuga dalla solitudine, e nell'amore una via di salvezza alla disperazione. Sarà deluso su entrambi i fronti: scoprendo di non essere tagliato per il teatro, si dedica a scrivere racconti di maniera, che lo lasciano insoddisfatto di sé; sul versante sentimentale, Nina gli sfugge, sedotta da Trigorin, e avviata a un'ambigua carriera come attrice di provincia. La conflittualità con la madre, infine, è dovuta alla vanità di lei, alla sua tagliente ironia, al non saper riconoscere le capacità del figlio, il quale incarna, per citare Lanuzza, l'inespresso del dandismo, il refrattario à la Joseph Roth che sceglie il suicidio per un eccesso di delicatezza verso sé stesso.
Tormenti, questi, che non sfiorano il cinico Trigorin, amante di Irina ma non per questo insensibile alle grazie di Nina. Per lui, scrivere è un mestiere come un altro, e lo svolge con freddezza, attento a coltivare il suo "personaggio". Fausto Russo Alesi ci restituisce in tutta la sua attualità questo parvenu della cultura, vuoto nelle pose ma efficace nel sembrare acuto, quando in realtà è soltanto un mediocre borghesuccio. E la crisi della borghesia, la sua mancanza di valori, è la crisi del secolo successivo, e Čechov già la intravede. La vecchia aristocrazia terriera, rappresentata dal vecchio, eccentrico Sorin, è ormai incapace di rinnovarsi, di tenere il passo con i nuovi tempi, e vive di ricordi ormai quasi sbiaditi, di eccentricità, di piccole manie, in attesa della morte, Ruggero Dondi ce ne fornisce una convincente prova. Diametralmente opposta a lui, la sorella Irina, donna vanitosa e ricca di sex appeal, dal passato di grande attrice, impaziente di tornare in città, dove "non ci si annoia". Anahì Traversi è infine l'inquieta Nina, della quale rende appieno le velleità da Lolita di periferia, desiderosa di essere compresa e apprezzata nella sua femminilità, e il teatro, nelle sue aspettative, dovrebbe aiutarla in ciò.
Attorno ai personaggi principali, una piccola folla di individui mediocri, come l'amministratore della tenuta Samraev, la moglie Polina, e la figlia Maša, il medico Dorn. Un'umanità inchiodata alla tenuta, al suo lago, a una società patriarcale e a una quotidianità servile che schiaccia l'anima. Rifici dirige con garbo gli attori, costruendo una sorta di commedia sofisticata dal taglio esistenzialista, accompagnando i lunghi dialoghi fatti di gelosie, confessioni, intrecci sentimentali, invidie, vanità, dialoghi che hanno il solo scopo di ammazzare il tempo. Il vero soggetto di Gabbiano è la critica sociale, una critica di fatto indulgente, perché, per citare Tomasi di Lampedusa, non si può infierire con chi è destinato a morire. Čechov guarda con pietà ai talenti mancati, alle meschinità di chi gioca sull'apparenza, agli inutili eroismi che non riscattano una vita di fallimenti, a quelle passioni amorose istintive e malamente espresse. Il vecchio mondo sta crollando, ma a salvarlo potrebbero essere soltanto la letteratura, la poesia, il teatro, ovvero quelle forme d'arte che nascono per e sulla parola. Raccontare storie, significa dare all'umanità la possibilità di guardarsi dentro, e talvolta di salvarsi dall'abisso. Il quarto atto, così enigmatico, con i suoi "estemporanei teatrini", lo suggerisce.
Splendida armonia sul palcoscenico, le battute degli attori trovano reciproca rispondenza d'atmosfera e si concatenano come in una partitura musicale, creando un tessuto recitativo monocolore, metafora della noia che, sul lago, sembra affliggere tutti. E il lago, mai visto ma solo evocato, è comunque una presenza angosciante, quasi malefica, sulla scia di quello che Thoreau narrò in Walden. Inserendosi in questa corrente, Čechov la approfondisce e anticipa il Novecento. Con Gabbiano, Čechov invoca la necessità di un cambio di passo nella letteratura e nel teatro, attraverso la pièce di Konstantin. Sconclusionata, assurda, urlata, Rifici la riadatta quasi fosse un comizio ideologico sessantottino, e trasmette al pubblico un dolore di sapore pasoliniano, lasciando intendere la necessità di una catastrofe, prima che l'umanità possa ritrovare la sua pace. Unico neo, forse, qualche luce colorata di troppo, durante queste scene crepuscolari. Pur caratterizzato da una seconda parte forse troppo lenta in alcune sue scene, nel complesso lo spettacolo è accattivante e coinvolge il pubblico, anche grazie a una scenografia minimalista dall'orrida bellezza, incentrata sui toni "infernali" del rosso e del nero. Anche visivamente, oltre che attraverso l'impostazione del recitativo, Rifici trasporta in Čechov il minimalismo esistenziale di Sartre, attraverso una scenografia ridotta all'essenziale, limitandosi a suggerire un'atmosfera interiore, più che al rappresentare un luogo.
Gabbiano è teatro nel teatro, è il teatro della vita che utilizza la metafora del volo, come idea di un'impossibile fuga da sé stessi e le proprie mancanze. Il Novecento esplorerà appieno questo sentire, e ciò dà misura della grandezza di Čechov, quale acuto osservatore dell'umanità.

Niccolò Lucarelli

Ultima modifica il Mercoledì, 13 Gennaio 2016 21:19

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