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INFERNO - regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari

"Inferno", regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Foto Cesare Fabbri "Inferno", regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari. Foto Cesare Fabbri

ideazione, direzione artistica e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, 
Luigi Dadina, Roberto Magnani, Gianni Plazzi, 
Massimiliano Rassu, Laura Redaelli, Alessandro Renda 
e i cittadini della Chiamata Pubblica
musiche Luigi Ceccarelli con gli allievi della Scuola di Musica Elettronica 
e gli allievi della Scuola di Percussione del Conservatorio Statale di Musica Ottorino Respighi-Latina 
e con la partecipazione degli allievi dell'Istituto Superiore di Studi Musicali Giuseppe Verdi-Ravenna
spazio scenico Edoardo Sanchi con gli allievi del Biennio Specialistico di Scenografia per il teatro dell'Accademia di Belle Arti di Brera-Milano
costumi Paola Giorgi con Salvatore Averzano e gli allievi di Costume per lo spettacolo dell'Accademia di Belle Arti di Brera-Milano
regia del suono Marco Olivieri; disegno luci Francesco Catacchio
direzione tecnica Enrico Isola e Fagio
produzione Ravenna Festival in coproduzione con Ravenna Teatro/Teatro delle Albe
a Ravenna, 2 giugno 2017

www.Sipario.it, 9 giugno 2017

Di bianco vestiti Ermanna Montanari e Marco Martinelli si fanno largo fra la folla: un centinaio di persone che attende davanti al sepolcro di Dante. E' questo il posto convenuto per l'inizio del viaggio nell'Inferno dantesco. E' questa la prima tappa di un progetto che porterà il Teatro delle Albe a mettere in scena le tre cantiche: il Purgatorio nell'estate 2019 e il Paradiso nel 2021, in occasione del 700 anni della morte del poeta. Martinelli mostra il libro, lo appoggia sul leggio ed Ermanna Montanari inizia: «Vita, oscura, smarrita»... Poi le terzine dantesche acquistano 'materia' nel dire di Montanari, quando, improvvisamente, quei versi noti cominciano a passare di bocca in bocca, sono ripetuti da una parte dei presenti, i cittadini ravennati che hanno risposto alla chiamata del Teatro delle Albe per condividere il viaggio oltremondano. Hanno al collo un cartellino, c'è il giovane in sandali e la signora con il filo di perle, c'è quello che potrebbe essere un prof in pensione con occhiali rotondi di tartaruga e papillon e una ragazza col piercing al naso. Ognuno di loro risponde all'invito di Martinelli nel reiterare le terzine dantesche. Loro e noi siamo Dante, Martinelli e Montanari sono i nostri Virgilio. L'avvio di fronte alla tomba di Dante si trasforma in un lento corteo, o meglio sarebbe dire processione, guidata da Marco Martinelli con tanto di megafono. L'esperienza della selva oscura, l'incontro delle belve si compiono in un lento procedere che induce anche il semplice spettatore a ripetere le terzine, come se si trattasse di una preghiera, con la stessa cadenza mantrica del rosario mariano, fino a che in semicerchio davanti a Sant'Apollinare l'incontro è con Beatrice, una bimba bionda, che ci rincuora nel nostro andare, come è per Dante nel II canto. Accade qualcosa nella prima parte en plein air di questo Inferno, accade che il pubblico si faccia coro, che il territorio in cui ci si muove sia percepito come comune, che si avverta la sensazione di potersi riappropriare di un mondo, di una lingua, di un immaginario che ci appartengono, che sono del poema dantesco, ma dicono delle nostre radici, di ciò che siamo.
Ecco che la facciata della ex chiesa di Santa Chiara – il teatro Rasi sede delle Albe – mostra la scritta: Per me si va... E i due Virgilio prendono per mano gli spettatori ad uno ad uno e li invitano ad entrare. L'accoglienza è affidata a un gruppo di ragazzi di colore in tuta mimetica che costringe tutti in fondo ad una stanza buia, siamo le anime in balia di Caronte/ Minosse (Roberto Magnani). Quei soldati sono guidati dal comandante Renaud di Venezia salva di Simone Weill che dice di una strategia dell'orrore e della violenza, dell'annichilimento di noi anime derelitte. Da quel momento si compie un viaggio a tappe in cui Marco Martinelli fa da guida, glossando quanto accade con citazioni da testi di Jacopo Alighieri, piuttosto che da Boccaccio. Gli spazi del teatro Rasi sono stati rivoltati, trasformati: gli uffici diverranno le bolge, corridoi e sale divengono altrettanti luoghi infernali riletti con fantasia e creatività in un dedalo di tubi innocenti, di inattesi punti di osservazione. La platea diventa il luogo in cui si assiste al passaggio dei lussuriosi e Paolo e Francesca sono coppie di adolescenti di oggi che ci sussurrano all'orecchio la storia dei due amanti, mentre poco prima Ermanna Montanari ha recitato Francesca di Ezra Pound. Ancora Ermanna nella riscrittura ritmica del commento boccaccesco della Rabbuffa dà ritmo e forza allo scontro fra avari e scialacquatori in una lotta fisica che si compie ai piedi degli spettatori. Le urla delle Erinni dalla balconata della galleria sono quietate dall'ingresso di un angelo bambino... I sepolcri di Farinata degli Uberti e di Cavalcante sono la balconata del mausoleo di Lenin durante la cerimonia del Primo Maggio nell'ex Urss. Il Farinata di Luigi Dadina assomiglia a Bresnev, mentre commuove alle lacrime Cavalcante Cavalcanti di Gianni Plazzi. L'incontro con Brunetto Latini è l'immagine proiettata di Pier Paolo Pasolini, Pier Delle Vigne è laggiù in platea, osservato dall'alto della galleria da parte del pubblico, mentre altri sono a visitare le bolge, ricavate negli uffici del teatro. E il viaggio folle di Ulisse (Alessandro Renda) è reso dall'innalzarsi di una carrucola che porta l'attore a recitare sopra le teste dei pellegrini oltremondani, mentre il gelo del Cocito sono ombre dietro un telo ed è il racconto terribile di Ugolino, affidato alla forza espressiva di Ermanna Montanari... E nell'abside della chiesa medievale di Santa Chiara Lucifero, il male assoluto sono due manichini su un carillon in abiti bianchi che si accoltellano dietro la schiena... E quelle due figure bianche ricordano Ermanna e Marco e un brivido corre dietro la schiena per chi conosce l'unione dei due artisti nella vita come sul palco... E alla fine si esce a riveder le stelle e l'immagine è quella di una scala azzurra che finisce nelle fronde di un grande albero, puntando verso il cielo stellato.
Questo il racconto di uno spettacolo che è molto di più di uno spettacolo, è una dichiarazione di poetica, è un dono di bellezza, è un atto di fiducia non nel teatro, ma nella capacità del teatro di creare comunità, di fare coro. Ciò che il Teatro delle Albe ha fatto con l'Inferno è interrogarsi e interrogare la comunità all'interno della quale agisce, ha chiamato a raccolta i suoi attori della Non scuola, ha chiesto di condividere il viaggio ai cittadini, volontariamente e con impegno, ottenendone una risposta che ha stupito gli stessi Marinelli e Montanari. Hanno risposto alla chiamata in 700, ed ogni sera a gruppi di 200 fra attori e tecnici volontari danno vita al viaggio dantesco insieme agli attori della compagnia. I cori delle erinni, i diavoli delle Malebolge, gli avari e gli scialacquatori sono cittadini che nell'invito del Teatro delle Albe hanno travato un modo per ri-appropriarsi della Commedia, forse, un modo per vivere un'esperienza che, sera dopo sera, viene con-divisa col pubblico e contribuisce a ribadire e rinnovare il rapporto della città con il suo poeta. Ma come la scala azzurra dell'uscire a riveder le steslle così la vertigine del teatro può essere frequentabile ed abitabile se ben radicata nel luogo in cui il teatro come convocazione comunitaria agisce. E di questo il Teatro delle Albe Marco ha fatto una sua poetica, ci si sente in dovere di sottolineare. Martinelli e Montanari con l'Inferno sono andati alle origini del teatro, hanno deciso di frequentare, o ri-frequentare la 'sacra rappresentazione', hanno costruito la 'loro cattedrale' facendosi affiancare e affidandosi alla comunità: ognuno con un proprio ruolo compartecipe della grande fabbrica del teatro. Assistere all'Inferno delle Albe vuol dire partecipare, far parte di un coro. Ci si sente parte del tutto, si respira con gli attori, si è spiazzati dalla situazione, ma al tempo stesso si avverte di muoversi in un territorio noto. Si ha la sensazione che il racconto dantesco torni a germogliare, i ricordi scolastici affiorano alla memoria e forse si capisce – vivendolo – cosa voglia dire partecipare di un comune patrimonio culturale e linguistico. Nel recitare le terzine come nel farsi stupire da un Inferno che come quello dantesco ci presenta le brutture dell'oggi, che non sa di passato ma di un presente cocente si gode di un orizzonte comune, di una tradizione che non è passata, ma è destinata a riemergere, per trasformarsi nel qui ed ora del teatro, regalandoci anche il senso di uno stare nel mondo, proprio mentre ci si immagina un viaggio oltremondano.
Marco Martinelli ed Ermanna Montanari hanno ribaltato il loro teatro – inteso come spazio fisico –, hanno prodotto un terremoto nel quotidiano del loro fare teatro, innestando quel terremoto nella città, chiamando la città a partecipare allo sconquasso di uno spazio/tempo che si definisce sera dopo sera, che impone all'artista professionista come al cittadino volontario di agire con responsabilità in un gioco scenico, mosso dalla volontà di condividere bellezza, di passare di bocca in bocca la parola del poeta quasi come se ci si sbbeverasse a una fonte per dissetarsi e avere nuova forza. Non c'è alcuna concessione all'animazione, nessuna concessione al protagonismo, nell'Inferno delle Albe c'è un corpo unico, c'è una coralità che si esprime nel suo essere potente in scena, nel suo essere tutto e parte del tutto, nel comune obiettivo di edificare una cattedrale di bellezza e di parole che contagiano, che muovono e smuovono. Se per i Ravennati l'Inferno è confermare il legame forte con poeta e gli spazi della città, per gli spettatori è essere rapiti in un mondo altro e – paradossalmente – capire che da questo molto altro può ri-nascere il nostro essere oggi, qui ed ora in un presente assetato di bellezza.

Nicola Arrigoni

Ultima modifica il Sabato, 10 Giugno 2017 08:08

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