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MEDEA - regia Krzysztof Zanussi

Medea Medea Regia Krzysztof Zanussi

di Euripide
Traduzione di Maria Grazia Ciani
Regia di Krzysztof Zanussi
Impianto scenico di Massimiliano e Doriana Fuskas, Costumi di Beatrice Bordone, Musiche di Daniele D’Angelo
Con Giorgio Albertazzi, Elisabetta Pozzi, Antonietta Carbonetti, Maurizio Donadoni, Francesco Alderuccio, Francesco Biscione, Michele De Marchi, Giacinto Palmerini, Giorgia Campisi, Beatrice Trovatello, Vasily Lukianenk
Prod. XLV Ciclo di rappresentazioni classiche dell’INDA di Siracusa 2009

Il Messaggero, 16 maggio 2009
www.Sipario.it, 12 maggio 2009
“Medea”, straniera sapiente
contro le leggi della convenienza

Medea può ritenersi uno dei due capolavori assoluti di Euripide (l’altro è Baccanti). Rappresentata nel 431 a.C. faceva parte di una tetralogia comprendente anche le perdute Filottete e Ditti e il dramma satiresco I mietitori. Al concorso delle Grandi Dionisie si classificò solo al terzo posto, dietro i lavori di Sofocle, vincitore, e di Euforione, figlio di Eschilo. Probabilmente non fu colta. in quell’occasione, la portata immensa della vicenda. O forse la lucida follia d’amore che spinge la protagonista, compagna di Giasone e madre suoi figli, a uccidere i propri figli, giunse troppo terribile anche ai giudici e al pubblico del tempo.
Krzysztof Zanussi, chiamato a firmare la regia dell’allestimento di Medea per il Teatro Antico di Siracusa, di quella terribilità non ha avuto paura. Anzi. Dotato di due protagonisti di primo livello, Elisabetta Pozzi e Maurizio Donadoni (Giasone), lascia che il temperamento della coppia, capace di accendersi fino al rogo, bruci con tutta la sua potenza. E nell’abbraccio argenteo del tronco di cono dei Fuksas (che qui serve semplicemente a riflettere le lettere dell’alfabeto greco, in particolare una grande M rosso sangue) sigla inizio e fine della tragedia con l’apparizione di un mimo: pelle scura, inabilità all’andatura eretta, saltelli scimmieschi e spiccata sauvagerie, Vasily Lukianenko interpreterebbe così la barbarie della maga di Colchide, incapace di controllo e di ragione.
Per fortuna a dar corpo ed impeto allo spettacolo pensano, come detto, gli interpreti. La Pozzi, superba nel bellissimo costume a strati preparato per lei da Beatrice Bordone, sa far vibrare tutte le corde dello “strumento Medea”: la furia quando Giasone le comunica di voler sposare la figlia del re Creonte per obbedire alle leggi della convenienza; il delirio amoroso e geloso di fronte alla perdita di un uomo per il quale ha ucciso, oltraggiato la propria famiglia e accettato di vivere lontana dalla patria; l’annientamento prima della vendetta; il livore, la spietatezza, il sovrumano coraggio, dopo aver ucciso in modo atroce la nuova consorte di Giasone, di assassinare i figli. Le risponde un Donadoni di altrettanta risonanza. E fra i due si instaura, fra baci, strattoni, insulti e accennate percosse, una parossistica lotta d’amore che assume via via i toni, alti e forti, di un grande dramma borghese, psicologizzato, esasperato e incolmabile come Danza di morte Strindberg. Interpretazioni da manuale, che scatenano gli applausi degli spettatori.
Bravi anche Francesco Biscione (Creonte), Michele De Marchi (Egeo), Giacinto Palmarini (il Messaggero), Antonietta Carbonetti (la nutrice). Particolarmente ben registrato il coro delle donne di Corinto. Maria Grazia Ciani ha realizzato la disinvolta traduzione, ben costruita, coerente con la linea dello spettacolo: permette agli interpreti di spingere e brillare, coinvolgendo quasi fisicamente gli astanti nel densissimo “dietro le quinte” familiare. D’impatto, come d’obbligo, il finale. La straniera sapiente e innamorata, incapace di sottostare alle leggi della convenienza, viene assunta al cielo dal Sole, suo antenato. Nel cerchio dorato del carro del dio, regge fra le mani i piccoli corpi dei figli trucidati e li mostra a Giasone, negandogli persino di poterli seppellire. Ed è possibile immaginare, fra le mura della magione di Creonte, il corpo straziato della sposa usurpatrice, donna “civile” senza più vita accanto al re suo padre.

Rita Sala

Quell’Ominide all’inizio che attraversa come uno scimmione tutta la scena arrampicandosi poi su un rinsecchito albero d’ulivo, per poi scomparire e riapparire alla fine di questa Medea di Euripide messa in scena con grande senso etico da Krzysztof Zanussi e interpretata con istintiva irruenza da Elisabetta Pozzi, quell’Ominide (il mimo Vasily Lukyanenko), dicevo, accanto ad megastruttura d’acciaio, non in titanio come il Guggenheim Museum di Bilbao, somigliante ad una lama concava, una vela, un fumaiolo, un iceberg, un vulcano fumante e chissà quant’altro nella mente dei suoi ideatori, i coniugi Kuskas, Massimiliano e Doriana, forse pure, con quei segni impressi sulla superficie luccicante, ombre d’antiche vestigia o anche lettere sghembe d’una password per accedere nel cuore di pietra di questa tremenda donna, ci fanno capire che fatti come quelli narrati nell’opera euripidea siano rimasti immutati nella mente dell’uomo, nonostante oggi si possa far ricorso a divorzi più o meno consenzienti o per colpa e spegnere ogni rapporto senza spargimenti di sangue. A nessuno, né all’uomo del Pleistocene, né a Medea, né a qualunque uomo-donna di oggi, piacerebbe sentir dire che l’amore tuo ti lascia per un altro/a. Certo, si potrà dire che Medea uccidendo la futura sposa del marito, il padre di lei e poi ancora i suoi due figlioletti, abbia compiuto un efferato pluriomicidio e sia stata eccessiva, una pazza, una squilibrata. Avrebbe potuto, come suggerito da Giasone suo marito, sopra le righe quello vestito da Maurizio Donadoni, col prendersi un bel mucchio di quattrini, lasciare i figli nelle sue mani, scomparire e rifarsi un’altra vita. Certo, avrebbe potuto agire così, ma non sarebbe stata più Medea e il suo mito non sarebbe giunto ai giorni nostri. Tutt’al più si sarebbe potuto realizzare oggi una telenovela o un reality show per sole donne in cui la vincitrice sarebbe stata colei che si sarebbe allontanata il più possibile dal carattere terribile e vendicativo di quella terribile donna figlia del Sole, inghiottitita alla fine all’interno dei suoi raggi. Ma tant’è. Esiste questa tragedia da 25 secoli e si continuerà a farla, stiatene certi, fino alla fine del tempo. S’è voluto far iniziare questa gettonatissima tragedia con l’Ensemble Privitera, composto da sedici giovani studenti dell’Istituto musicale di Siracusa, che ha eseguito per soli fiati e ottoni l’Ouverture di Medea ad opera del musicista Daniele D’Angelo, senza che poi si potessero udire altre note di questa composizione. Solo dei suoni funesti che avvolgevano i protagonisti, tutti all’altezza, con qualche riserva per il Coro femminile, le cui voci amplificate non si capisce da dove provenissero e chi le pronunziasse ed erano troppo di piombo i sette soldatini di Corinto. Elisabetta Pozzi, di-nero-e-verde-ossido-di-rame-vestita, nel ruolo della belva assassina è sempre e comunque brava, solo si fa prendere la mano, meglio la voce, (il fervore per me è più forte della ragione), nel rafforzare alcuni suoi violenti interventi che dovrebbero essere più contenuti e sussurrati: e sui suoi ritmi la segue Donadoni, spesso roboante, forse per un’eccessiva amplificazione, metalizzando le parole che gli escono di bocca. Autorevole è la nutrice di Antonietta Carbonetti, così pure il Creonte di Francesco Biscione, l’Egeo di Michele De Marchi e il messaggero di Giacinto Palmerini. Pubblico delle grandi occasioni, occupante tutti i gradoni della grande cavea e applausi calorosi da stadio olimpico.

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Giovedì, 10 Ottobre 2013 10:36

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