di Molière
adattamento e regia: Gabriele Russo
scene: Roberto Crea, costumi: Livia Fulvio, musiche: Paolo Coletta
coreografie: Eugenio Dura
con Gabriele Russo, Angela De Matteo, Michele Danubio, Carmen Pommella, Pino L'Abbate, Antonio D'Avino, Marco Rescigno, Andrea Manferlotti, Benedetta Bottino
Napoli, Teatro Bellini, dal 6 maggio 2008
Spara a salve sul pubblico la pistola del Misantropo
Spara, Alceste: all'inizio dello spettacolo contro il suo fatuo e ipocrita entourage e alla fine contro il pubblico. Ma in entrambi i casi dalla canna della pistola esce soltanto una bandierina con su scritto «bang». Ed è così che Gabriele Russo - autore dell'adattamento, regista e protagonista - riassume, icasticamente, l'idea su cui fonda il proprio allestimento de «Il misantropo» presentato al Bellini dalla Politeama Mancini. In breve, Gabriele Russo legge il celeberrimo personaggio di Molière come un ribelle del nostro tempo. E i ribelli di oggi - lo sappiamo, purtroppo - possono contare, appunto, solo su armi caricate a salve: si accende, sì, il fuoco del loro sacrosanto sdegno, ma nessun proiettile ne viene sospinto che sia capace di scalfire il muro compatto dei «laudatores» in servizio permanente effettivo. Poiché la nostra società assorbe con indifferenza qualsiasi protesta, e a chi protesta rimane, dunque, appena il retaggio della solitudine, se non della frustrazione. Ora, il carattere di Alceste si determina secondo la teoria del «dinamismo» propria del teatro barocco: egli non odia gli uomini aprioristicamente, ma arriva a odiarli in quanto non più riconoscibili come tali. Dunque siamo di fronte a un personaggio che è attuale proprio perché inattuale. E Russo - ne sia cosciente o meno non ha importanza - lo tratteggia applicando la teoria citata in senso diacronico, vale a dire oscillando fra un presente melodrammatico/pulp (vedi le scene almodóvariane di Roberto Crea e quella Célimène che la costumista Livia Fulvio addobba come la Uma Thurman di Tarantino) e un passato di spessore addirittura shakespeariano (vedi l'attestarsi dello stesso Alceste sul versante di uno «spleen» propriamente amletico). Una bella intuizione, non c'è che dire: bella ed efficace. Così come sono efficaci i movimenti sopra le righe degli interpreti, in un'ambientazione sospesa tra la discoteca di tendenza e la galleria d'arte di élite. Accanto a Gabriele Russo, un Alceste ingolfato in un abituccio nero che sembra proprio preso in prestito dal principe di Elsinore, si distinguono, fra gli altri, Angela De Matteo (Célimène), Michele Danubio (Filinte), Carmen Pommella (Arsinoè) e Pino L'Abbate (Oronte). Certo, non mancano lungaggini, ingenuità e approssimazioni. Ma ciò che conta è che questi giovani riconducono il teatro a se stesso, senza attribuirgli d'autorità la virtù taumaturgica d'innescare presunte (molto presunte) palingenesi sociali. Così Molière accende una riflessione sul presente servendosi dell'acciarino che gli è proprio. Laddove, se si pretende di trasformarlo in un'arma impropria, Monsieur Poquelin finisce per ridursi anche lui a una pistola caricata a salve.
Enrico Fiore