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NATO POSTUMO - di e con Francesco Brandi

“Nato Postumo”, di e con Francesco Brandi “Nato Postumo”, di e con Francesco Brandi

uno spettacolo di e con Francesco Brandi
regista assistente Gabriele Gattini Bernabò
scene Alberto Accalai
luci Domenico Ferrari
costumi Simona Dondoni
sarta Caterina Airoldi
produzione Teatro Franco Parenti
Milano, Teatro Franco Parenti dal 30 ottobre al 18 novembre 2018

www.Sipario.it, 15 novembre 2018
www.Sipario.it, 11 novembre 2018

Tra disperazione e solitudine alla ricerca di un sogno

Francesco Brandi porta in scena "Nato postumo" da lui scritto, diretto e interpretato. Entriamo nella Sala Treno Blu del Teatro Franco Parenti. È un piccolo spazio che si concilia bene con la scenografia intimistica in cui siamo introdotti. Vediamo un letto, un cavalletto per la bicicletta e poco più in là un tavolo con accanto un giradischi. Inizia lo spettacolo ed entra, con una bicicletta su cui è posto un piccolo bauletto, quello che sarà Gino, un giovane postino. Il protagonista smonta il bauletto dalla bicicletta e lo ripone sul tavolo. Apre il bauletto e ne estrae il contenuto: un vecchio registratore bianco diventerà il contenitore dell'interiorità più profonda di Gino tra la confessione di una disperazione esistenziale incontenibile e il bisogno di evadere da una solitudine travolgente il cui unico sfogo sarà la droga. Sono due sentimenti che Gino, il cui nome presagisce già a una vita sfortunata, rinfaccia alla difficile situazione famigliare. Una madre suicida si aggiunge a un padre assente. Il risultato è un figlio che non accetta di essere nato, di essere diventato un postino alla rincorsa di un misero salario e, soprattutto, che non accetta di non avere, o meglio, di avere dimenticato un Sogno, il Sogno. Su questi tre elementi, la disperazione, la solitudine e la ricerca di un sogno, scorre la pièce lungo una drammaturgia piacevole, "umana", che a volte rischia di "accartocciarsi" su se stessa, in cui il personaggio principale e presente si accompagna ad altri personaggi secondari interpretati dalla fantasia delirante di Gino. Ci sono l'amico Alessandro del Piero, Martina una vecchia fiamma, il datore di lavoro di Gino e soprattutto, per la sua importanza, la madre di Gino la quale compare nella luce che illumina il protagonista. Il bravo Brandi esce ed entra in un personaggio dialogante anche con il pubblico presente. Nel finale, sarà proprio il dialogo fra Brandi/Gino e il pubblico, attraverso la consegna di una lettera, a rappresentare l'ultimo ed estremo tentativo di cercare un contatto umano.

Andrea Pietrantoni

La consapevolezza, lucida più che dolente, della propria perfetta inessenzialità nella scena del mondo. E il bisogno, infantile, istintivo di combattere la propria inconsistenza lasciando una – ancorché minima traccia di sé. É questo che spinge Gino, postino in un piccolo paese, a decidere di tenere un diario su un vecchio registratore, un diario in forma di sfogo, di messa in racconto di quell'angoscia esistenziale che tocca tutti e che è, spesso, la radice stessa delle scelte di vita di molti. Gli attori, in primo luogo, che nel bisogno di perpetrare il ricordo di sè si consegnano ad essere specchio e sintesi delle fragilità umane.
Francesco Brandi, in Nato postumo, in scena al Teatro Franco Parenti, lo fa con un'esattezza senza fronzoli, che tratteggia con parole scarne e dirette l'immagine di un uomo dai piccoli sogni, dai piccoli orizzonti in cerca di una piccola felicità che forse non è altro che la certificazione della sua esistenza. L'amore di Martina, bella e impossibile, che solo nella pietà per la morte della madre ha potuto avvicinare a sè. E allora la morte di un padre vinto quanto suo figlio può diventare il solo obiettivo, quando ci si convince che la pietà sia la sola misura nella quale farsi attribuire un'esistenza. E poi, persa quella, la certificazione autoattribuita del proprio cinismo, della propria chiusura a un mondo che non ascolta. La cui unica vera colpa è l'omissione di soccorso, o piuttosto l'omissione di ascolto. La privazione di voce che, di nuovo, è non esistenza; esiste un albero che cade se nessuno lo sente? Così non resta che votarsi al proprio autoannientamento, che sia nella droga o nel silenzio poco importa. Che passi attraverso la solitudine o il rifiuto di farsi rendere per un attimo umani, perché "questa è casa mia, non la sede di Emergency". Ed è proprio da dentro la sua casa, nell'accurata e suggestiva scenografia che riduce al minimo la percezione di spazio teatrale, che Gino cerca se stesso e accusa i fantasmi di una famiglia che non ha più, colpevoli di averlo costretto ad esistere, davanti a chi non ha niente e trova la forza di ridere. Sono queste assenze i bersagli perfetti nella loro impossibilità di risposta, nel loro sfuggire come punti luce che si spengono, davanti e contro i quali Gino ricostruisce una teoria di fallimenti minuti che proprio nel suo non avere niente di eclatante impone l'impossibilità di raccontare Gino come diverso da chiunque gli stia di fronte. Fa ridere, Gino, nella sua goffaggine semplice, nella sua quotidianità fatta di bar degli alpini, di discorsi origliati nell'unico posto dove per un attimo Martina lo ha reso felice, nelle tute della Juve del suo amico Delpiero, di cui nessuno più ricorda il nome, perché "in paese nessuno viene chiamato col proprio nome: portano tutti il nome della propria condanna. Solo io vengo chiamato col mio nome, ma il mio nome è una condanna". Si ride – amaramente – nel più immediato dei gesti apotropaici, per allontanare quel che ci somiglia. Al contrario dello spettatore però Gino, riavvolgendo a ritroso la propria esistenza, lo ha capito che bisogna arrivare a sfiorare la morte per avere voglia di vivere. Ma senza fare troppo rumore. Francesco Brandi consegna una storia potente nella sua immediatezza, esaltata da un'interpretazione che limita al minimo l'artificio teatrale per avvicinarsi alla vita per quella che è e che nella libertà che gli dà il monologo trova un giusto equilibrio tra efficacia del contenuto e della resa. Nella sintesi del palcoscenico suona bene la tirata contro la retorica dell'eroismo ("se aveste ammesso la bellezza della debolezza non ci avreste consegnato un posto di mitomani") ma nella vita suona ancora meglio la pacata lucidità del tutto antiretorica di un uomo qualsiasi, che sa che è inutile scappare via dal proprio mondo sperando in un eden ovunque meno che qui, o viverci dentro illudendosi di non esserne toccati. Semplicemente "per sopravvivere non c'è bisogno di rovinare la vita ad altri, basta cercare di realizzare un solo sogno". Una sconfitta? Solo se non si è compreso che l'eroismo è fatto molto poco di principi e molto di come ogni disperato per bene sceglie di affrontare i gesti di tutti i giorni, senza per questo che la propria storia abbia morali collettive da impartire. Tutt'al più una dichiarazione di comprensione e somiglianza tra persone e un piccolo gesto, come una lettera d'amore falsa ma calda, da portare a casa.

Chiara Palumbo

Ultima modifica il Sabato, 17 Novembre 2018 11:50

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