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NEL - regia Alessandro Bergonzoni

Nel Nel Regia Alessandro Bergonzoni

di e con Alessandro Bergonzoni
regia: Alessandro Bergonzoni e Riccardi Rodolfi
Bologna, Teatro Duse, dal 14 al 25 novembre 2007

Il Mattino, 19 gennaio 2008
La Stampa, 19 dicembre 2007
Il Manifesto, 2 dicembre 2007
Bergonzoni «dentro» le parole

Ci eravamo abituati, con Alessandro Bergonzoni, ai suoi titoli impossibili, lunghi e bislacchi, tipo «La saliera e l'ape Piera», «Non è morto né Flic né Floc». Tutti a rischio di infarto sintattico, non meno del travolgente eloquio che li sostanzia. Invece ora, all'Acacia, un titolo brevissimo ma non meno misterioso: «Nel». Che significa questa particella introduttiva che sembra lasciare tutto in sospeso? Bergonzoni cerca un fondamento teorico: «Nel», ovvero entrare dentro la natura delle cose, portarsi oltre l'involucro delle parole. Magari dentro una "bergon-zone",un proprio territorio di caccia al significato ultimo di sostantivi, aggettivi, verbi. Come sempre, si presenta biancovestito, quasi a voler essere una carta bianca, una parete neutra sulla quale griffare i suoi graffiti graffianti, da grafomane che di riffa o di raffa vuole destrutturare il costrutto e con fare distratto bistratta i tratti delle parole che accatasta: e ci scusino i lettori per le assonanze dissonanti, ma il suo lessico è contagioso. Eccolo sfogliare le pagine di una babelica enciclopedia e tra i punti scardinati di questa sua bussola si rincorrono ladri e cani da guardia, pesci in acquario, uccellini che anche quando non sono ancora morti hanno sempre un becchino. Un boia al bar chiede un cappuccio, il figlio che uccide il padre avrà poi il complesso di E-dopo, un dito sul pomo di Adamo serve a fare un nodo alla gola, una manicure avrà buon lavoro con le piovre. A ruota libera, con sapienza demenziale, Bergonzoni inventa assurde omofonie, è padrone degli ossimori, si avvita e si scioglie nelle sua trappole. Come un Sisifo infaticabile, un Tantalo bulimico di parole, si abbandona alle sue ossessioni. Ha incominciato a vent'anni, ora ne ha cinquanta. Se tanto ci dà tanto, che farà da grande? Nel «frattanto», ci assicura un gran divertimento.

Franco de Ciuceis

Tutti pazzi per Bergonzoni
il picaro del nonsenso

Fra le imprese impossibili ce n'è una più impossibile di ogni altra: raccontare uno spettacolo di Alessandro Bergonzoni. Specie quest'ultimo intitolato enigmaticamente Nel, diretto da Riccardo Rodolfi e con l'attore-autore che, in scatenata fase espansiva, provvede anche alle scene, dando sfogo a un'improvvisa vena pittorica che in febbraio lo porterà ad una «personale» a Napoli. Se negli spettacoli precedenti esisteva un barlume di filo conduttore, qualcosa che larvatamente somigliava a una trama, in questo è davvero impossibile trovare il capo e la coda del discorso. Al massimo possiamo collocarci «nel» discorso, abbandonarci al flusso verbale come alle spinte dei marosi in un oceano imbizzarrito. Si ha l'impressione che Bergonzoni abbia compiuto quel che è successo in pittura con la svolta dell'informale, che come si sa non è deformazione, ma semplicemente assenza o negazione della forma.

Ed eccolo dunque, biancovestito, con i capelli che cominciano a striarsi di grigio, ma con l'immutato piglio da picaro del nonsenso, ecco Bergonzoni muoversi a larghe falcate fra le figure geometriche sparse sul palcoscenico, lanciando al pubblico la sua «apologia di creato». Che è l'insorgere di un mondo obliquo e trasversale nel quale «si usa l'impossibile per fare il possibile», si entra nella «valle del sé» in virtù della «lingua levatoia che fa passare il pensiero», e si approda in un luogo in cui «si mandano giù i rospi per sputare i principi». Soltanto lì, coltivando «desideri preterintenzionali», è possibile «baciare a strascico» qualcuno.

Siamo nel regno dell'impossibile nutrito in tutte le sue fibre dal possibile. Ma non date retta alla sequenza che avete appena letto: è un nostro arbitrio. In realtà le frasi virgolettate sono disseminate da Bergonzoni qua e là senza un disegno apparente, arrivano all'improvviso e scoppiano con il crepitio secco dei petardi, come per esempio «lasciatevi incontrare in continuazione», «smarrire la strada (così la troverà qualcun altro)», «non sperare in faccia a nessuno», «guardare la tv ma non accenderla», «smetterla di sentirsi un Dio ma cominciare ad esserlo», «aprimi cielo», «usare solo bombe boomerang» (bellissima), «ogni giorno fare detestamento per non accontentarsi», «usare il cavallo di Gioia per entrare».

E' tutto uno sparare a raffica, quasi senza dare il tempo allo spettatore di sintonizzarsi con le parole e i concetti. Bergonzoni, al solito, gioca con il senso e con il controsenso, struttura e destruttura, si diverte con le frasi fatte per rovesciarle, sconvolge le architetture del linguaggio per farne detriti. Magari esagera nel fare «mente locale», ma crea un autentico turbinio di pensiero con il quale lo spettatore deve obbligatoriamente fare i conti prima che se ne perda la nozione (e pensare che c'era il pensiero, diceva una volta Gaber). Non crediate che questa specie di assurda enciclopedia dell'impossibile sconcerti chi l'ascolta. Abbiamo visto lo spettacolo a Genova, in un Politeama gremito e in autentico, adorante visibilio. Anche quando, come ultimo bis, Bergonzoni ha concesso un monologo registrato che valeva come sigla di accompagnamento per l'uscita del pubblico. Ci credereste? E' stato applaudito anche

Osvaldo Guerrieri

Un vero acrobata della parola
L'ultimo spettacolo di Alessandro Bergonzoni. A Bologna, solo sulla scena, fa precipitare tutti negli abissi del senso, alla ricerca spasmodica di risposte, possibili e impossibili, a interrogativi etici

Non si possono raccontare gli spettacoli di Alessandro Bergonzoni. E non solo perché non c'è una trama da raccontare, non c'è storia o racconto possibile perché sono essi stessi in sé il proprio racconto, inteso come messa in atto della parola. Meno che mai quest'ultimo enigmatico Nel che giunge a tre anni di distanza dal precedente Predisporsi al micidiale, realizzato come di consueto tutto in prima persona con il contributo registico di Riccardo Rodolfi. Qui poi non c'è nemmeno l'illusione di un'impalcatura narrativa, nemmeno da ironizzare. C'è al contrario, da subito, l'incerto aggirarsi del protagonista per una scena non a caso priva di una visibile scenografia - non lo sono quei pochi piedistalli di altezza disuguale, coperti da un telo bianco, che fungono da appigli per la memoria. Perché di questo si tratta, in quel suo guardarsi intorno alla ricerca di qualcosa che non c'è, in quell'insistito bisogno di far «mente locale» per ritrovare i punti di riferimento di una realtà caotica, evanescente. Qui c'era il letto, qui la finestra. Come se qualcosa fosse accaduto, nel tempo della lontananza. L'ispessirsi di una opacità che consuma anche la memoria.
Eccolo allora alle prese con un enciclopedico quadernetto, all'occorrenza tirato fuori dalla tasca dell'abito con le maniche rimboccate, bianco naturalmente. Per cercare risposte ai suoi interrogativi etico-caotici. Che fine fanno i cuscini dei decapitati. E una mosca entrata dal finestrino in una macchina a Trieste e uscita a Zara. E chi può volere la morte dello struzzo. Da cui si parte per gli spericolati giochi linguistici che si trasformano in irresistibili tormentoni, le acrobazie verbali che sono da sempre il marchio di fabbrica di Bergonzoni. Deformazioni, assonanze e slittamenti, doppi e tripli sensi, refusi vocali. Nulla a che vedere comunque con il non-senso o il nonsense, categorie per altro spesso equivocate. Nulla sarebbe più fuorviante che costringere l'attore bolognese nel recinto della parola fine a se stessa. È il suo piuttosto un precipitare negli abissi del senso. Nelle voragini che si aprono davanti a un incesto di frutta o al prodotto eterno lordo. Per arrivare a scardinare, mettendo a nudo le falle del linguaggio, la concretissima realtà presente di mascalzoni che cianciano di «buone pratiche» o religiosissimi assassini di mafia in dialogo costante con il buon dio.
C'è di più, in Nel, un dichiarato richiamo all'improvvisazione come metodo, con tanto di percentuale messa in conto ogni sera. Ma l'improvvisazione non si improvvisa, vien da dire. E non è un facile gioco di parole. Lo sa bene il grande jazzista, che l'improvvisazione richiede una solida struttura formale. Che qui è ancora in costruzione, con tutta evidenza. Non è tanto lo slittare a volta verso la battuta, verso una comicità che rappresenta soltanto una rete di sicurezza. Lo si vede bene in quell'ansia o necessità dell'attore di andare immediatamente oltre, di superarsi continuamente. Sicché la parola detta, che proprio in quel momento comincia a nascere direbbe Emily Dickinson, è già sepolta da un'altra. A volte stenta a nascere. E va bene allora il debutto di fronte al pubblico del teatro Duse che gli consente di giocare in casa, con qualche coloritura locale. Contraccambiato alla fine da una serie di bis strepitosi, prima di un epilogo fuori campo, a sipario ormai chiuso.
Un po' abbiamo finito per raccontarlo, questo divertentissimo e sconcertante Nel. Ma il consiglio, per una volta, è di andare a vedere questo prodigioso acrobata della parola che ci invita a ritrovare un lessico individuale. E a essere pronti all'incredibile.

Gianni Manzella

Ultima modifica il Domenica, 06 Ottobre 2013 12:26

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