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PLATONOV. UN MODO COME UN ALTRO PER DIRE CHE LA FELICITÀ È ALTROVE - regia Marco Lorenzi

“Platonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove”, regia Marco Lorenzi. Foto Manuela Giusto “Platonov. Un modo come un altro per dire che la felicità è altrove”, regia Marco Lorenzi. Foto Manuela Giusto

da Anton Cechov

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto

regia di Marco Lorenzi

con Michele SInisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D'Agostino, Barbara Mazzi,
Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca

Riscrittura Marco Lorenzi e Lorenzo De Iacovo
Regista assistente Anne Hirth

Style & Visual Concept Eleonora Diana

Disegno Luci Giorgio Tedesco
Costumi Monica Di Pasqua
Co-Produzione Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi - Torino Creazione Contemporanea/TPE Teatro Piemonte Europa
con il sostegno di La Corte Ospitale - Progetto Residenziale 2018
in collaborazione con VIARTISTI per la Residenza al Parco Culturale Le Serre
Milano, Teatro Fontana dal 6 al 18 novembre 2018

www.Sipario.it, 8 novembre 2018

Irrapresentabile. Così è stato definito Platonov, un Cechov scoperto per caso tra le sue carte e spesso escluso dai volumi. Un'impossibilità dovuta forse all'incompiutezza del testo, che non ha mai trovato una forma definitiva e coerente, forse per la sua mole mastodontica. Una condizione che non può che ingolosire interpreti e compagnie, spingendosi a cimentarsi in quella che è indubbiamente una sfida, che la compagnia Il mulino di Amleto sceglie di raccogliere all'insegna dell'abbondanza, che scivola nel sincretismo. La festa nella tenuta di Anna Petrovna (Roberta Callia) si muove infatti intorno a un grande tavolo ingombro di bicchieri in cui gli ospiti si danno del voi, ma lo fanno in abiti contemporanei e trasportando tutto il testo a un presente richiamato da pc e dvd, e interagendo con un dj dal vivo, in scena, accreditato come Jakov ma che i compagni di scena chiamano col suo nome, Giorgio, servendosene di fatto – come da programma di sala – come un maggiordomo, nel corso delle loro distrazioni trasformato però in tecnico di palco. Un'abbondanza che a tratti dà l'impressione di essere un puro vezzo stilistico, quando il regista Marco Lorenzi sente l'esigenza di portare in scena una proiezione dal vivo che aggiunge alla scena spezzoni di corpi: una lezione che viene, tra gli altri, da realtà come Motus, e che nella fame di dimostrare ricerca e contemporaneità probabilmente non aggiunge a un testo già densissimo. La forza potenziale pronta a sprigionarsi è infatti già tutta nel testo. Nella festa in una tenuta messa all'asta, in un'atmosfera di gioia posticcia consapevole del proprio crollo imminente, e che pure deve continuare a suonare, perché "tra la tenuta e l'onore io ho scelto. E ho scelto la tenuta", dice Anna. Una cornice sfavillante e fragilissima dentro cui si muove un giovane sognatore già fallito eppure costantemente cullato nella propria illusione, Sergej Pavlovic, figliastro di Anna che pensa soltanto a inscenare un proprio Amleto. E scena, finzione e verosimiglianza si confondono sempre, nello stare insieme di una compagnia di quelli che si dicono amici e in realtà non fanno che odiarsi, preda di un reciproco disprezzo che esplode in scoppi incongrui di grida e gesti violenti, rabbia e lascivia. Sono tutte, a proprio modo, figure cupe. Non solo quelle del criminale Osip di Jury D'Agostino, apparso a suo dire per omaggiare Anna e destinato a trasformarsi in strumento di tutti gli odi, del ricco Porfirij (Stefano Braschi), che vorrebbe Anna ed è il solo a poter riscattare la tenuta, quella del figlio Kirill (Angelo Maria Tronca), che apertamente disprezza il padre salvo poi finire con l'imitarlo. Ma soprattutto, quella del protagonista, Michail Platonov, a cui presta i panni Michele Sinisi, che sulle prime si erge a giudice morale dell'intera compagnia, finendo con lo svelarsi inetto, bugiardo e dimentico di ogni moralità e dignità, quando si barcamena fra tre donne. Anna, la legittima moglie Sasha (Rebecca Rosetti) e Sofia (Barbara Mazzi), moglie di Sergej ed antico amore. Le possibilità di sviluppo della trama sarebbero state enormi: Lorenzi sceglie di concentrarsi sulla coincidenza tra attore e ruolo, anche con una recitazione che passa dall'astrazione all'eccesso di enfasi, mettendo da parte il fuoco sui personaggi, sulle loro feconde complessità, il loro reciproco disperato respingersi o aggrapparsi l'uno all'altro sapendo che sarà uno sforzo inutile o autosabotato, le loro piccole o grandi, solitudini e meschinità malcelate o vistose al limite del grottesco.
Un esercizio di stile, che si avvale anche di alcune scelte felici: la vetrata mobile che disegna le scene ad esempio offre sprazzi scenicamente efficaci. L'uso ampio dello spazio, che esorbita il palcoscenico, nel quale la regia rende evidente la propria urgenza di chiamare in causa il pubblico direttamente, conduce però ad uno sfondamento della quarta parete che risolve le specificità di questo testo in una spiegazione che ne fa quasi una favola a morale, e nonostante questo sarebbe di per sé illuminante e a suo modo geniale se non si rivelasse poco coerente con la struttura della pièce. Un'apostrofe che tocca un altro dei punti nodali checoviani, in questo testo già tutti in nuce o chiaramente indagati. "Se c'è una pistola in scena, sparerà" ebbe a dire l'autore russo. Ebbene, Il mulino di Amleto opera un taglio sul testo (spiegando, anziché rappresentare, l'ultimo atto) e una decisiva modifica: la pistola, apparsa quasi casualmente in scena e passata in sordina, diversamente dal testo – e da tutti gli altri testi cechoviani - non spara. Perchè mettendo quella pistola in scena, spiegano, Checov sta invitando a non usarla. A non percorrere la strada più facile. Sta domandando ai suoi personaggi "perchè non viviamo la vita come potremmo. Finchè non c'è una risposta, abbiamo bisogno e voglia di continuare a vivere".

Chiara Palumbo

Ultima modifica il Giovedì, 08 Novembre 2018 17:26

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