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PORCILE - regia Massimo Castri

Porcile Porcile Regia Massimo Castri

di Pier Paolo Pasolini
regia: Massimo Castri
scene e costumi: Maurizio Balò
luci: Gigi Saccomandi
musiche: Arturo Annecchino
con Antonio Giuseppe Peligra, Corinne Castelli, Paolo Calabresi, Ilaria Genatiempo, Davide Palla, Mauro Malinverno, Milutin Dapcevic, Miro Landoni, Vincenzo Giordano
Roma, Teatro Argentina, dal 25 novembre al 21 dicembre 2008 (prima nazionale)

Corriere della Sera, 21 dicembre 2008
Il Manifesto, 30 novembre 2008
Il Messaggero, 29 novembre 2008
Castri e la visione di Pasolini

Porcile Bello spettacolo, ma ormai suona datato quel sarcasmo così puritano

Recensendo Porcile di Stanislas Nordey nel 1999, un' edizione di straordinaria asciuttezza della tragedia di Pasolini, scrivevo che la questione del testo era il «problema tedesco». In Porcile si rappresenta il conflitto tra padre e figlio nel contesto del miracolo economico: un industriale fabbricante di cannoni si allea con un industriale ex nazista che produce beni di consumo e che, non bastasse (poiché Pasolini voleva mettere sempre tutto, tutto insieme), colleziona crani di bolscevichi russi ebrei. Con la consueta acutezza critica Massimo Castri osserva come Pasolini tendesse a spostare i problemi, anzi a mitizzarli. Non voleva affrontare il suo vero e personale problema. Così lo ingigantiva, non era lui l' unico colpevole, macchiati d' una qualche colpa lo erano tutti. Da questa ambiguità, o meglio oscurità, discendono le altre; di qui discende la clamorosa, irrimediabile bruttezza della tragedia. Di solito questa parola, bruttezza, non si usa. Si è più delicati. Si allestiscono eufemismi. Pasolini, essendo Pasolini, una specie di santo laico, è in special modo mondato di tutte le colpe, vere o presunte (era lui a ritenere se stesso colpevole della propria diversità). Ma colpevole, o comunque in errore, è anche il recensore del 1999. A causa dell' allestimento di Nordey, aveva preso sul serio l' idea di una critica del miracolo economico tedesco, che i porci siano i capitalisti. Ma ora che questo bubbone non c' è più, e che il bersaglio di Castri è, come sempre, la critica del testo, si vedono bene due cose. Primo, il vero tema è appunto la vergogna del figlio, e il suo tragico destino. Egli ama i maiali, cioè non le donne ma gli uomini, un tipo di amore che ritiene lurido, maialesco. Secondo, questa vicenda è rappresentata con un linguaggio che più volte sfiora il ridicolo. Come non me ne accorsi nel 1999? Mi piaceva quell' idea che il figlio sia «né ubbidiente né disubbidiente»; e mi piaceva che Pasolini, mettendo l' osservazione in bocca al padre, rendendola cioè sarcastica, criticasse l' idea che durezza e tenerezza, cannoni e beni di consumo, convivessero. Ma perché la tenerezza (del figlio) non potrebbe convivere con la durezza (del padre)? Oggi, il puritanesimo di quel sarcasmo mi sembra particolarmente fastidioso. Ma ancor più repulsivi sono il didascalismo e il lirismo di Pasolini. Dice il protagonista Julian: «Non vengo a Berlino / a fare il buffone con dei cartelli / che oppongono terrorismo di giovani borghesi / a terrorismo di vecchi borghesi». Ida, da lui respinta, confessa a Julian di amare un bel ragazzo: «il suo riformismo è pulito / come i suoi occhi». Si può scrivere una frase così ridicola? Ma al colmo di tutto c' è lo spettacolo. Perché Castri lo ha fatto? Mettere a nudo la fasullaggine di Porcile era per lui un affare di vitale importanza? Pasolini - non ne abbiamo abbastanza per accantonarlo, per lasciarlo riposare? Il suo teatro non è diverso da quello di Ugo Betti o Diego Fabbri, e qualunque esercizio critico sembra superfluo. Anzi, più lo spettacolo è bello, peggio vanno le cose. Sì, lo spettacolo di Castri è ben confezionato; quel bel prato verde-luccicante con quei fiori grandi e colorati è suggestivo, e gli attori sono bravi. Ma con ciò? Non è un' aggravante? Poi, esso non è solo lodevole. È anche atrocemente statico. Ed è atrocemente ambiguo. Il sarcasmo corre lungo le quasi due ore. Ma quel finale triste e quasi patetico, cui il regista non ha saputo rinunciare, non rappresenta, in una lettura che si vuole critica, una complicità con il drammaturgo? Teatro Argentina di Roma

Franco Cordelli

Se l'eversione rotola sul prato

All'Argentina, Massimo Castri torna al teatro di parola con la sua interpretazione del «Porcile» pasoliniano. Una favola amara che si chiude in tragedia, dove i ribelli finiscono per essere due bambini voraci ma privi di un futuro possibile. Il regista trasforma il testo in un «racconto filosofico»: a ritroso, i protagonisti riescono a scoprire una sorta di infanzia collettiva, compresa una naïveté dal sapore ambientalista

Dopo essersi avvicinato qualche anno fa a Orgia con uno spettacolo bellissimo, Massimo Castri torna al teatro di parola di Pasolini con Porcile. E con la sua evidente carica di «progetto culturale», costituisce di fatto la vera inaugurazione della stagione del Teatro di Roma all'Argentina, dopo una serie di titoli d'occasione o di ripresa, benché prodotti dallo stesso teatro, che hanno fatto finora mancare una risonanza adeguata al ruolo dell'ente (ora colpito anche dalla scomparsa di Sandro Curzi, consigliere d'amministrazione da parecchio tempo).
Il Porcile di Castri è apparentemente affine a quella sua versione di Orgia, quasi fosse ambientato nel giardino contiguo a quello cimiteriale ma rigoglioso che per quella aveva inventato Maurizio Balò, ovviamente autore memorabile anche di questo irto declivio, che sale da un lato all'altro del palcoscenico. Se lì tra le tombe c'era un lettone matrimoniale a sancire il destino mortifero della coppia, qui campeggiano da un lato grandi fiori di prato, quasi a citare la famosa raccolta friulana di Pasolini, comprendente testi originari risalenti all'immediato dopoguerra, di «un paese di temporali e di primule».
È su quel prato, ancora alla vigilia del'68 (è nel biennio precedente che Pasolini scrive tutto il suo teatro durante una «fatidica» degenza per malattia), che il giovane Julian vive la sua scelta estrema di presa di distanza dalla famiglia borghese. Anzi altoborghese, dato che il padre è un ricco imprenditore della storia e dell'acciaio, socio e quindi oggettivamente complice di nazisti residuali e totalitaristi militanti. La famiglia è stata «ripulita» dal boom, e Castri le dà sulla scena il glamour quasi aristocratico di Paolo Calabresi e Ilaria Genatiempo, i genitori di Julian. Così come la mancanza di pudore collaborazionista è resa con forza penetrante da Mauro Malinverno come da Milutin Dapcevic. Mentre le musiche di Arturo Annecchino scandiscono quel panorama quanto le luci solari di Gigi Saccomandi.
Ma è attraverso i due protagonisti giovani, Julian e la sua petulante e minorenne «pretendente» Ida (Antonio Giuseppe Peligra e Corinne Castelli) che la regia offre la vera chiave di volta della sua lettura. Sono due «bambini» senza domani a dispetto delle pretese, voraci e volitivi sebbene con progetti ben divaricati. Lei che punta a una forma di matriarcale e dispotico pensiero dominante (grazie alla possibile «sistemazione» con lui), mentre Julian, senza mai confessarlo esplicitamente persegue il sogno, e la pratica, e l'eversione quindi, di un eros realizzato e appagato nel Porcile del titolo con i suoi occupanti abituali.
Favola amara che da commedia, più o meno sofisticata, butta velocemente in tragedia e in orrore (i maiali si mangiano il loro amante dopo il fattaccio, racconta la rivelatrice cronaca finale, simile al modello di tanti classici dell'antica Grecia). Tragedia che suona minacciosa e terrifica nel momento in cui viene scritta, alla vigilia di mutamenti tutti di là da venire. Castri ne fa un racconto attraente e inquietante, quasi mettendo in secondo piano che sia un vero conte philosophique, tanto che appare in scena un altrimenti incongruo Spinoza in parrucca fiamminga (Miro Landoni) a orientare e disorientare il protagonista. L'inarrestabile esuberanza dei due «ragazzi», affonda certo la vicenda, o la morale dell'apologo, dentro una primigenia infanzia collettiva, che tutti può riguardare. Ma dandole quasi una naïveté che oggi chiameremmo ambientalista, anche se a rischio di inconsapevolezza (solo a ricordare per contrasto la martellante pensosità di Anne Wiasemski sul povero Jean Pierre Leaud nel film).
La pellicola radicale che Pasolini trasse dalla sua commedia, pur così diversa dallo spettacolo dell'Argentina, ne resta allo stesso tempo il riferimento più diretto e smagliante (a differenza anche di alcune messinscene di rango come quelle di Federico Tiezzi o di Antonio Latella). E tanto più quel senso può apparirci lontano, tanto più rispecchia in profondità una condizione di estraneità di molti individui, alla democrazia fittizia, tessuta di bla bla e di imbrogli, di questa società.

Gianfranco Capitta

Il "Porcile" di Castri
è un grande prato verde

C'è, in palcoscenico, un prato verdissimo con l'erba alta, sghembo, coronato su un lato da grandi fiori a quattro petali. Colori vivacissimi, come rubati alla tavolozza di un pittore naïf o alle illustrazioni di un libro per bambini. Sul tappeto smeraldino corrono due ragazzi, Julian (Antonio Giuseppe Peligra) e Ida (Corinne Castelli). Richiami, risate, suoni ingenui e inconsulti. Un palloncino rosso, a tratti, fugge dalle mani dei "fanciulli" e si libra nel cielo di scena.
Porcile di Pier Paolo Pasolini (1966), nell'allestimento di Massimo Castri, all'Argentina fino al 21 dicembre, comincia e continua così. Fornisce, da subito, la chiave di lettura scelta per riproporre un testo diventato a suo tempo anche film, ad opera dello stesso Pasolini, e lanciato, alla fine dei Sessanta, contro una società incancrenita dai valori borghesi, bersaglio ideale di ogni poeta "contro".
Castri, in un solo atto, di 110 minuti circa, in Julian e in Pier Paolo si identifica volutamente. Sposa la loro spinta centrifuga rispetto agli schemi obbligatori nei quali gli Altri (infernali alla sartriana maniera) vorrebbero inserirlo/li. Amore e carriera, arte e vita, rapporti parentali, eros e civiltà, tutto finisce nella macchina trituratrice chiamata famiglia. Che si allarga all'amicizia, alla politica, al lavoro, agli affari, eccetera. Julian, come Pasolini e Castri, si ritrae con ostinazione. Arriva ad amare un epilogo cruento nel Porcile, divorato, metaforicamente e non, dai maiali del mondo.Olocausto quasi religioso. Non intende crescere, non intende "accettare". Giusta la via psicanalitica che ha condotto il regista a un'esibizione onirica, costruita su continue scene del cervello.
In platea, assieme all'apologo pasoliniano, per nulla anacronistico, arrivano così sprazzi di un Eden immateriale, variopinto e felice, al quale tutti i non omologabili tendono. Cast efficace in tutti i suoi componenti, da Paolo Calabresi a Ilaria Genatiempo, Davide Palla, Mauro Malinverno, Milutin Dapcevic, Miro Landoni, Vincenzo Giordano. Scene e costumi di Maurizio Balò.

Rita Sala

Ultima modifica il Martedì, 24 Settembre 2013 07:57

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