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RITORNO AL DESERTO (IL) - regia Andrea Adriatico

Il ritorno al deserto Il ritorno al deserto Regia Andrea Adriatico

di Bernard-Marie Koltès 
uno spettacolo di Andrea Adriatico
con Francesca Mazza, Maurizio Cardillo, Ali Baidoun, Nunzio Calogero, Gianluca Enria, Andrea Fugaro, Jadeli Gangbo Mabiala, Maria Grazia Ghetti, Sara Kaufman, Angela Malfitano, Marco Matarazzo, Fabrizio Molducci, Stefano Toffanin
traduzione: Luca Scarlini
costumi: Andrea Cinelli
scene: Maurizio Bovi
luci: Matteo Nanni
Bologna, Teatri di Vita, dal 22 al 28 marzo 2007, repliche dal 2 all’8 giugno 2007

Il Manifesto, 1 aprile 2007
La Repubblica, 10 aprile 2007
A teatro

In quel giardino di casa cadono soldati-fantasmi

Koltès in una saga familiare ai tempi della guerra d'Algeria; gli adolescenti «riscattano» in scena un quartiere a rischio di Napoli; la danza di una pioniera; la vista femminile metafora di acume intellettuale «Ritorno al deserto» di Bernard-Marie Koltès, nella rassegna dei Teatri di Vita tutta dedicata allo scrittore francese

Bologna
Saranno fra non molto vent'anni che Bernard-Marie Koltès è morto, assai giovane, ucciso dall'aids, e il suo teatro ci appare ormai come un classico, a cui le messinscene originarie di Patrice Chéreau e con attori grandiosi hanno anche fornito una interpretazione canonica. L'anello di congiunzione fra Genet e Pasolini, verrebbe da dire, per la capacità di coniugare l'evocazione visionaria del potere e la necessità di fare i conti con la storia, prendendo a oggetto la borghesia nazionale. O forse la suggestione nasce da questo Ritorno al deserto, testo quasi testamentario che arriva per la prima volta in scena nel nostro paese per merito di Andrea Adriatico, nella traduzione di Luca Scarlini, all'interno di una rassegna tutta dedicata dai Teatri di Vita al drammaturgo francese (però c'era stata, se la memoria non tradisce, un'edizione radiofonica con Laura Betti diretta da Elio De Capitani).
Qui gli spettatori sono disposti su poche file di galleria, schiacciati contro uno schermo cinematografico dove appaiono slabbrate immagini in bianco e nero, primi piani confusi, ombre di corpi, mentre una voce fuori campo dà inizio al racconto. Quando lo schermo si solleva, la scena appare in basso, lontana, un riquadro contornato lungo tutto il perimetro da un muro di mattoni forati, da guardare dall'alto come spiandola. Altri muretti di mattoni suddividono all'interno lo spazio, formando dei camminamenti, degli angoli bui dietro cui è possibile nascondersi. E conoscendo l'importanza che ha per Adriatico lo spazio scenico, come primo elemento interpretativo offerto a chi guarda, non vi è dubbio che lì siamo spinti a dirigere l'attenzione. Anche perché il regista inquadra l'azione all'interno della cornice testuale di un breve racconto scritto dallo stesso Koltès che ricostruisce cento anni di storia della famiglia Serpenoise, come a reintrodurre la vicenda dentro una saga familiare, accentuandone il lato romanzesco ma a prezzo di privilegiare una trama inevitabilmente superficiale. Conflittuale per giunta con gli slittamenti onirici del testo, apparizioni di acidi fantasmi, soldati in tuta mimetica paracadutati nel giardino che potrebbero già preludere ai dannati di Sarah Kane.
La vicenda è ambientata nella provincia francese del 1960, il solo luogo del mondo dove si viva bene secondo il protagonista, che però tende a identificare questo luogo ideale con la propria casa. Una casa universo che diventa anche una casa prigione, per una sorta di volontaria autoreclusione. Oltre il muro c'è la giungla, dice al figlio. E proprio la casa è l'oggetto simbolico dello scontro con la sorella, tornata in quel deserto (dei sentimenti, dei desideri, dell'etica) dopo molti anni di meno volontario esilio in Algeria, tirandosi dietro figli illegittimi e accuse di collaborazionismo orchestrate da lui. Lei che della casa rivendica la legittima proprietà, lui un possesso ormai affermato dalla consuetudine.
Ed è scontro anche fisico, cioè di modi di occupare lo spazio, in quel loro andare avanti e indietro su percorsi rettilinei che li porta inevitabilmente a confliggere. Con un comprensibile rovesciamento delle parti, Maurizio Cardillo, istrionico e petulante, impone il diritto a una sovversione delle regole dall'alto resa manifesta dai piedi scalzi e gli occhialini alla Elton John. Mentre Francesca Mazza gli risponde con autoritario buon senso e solida eleganza.
Sono gli anni della guerra d'Algeria, anche se le musiche allusive che scandiscono le scene spostano avanti nel decennio il clima sentimentale della pièce, dalla Stupid girl dei Rolling Stones alla voce ancora struggente di Janis Joplin che invoca Summertime-time-time. Ma una ancor più netta cesura è offerta dal periodico calare dello schermo, dal riproporsi delle immagini filmate.
C'è in Adriatico, lo si vede, un disperato desiderio di cinema, non per contaminazione di linguaggi ma per un bisogno di primo piano che il teatro non può dargli, che vuol dire scavare nelle pieghe dei volti e nella distanza da cui si affrontano i personaggi.
Nostalgia del disordine. È questo in fondo il sentimento espresso da Ritorno al deserto, in quegli ultimi anni 80. Più radicale e scandaloso dell'incestuososo legame portato allo scoperto dal finale raccontato.

Gianni Manzella

Una commedia beffarda scritta da Koltès per Jacqueline Maillan

In Francia e Algeria in cerca di una patria

Scritto da Koltès nel 1988, una anno prima della scomparsa, Il ritorno al deserto è arrivato solo oggi alla prima italiana, mentre a Parigi il testo veniva accolto nel repertorio della Comédie Francaise in un'edizione contestata dal fratello dell'autore per aver dato a un non arabo il personaggio di un servo algerino. La questione non è secondaria viste le durezze di una commedia ambientata nella provincia francese verso la fine della guerra d'Algeria, dove la protagonista ha fatto ritorno, riprendendo possesso della casa condivisa col fratello industriale, dall'ex colonia in cui si era rifugiata vent'anni prima per nascondere un paio di gravidanze, e dove entrambi decidono di riparare alla fine. Ma non viene specificato se il deserto del titolo alluda all'Algeria perduta o alla madrepatria tormentata dalle trame del pieds noirs. "Forse la patria è il posto dove non si è", dice qualcuno, ma è amche "nessun posto" come la Polonia di re Ubu questa Francia scossa dalle perdite d'identità.

Non a caso si apre con un'epigrafe scespiriana e si diverte a giocare col teatro questa commedia beffarda, scritta per un'attrice di boulevard come Jacqueline Maillan. Lo sa bene Andrea Adriatico, che in effetti a sua volta si diverte ora piazzando il suo spettacolo in una scena che non vuol essere una scena, uno spazio da guardare dall'alto in cui dei camminamenti si susseguono tra una serie di bassi muretti in mattoni, delle strade dove non ci si incontra o una storia di luogo delle apparizioni per la casualità con cui comunicano questi personaggi; ma a tratti quando parlano a se stessi, parole e immagini video salgono in cima, chiudendo con uno schermo il boccascena davanti a chi ascolta, a diretto contatto.

A volte qualche confidenza può non arrivare allo spettatore, ma più spesso è come se Koltès stesso ti parlasse, e questo può bastare a scomodare anche chi viene da lontano: e non solo lui ti parla, ma lo fa col senso di chi sa cosa sta lasciando dietro di sé, data la morte che l'aspetta: pezzi di teatro da sottolineare, frammenti di verità, vuoto della vita, brilli di illusioni sotterranee. Grazie a Francesca Mazza, e a Maurizio Cardillo e Angela Malfitano, tra i molti artefici della bella serata.

Franco Quadri

Ultima modifica il Lunedì, 23 Settembre 2013 13:34

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