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SACRE-STIE - regia Vincenzo Pirrotta

Sacre-Stie Sacre-Stie Regia Vincenzo Pirrotta

scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta
con Filippo Luna
e con Alessandro Romano e Marcello Montalto
elementi scenici di Rosalba Corrao
costumi realizzati da Marcella Costa
produzione Esperidio e Palermo Teatro Festival
Nuovo Montevergini, Palermo Venerdì 29 e sabato 30 ottobre 2010

www.Sipario.it, 18 novembre 2010

Avvolge in un'atmosfera delirante e barocca un'accusa tanto esplicita quanto diretta verso i colpevoli silenzi della Chiesa per l'orrore della pedofilia, lo spettacolo scritto e diretto da Vincenzo Pirrotta. In prima nazionale per il Palermo Teatro Festival, Sacre-stie, segna il ritorno di un importante sodalizio artistico tra il regista siciliano e l'attore Filippo Luna, già premio della critica per il 2010, interprete potente e che giustamente catalizza su di sé l'attenzione di un pubblico sempre maggiore.
Sulla scena lascia infatti colpiti la sua maestria nell'incorporare la figura di un torbido cardinale che ripercorre le memorie del proprio cammino presbiteriale.
Le parole che il drammaturgo gli mette in bocca traboccano, travalicano, esplodono di un fascino viscerale. La memoria è un tripudio di sensi, le esperienze sono filtrate attraverso l'estensione sensibile (vista, tatto, udito, odorato), l'odore di fiori e candele, l'impressionante freddo del marmo durante la prostrazione per l'ordinazione sacerdotale, un coinvolgimento dei sensi e della sfera sensoriale che lo avvolge come fumo, mentre ripercorre a ritroso la propria esistenza.
Si crea un particolare rapporto tra interiorità ed esteriorità, la pelle e i sensi sono strumenti di indagine, di soddisfacimento edonistico, di voluttà e sublimazione della voluttà.
Se è nelle parole uno specchio concavo che deforma le pieghe dell'anima, la bravura dell'atttore è quella di far trasmigrare la potenza linguistica in potenza corporea e psichica: si tramuta in essere bestiale e disumano, impossessato dalla cupidigia, con le membra squassate dal piacere carnale, crollato nella bassezza morale e morbosa del suo stesso peccato al cui richiamo morboso cede mollemente. Il muoversi è denso e sensuoso, come liquide e viscose sono le pulsioni corporali, la libido è un sostrato che scuote i tratti somatici sformando, come un magma sotterraneo, un'esteriorità marmorea raggelante. "Un'esperienza terrificante, ma necessaria" – la definisce Filippo Luna, e di "un racconto atroce, ma necessario" parla lo stesso autore, Pirrotta che dipinge a tinte fosche la "la depravazione all'ombra della protezione vaticana" che ha taciuto questi crimini orrendi.
Una commistione di misticismo e peccato, depravazione e contrizione, una danza con la morte e l'apparizione di tre fantocci-scheletri bambini, forti contrasti tra candore e macchie del peccato, luci che hanno lo scopo di nascondere e ombre capaci di illuminare, dissimulazione, parvenza; un ombrello che invece di proteggere offre ad una pioggia scrosciante i panni di una creatura innocente; "Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina, e fosse gettato negli abissi del mare".
La drammaturgia ha una struttura a chiasmo la cui chiave di volta è l'agnizione da parte di un giovane prete, interpretato da Alessandro Romano, che fa emergere una verità di abusi e violenze subite. È lui che costringe a ricordare tutte le violenze che ha subito ai tempi in cui egli era un bambino e il Cardinale, il rettore dell'Istituto cui era affidato.
Un trompe l'oleil temporale che si staglia come un doppio fondo, un vertiginoso rovesciamento di prospettiva: come in un giallo, lo scioglimento arriva, in tutta la sua drammaticità, quando il buio della coscienza affiora spaventosamente e si squarcia, per condurre a un tragico epilogo. Il finale scopertamente e duramente politico, è una denuncia senza mezzi termini ad una Chiesa che ha voluto nascondere sotto una coltre di ipocrisia la verità.
La cecità di chi non ha voluto guardare diventa così il duro contrappasso con cui si vendica la vittima, in nome e per conto di tutte le vittime. Chiaro il riferimento ad Edipo, solo che, in questo caso, il percorso dal buio verso la chiarezza è rovesciato, è il pubblico che, alla fine, conosce una verità emersa da un percorso nella coscienza che, allo stesso tempo, è individuale e collettivo.
Un testo lancinante, feroce e brutale, reso ancora più necessario dal disperato bisogno di farsi sentire in un mare di indifferenza.

Filippa Ilardo

Ultima modifica il Giovedì, 03 Ottobre 2013 09:26

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