Scritto e diretto da Angélica Liddell
con Xue Ying Dong Wu, Xie Guinü, Fabián Augusto Gómez Bohórquez, Lola Jiménez, Jenny Kaatz, Angélica Liddell, Sindo Puche, Maxime Trousset, Zhang Qiwen, Saite Ye, e l'ensemble musicale PHACE
Parigi, Théatre Odeon dal 20 novembre al 1 dicembre 2013
"Amare è sentirsi abbandonato in ogni momento. L'amore genuino è sempre sessuale, mortale."
Wendy è "La condanna ad amare per paura dell'abbandono ovvero la paura dell'abbandono che condanna ad amare". Wendy è la prigionia del paradosso con cui lei stessa si è incatenata.
Peter è "La paura di crescere", è "l'uomo-infante relegato per sempre ad un nanismo emotivo, ad amare solo se stesso odiando chiunque sia più giovane". Peter è la lotta disperata contro il demone del tempo. Peter è la convinzione di poter piegare l'esistenza ad una volontà deformante. L'involuzione.
E poi Neverland ovvero l'isola che c'è. L'isola che tutti sappiamo localizzare dal 2011 nella mappa dei nostri ricordi. Neverland è Utoya e le immagini del massacro: i bambini sperduti che non volano più per salvarsi, ma nuotano. E poi galleggiano. E che anche se avessero voluto, ora non possono più crescere. Ora sono i 69 cadaveri della storia che si inscrive nel libro nero dell'umanità.
La favola per l'infanzia è sparita.Rimangono i mostri. Le sindromi. E i morti.
Il Palco è il luogo in cui approdare. L'illustrazione dell'orrore che resta e che non si può rifiutare di ascoltare. Vietato coprisi gli occhi, scuotere la testa per non sentire e ripetere all'infinito il proprio nome fino a quando si svuota di senso e diventa solo suono.
Angélica-Wendy feconda la sua isola, la popola di tutti quegli esseri che ha annegato nel suo amore, che ha incontrato nel suo percorso e che sono diventati i personaggi della sua storia: un Peter Pan nano e ripugnante nella sua ossessione di eterna giovinezza, una Sé-bambina isterica nel suo solipsismo, il canto dello spirito di una sopravvissuta al delirio di Anders Breivik, i Valzer senza tregua di una coppia di Shanghai accompagnati da un'intera orchestra materializzatasi da Vienna, il kitsch dei vestiti con cui ornarsi, la desolazione di due alligatori di plastica sospesi su un cumulo di terra su cui masturbarsi fino a far sparire il resto.
E Wendy è sola. Nessun costume in cui nascondersi, nessun personaggio con cui schermarsi. Rimane la donna. La Wendy adulta, vestita di nero, giunta al momento in cui il ruolo da incarnare è quello de La Madre. Il surrogato di.
"Mother. I love you Mother: Fuck you Mother "
Non può che urlare Angélica – Wendy, rifiutare con tutta l'aria nei polmoni di cedere al ricatto: essere madre e garantirsi il supplemento di dignità che diventarlo comporta. Nessun valore aggiunto. Nessuna bontà strabordante con cui soffocare creature generate da mancanze esistenziali.
Nessuna scorciatoia per sentirsi necessari. Nessun compromesso nel generare dipendenze castranti.
Nessun discendente. Estinguere. E liberare 'l'istinto a figliare' dalle proprie paure.
L'animale ferito che arranca , la bambina terrorizzata e disorientata, la donna di una furia implacabile, l'uomo apparentemente compiaciuto si alternano sulle note di "The house of the rising sun" nel corpo multiforme di Angélica, nei colori dell'estensione sorprendente della sua voce, nei movimenti di cui improvvise distorsioni spezzano la perfetta coordinazione. E le parole. Accurate. Curate con precisione maniacale. Parole di una poetica potente e sconvolgente. Un tentativo costante ad avvicinarsi sempre più ad una verità inafferrabile, beffarda nello sfuggire sempre più rapidamente..ma che Angélica sembra riuscire ad afferrare, fare propria e sparare addosso chi ascolta come un proiettile mai più estraibile dalla carne, che rimane lì, silente, ma pronto a bruciare di nuovo, a volte, per ricordarci che ciò a cui abbiamo assistito è assolutamente INDIMENTICABILE.
D.G.