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INTERVISTA a GIACOMO CASTELLANA - di Giuseppe Distefano

Giacomo Castellana. Foto Giuseppe Distefano Giacomo Castellana. Foto Giuseppe Distefano

“Elegante, virile, con una qualità di movimento allo stesso tempo fluida e potente, si è messo presto in evidenza. Negli ultimi tempi si è distinto in Walking Mad di Johan Inger, e come Lescaut in Manon, un impegnativo debutto ‘al volo’ in sostituzione di un ospite infortunato. Come partner di Eleonora Abbagnato in La rose malade e come focoso José in Carmen di Jiří Bubeniček ha dimostrato inoltre una bella personalità teatrale, che maturando regalerà alla compagnia un protagonista di prim’ordine”. Con questa motivazione Giacomo Castellana, solista del Teatro dell’Opera di Roma, è stato insignito all’inizio di quest’anno dal magazine Danza&Danza del Premio ‘miglior danzatore emergente 2019’. Originario di Trabia, un piccolo paese di 5mila abitanti in provincia di Palermo, Giacomo Castellana dopo aver frequentato da bambino una scuola privata di danza, si è avvicinato più seriamente al mondo del balletto all’età di tredici anni entrando nel gruppo dei “Piccoli danzatori” del Teatro Massimo di Palermo. Era il 2004. In quel periodo iniziava il corso professionale alla Scuola di Ballo del Massimo, dove è rimasto per cinque anni. Nel frattempo era stato selezionato, dopo un’audizione, alla Scuola dell’Opera di Roma, ma per vari motivi decide di rimanere a Palermo. “Forse non era il momento di dare una svolta importante”, racconta. “Avevo diciassette anni quando, su consiglio del mio maestro, ho partecipato ad una audizione estiva a Torino finalizzata ad uno stage al Bolshoi di Mosca. Inizialmente non gli ho dato troppa importanza. Ma poi, inaspettatamente, sono stato selezionato e si è così concretizzato il desiderio che avevo di fare un’esperienza all'estero.

Al Bolshoi sei rimasto tre anni. Un bel salto, anche di qualità…
Era quello che mi serviva. Se non avessi fatto questa esperienza, penso che ora non sarei qui e, forse, non avrei neanche continuato nella danza. Ho studiato a Mosca fino al diploma. Avevo vent’anni, un po’ tardi rispetto al percorso comune. È stata un'esperienza formativa bellissima, sia per i maestri che ho avuto e per la possibilità di poter ballare in quel meraviglioso teatro, sia per aver potuto incontrare i più grandi ballerini russi.

Cosa ti ha insegnato l’esperienza alla grande scuola russa?
Anzitutto la disciplina, e il rigore in sala, due aspetti che si devono sempre avere nei confronti del mestiere. Il nostro lavoro è un'arte e come tale dobbiamo essere i primi a rispettarla, considerando che diamo anche un messaggio al pubblico. Inoltre mi ha dato la possibilità di ampliare le mie vedute artistiche lavorando, in età giovane - e per questo mi reputo fortunato - con grandi coreografi.

Ti ha dato un imprinting di serietà e di rigore…
Che, oggi soprattutto, serve. Non avendo studiato in altre accademie, non avendo quindi paragoni, posso dire che la disciplina russa è basilare, per il rigore e la concentrazione che richiede ventiquattr’ore su ventiquattro. Lì si studiava soltanto. La vita si svolgeva tutta in Accademia essendo un’unica struttura, completa di alloggio. L’unica distrazione era andare a vedere gli spettacoli. Quello che mi dispiace è non essere potuto rimanere. Conseguito il diploma sono stato promosso dopo una creazione di Nacho Duato il quale mi aveva sollecitato ad andare al Teatro Michajlovskij a San Pietroburgo. All’audizione eravamo in tre, e hanno preso i due ragazzi russi. Confesso di esserci rimasto un po’ male, anche perché ormai mi ero abituato alla loro concezione del lavoro. Tornato in Italia subito dopo il diploma, ho fatto diverse audizioni. Quelle che andavano bene però non mi entusiasmavano. È seguito un periodo di difficoltà e mi sono fermato.

Volevi smettere?
No, assolutamente. Volevo provare qualcosa che mi desse una scossa. L’occasione è arrivata con la partecipazione alla trasmissione televisiva Amici. La considero una parentesi del mio percorso, e non me ne vergogno. Sappiamo che nel mondo del balletto la trasmissione non è molto ben vista, e mi ha creato dei problemi anche dopo, nel reinserirmi con credibilità di danzatore quando sono entrato nel Corpo di Ballo, prima a Palermo poi a Roma. Ero criticato, etichettato, da chi non conosceva il mio percorso precedente, non sapendo cioè che la mia formazione è stata molto più ampia rispetto anche ad altri che hanno partecipato ad Amici.

Com’è nata la possibilità di partecipare alla trasmissione?
Mi è stata proposta. Ho superato tutti i provini, e pur avendo inizialmente rifiutato per il problema di non sapere se mi poteva rovinare l’eventuale carriera e reputazione, alla fine ho accettato. Mi son detto: “Perché non provare?” Non dovevo farmi condizionare dal pensiero degli altri, e che, comunque, se una persona ha del talento e vale, non poteva essere un programma televisivo a rovinarlo. Avevo immaginato di arrivare in finale poiché fino a quel momento il mio percorso era stato tutto in salita. Vincevo le sfide, avevo molto seguito, e anche i professori mi dimostravano molto interesse. Invece, alla prima puntata del serale, sono stato eliminato. È stata una doccia fredda, non se l'aspettava nessuno. È successo non si sa per quali meccanismi televisivi. Io ero andato per fare bene il mio lavoro, per imparare. Da un lato è stato meglio così. Se avessi vinto, forse ora non sarei qui e mi avrebbe distratto dai miei obiettivi rimanendo circoscritto in quel mondo televisivo che, sappiamo bene, dura poco.

Finito la parentesi di Amici come hai continuato?
Ho attraversato un periodo difficile. Non trovavo lavoro. Non c'erano neanche audizioni, quindi ho dovuto aspettare che si ripresentassero. L'occasione è stata, nel 2014, al Massimo di Palermo. Ho lavorato a due produzioni della stagione di balletto. La prima, quella che mi ha portato subito fortuna, è stata il Romeo e Giulietta di Massimo Moricone, con il ruolo di Paride. Questo balletto mi ha dato la possibilità di andare poi a Bratislava interpretando il ruolo di Romeo, e poi entrando nella compagnia dello Slovach National. Il trasferimento è avvenuto velocemente, nel giro di una settimana. Sono rimasto nella Compagnia quattro mesi. Inizialmente mi avevano chiamato come ospite, poi il direttore voleva che rimanessi con un contratto da guest per sei mesi e poi da solista. Ho rifiutato perché non mi piaceva particolarmente il loro repertorio. Facevano dei classici della tradizione dell'Est, anche poco conosciuti. Mancava lo sguardo sulla contemporaneità. Sono ritornato a Palermo per due mesi e dopo un'audizione sono entrato al Teatro dell’Opera di Roma, dove sono dal 2015.

Qui, nel 2018, sei diventato solista…
C'è stato un concorso interno e fortunatamente l’ho vinto. Quello è stato un periodo molto importante perché coincideva anche con il mio debutto in Manon. Il ruolo di Lescaut mi ha cambiato totalmente. Da quel momento ho sentito profondamente la differenza nel lavoro che facevo. Mi sono proiettato mentalmente con più impegno, e con una maggiore consapevolezza di quello che volevo fare.

Da cosa ti è derivata questa maggiore presa di coscienza nel fare il ruolo di Lescaut?
Perché è un ruolo impegnativo, ed è stato il primo importante affidatomi. L’ho vissuto con molta responsabilità, anche perché, a causa dell’infortunio di un collega, ho debuttato subito alla prima a fianco di Eleonora Abbagnato e di Vogel. Puoi immaginare la tensione che avevo! Questo ruolo oltre a farmi crescere tecnicamente, mi ha dato la possibilità di esprimermi anche artisticamente. Essendo una storia ben chiara, per due ore entri in un personaggio, lo sviluppi e lo fai crescere durante tutto lo spettacolo. Inoltre lavorare con Karl Burnett e con Patricia Ruanne, è stata una svolta importante.

Una delle tue caratteristiche è la grande capacità espressiva. E sulla scena si evince con molta forza. Da cosa ti deriva?
Amo molto entrare nel personaggio che interpreto. Questa è un aspetto della danza che, fin da piccolo, mi ha sempre affascinato, perché non devi semplicemente eseguire dei passi, ma hai la possibilità di essere tante persone, esplorare varie sfaccettature, rappresentare stati d’animo diversi, che magari nella vita normale non puoi fare in quanto non corrispondono al tuo carattere, al tuo modo di essere. Mi piacciono certamente anche i balletti che non raccontano delle storie, prediligo però quelli in cui devi sviluppare un personaggio. Li sento molto più vicini a me.

Per calarsi nei panni di un altro e vivere le sue emozioni, gli stati di animo, come ti prepari? Come studi un personaggio?
Mi documento molto. Leggo dei libri in base al personaggio da interpretare, anche su consiglio del coreografo o del ripetitore. È importante non solo eseguire dei passi ma sapere chi sei in scena e cosa stai facendo. Mi documento anche attraverso i video, anche se i ripetitori ci dicono di non farlo. Io cerco di farlo perché, avendo la possibilità di vedere le interpretazioni dei grandi ballerini, si può imparare e anche ispirarsi a loro.

Hai una notevole duttilità, che ti è riconosciuta, nell’eseguire sia il classico sia il contemporaneo
Direi che è un’attitudine naturale, ma dipende anche dallo studio. Amo particolarmente tutto il linguaggio contemporaneo e neoclassico, e mi piace sperimentare nuovi stili. È grazie a Eleonora Abbagnato se stiamo facendo tante tipologie diverse di danza di coreografi come Forsythe, Kylian, Inger, Ekman, autori che danno la possibilità di esprimere se stessi tramite la tipologia di movimento del proprio corpo.

Tra l’altro Ekman in Cacti ti ha ritagliato un assolo…
C’era un passaggio bellissimo, breve, che mi è piaciuto tanto interpretare. L’indicazione datami dal ripetitore, secondo l’intenzione di Ekman, era di pensare quel brano come se stessi dirigendo un'orchestra. Mi aveva dato delle linee guida, cioè riprendere dei movimenti legati all'idea di suonare degli strumenti. E poi danzare quello che mi sentivo di fare. Allora ho dato sfogo alla mia creatività. Non c’erano dei passi prestabiliti, per cui ogni sera facevo qualcosa di diverso, improvvisavo. È stato divertente.

Quindi il linguaggio contemporaneo ti è più consono?
Direi di sì. È quello che preferisco. Sono molto oggettivo su me stesso. So che, rispetto al grande repertorio classico, certi ruoli con virtuosismi, come ad esempio Corsaro, non saprei affrontarli. Non li sento vicini al mio mondo. Ciascuno ha il suo range.

Ma c’è un ruolo classico che ti piacerebbe fare?
Penso al De Grieux de L'histoire de Manon o all’Onegin del balletto di John Cranko. Sicuramente Sigfrid, del Lago dei cigni, credo di poterlo affrontare.

Quindi hai un’indole più romantica…
Si, il balletto romantico lo sento più consono.

Sul versante contemporaneo, con quali coreografi vorresti cimentarti?
Mi piacerebbe tantissimo lavorare con William Forsythe, in titoli come The vertiginous thrill of exactitude, o In the middle somewhat elevated. Avrei dovuto danzare in Artifact all’Opera di Roma, ma per incastri vari non ho avuto la possibilità di andare in scena. Mi piacerebbe soprattutto Kylian – di cui abbiamo fatto Petite mort -, e tutto il suo repertorio; ma anche Neumeier, MacMillan. Di quest’ultimo mi alletterebbe molto interpretare il suo Romeo.

Sei un spettatore assiduo?
Cerco di vedere più possibile gli spettacoli di danza. Non mi perdo al cinema i balletti live del Royal e del Bolshoi.

Quali sono i tuoi interessi nella vita?
Amo molto viaggiare e appena posso mi organizzo. Ultimamente sono stato in Africa, in Madagascar, dove c’è una signora di Napoli, Marina Consiglio, che lavora con una Onlus e aiuta i bambini del posto. Ha creato dal nulla una rete di scuole rendendole statali e quindi gratuite. Fa studiare 13mila bambini che prima non avevano possibilità di accedervi perché a pagamento. Il mio contributo è stato economico. Sono andato non solo per visitare i luoghi ma anche per trovare i bambini nelle scuole, per vedere con i miei occhi la realtà in cui si vive. Questo viaggio mi ha aiutato ad aprire gli occhi, toccando con mano la situazione reale e le difficoltà in cui vivono. La cosa che mi ha molto colpito è il sorriso. I bambini sono felici col poco che hanno. Vedere questo mi ha ridimensionato aiutandomi ad apprezzare le cose reali della vita, perché noi occidentali abbiamo tutto e vogliamo sempre di più, non ci accontentiamo. Chi come me fa un lavoro che soddisfa, è fortunatissimo rispetto a coloro che invece devono alzarsi all’alba per andare a lavorare facendo magari un’attività che non piace. Ho sempre avuto la consapevolezza di essere molto fortunato, e questo mi ha aiutato ad avere i piedi per terra, ad essere umile. Ci vuole un attimo a perdere la cognizione di quello che si fa credendosi importante. Noi ballerini siamo degli artisti che cercano di dare il massimo di sé per il pubblico. Personalmente cerco di fare bene il mio lavoro, mantenermi umile e rispettoso con chi mi sta intorno.

Per diventare ballerino hai dovuto fare delle rinunce forti, specie quando hai iniziato?
Rinunce particolarmente traumatiche non ne ho fatte. Certamente non ho vissuto l’adolescenza normale dei miei amici, per via, per esempio, delle lezioni di danza che avevo in orari sempre diversi rispetto a quelli dei miei coetanei, e quindi non riuscivo quasi mai a organizzarmi con loro. Poi ho dovuto lasciare la mia famiglia, alla quale sono molto legato, anche se sono stato comunque fortunato averlo fatto a 17 anni e non da piccolo. Poi ho comunque recuperato rispetto alle cose alle quali avevo rinunciato, e delle quali non mi pento perché mi sono sacrificato per studiare, per non perdere il focus sulle cose importanti che stavo affrontando.

In cosa ti senti forte e in cosa debole come ballerino?
Un mio punto forte credo che sia la qualità di movimento e la versatilità che mi permette di passare facilmente dallo stile classico al contemporaneo. Un altro aspetto è l’interpretazione. Lo dico perché, molte delle recensioni sugli spettacoli andati in scena all’Opera, mi riconoscono questo aspetto. Un punto debole, ma è solo nella mia testa - cioè è una mia convinzione personale - è la tecnica. Non sono un ballerino virtuoso, uno che fa salti circensi, o grandi pirouette. Da quando sono all’Opera di Roma in questi cinque anni ho comunque lavorato tantissimo sul lato tecnico, e credo di essere migliorato. Cerco di dare sempre il massimo sia in sala, sia durante le prove; lavorare più che posso per arrivare in scena pronto. Però oggettivamente ci sono dei ruoli per me off limits. E va bene così. Non tutti devono e possono fare tutto. Sono comunque contento del livello raggiunto finora.

Hai ballato più volte accanto a Eleonora Abbagnato, per esempio in La rose malade, o al Festival di Spoleto e in altri gala. Com’è ballare con una étoile così importante, che è anche la tua direttrice?
Inizialmente non è stato semplice, ma non perché lei non mi abbia messo subito a mio agio. Ero così emozionato, che la prima volta sono stato male. Il fatto che mi abbia scelto è stato motivo di orgoglio. Ha creduto in me, e si è affidata alle mie mani proprio perché il passo a due vuol dire affidarsi al partner. Lei è un’artista che ammiro molto in scena. Uno dei suoi punti di forza è l’espressività e l'intensità. Interpretare un ruolo con lei in un passo a due mi ha dato delle sensazioni bellissime che non avevo provato prima con altre partner.

Durante questi anni hai ricevuto dei consigli importanti dei quali hai fatto tesoro?
I consigli degli insegnanti sono fondamentali per un artista. Serve un occhio esterno che ci aiuti che ci corregga dove sbagliamo. Lo specchio da solo non basta. Al Massimo di Palermo al tempo dei “Piccoli danzatori”, il mio maestro mi ha aiutato molto a capire cosa volevo fare nella vita e se la danza era la mia strada. Anche Eleonora mi ha aiutato molto riguardo alla visione del lavoro, dello stare in scena, del sapere dominare le ansie, anche se quelle ci sono sempre. Anche gli assistenti dei coreografi con cui ho lavorato mi sono stati d’aiuto, ad esempio a trovare la chiave giusta per interpretare un ruolo, per lavorare sul personaggio sia dal punto di vista tecnico che interpretativo. Una cosa che mi hanno insegnato in Russia è che il mentore è fondamentale. Lì fa parte del sistema danza, già quando si entra nel corpo di ballo, avere un maitre assegnato, uno che, dedicandosi personalmente ad una classe, ti segue negli anni. Sarebbe bello se avere più maitre avvenisse anche in Italia.

C’è un consiglio particolare che ti ha segnato?
È stato lo scorso anno, ad agosto, da parte di Baryshnikov. Ci ha seguito per cinque giorni durante le prove iniziali del Don Chisciotte. A quelli che eravamo in sala con lui ci ha dato dei consigli importanti: fra cui quello di vivere la scena come se fosse la vita reale. Siamo sì degli attori, ma dobbiamo portare in scena noi stessi. Ed è quello che piace al pubblico. Lui, da grande ballerino tecnico che era, ci ha ribadito che la tecnica è sì necessaria ma non fondamentale. Questo consiglio lo porterò sempre con me.

Cos’è importante per essere un bravo ballerino?
Anzitutto devi piacere al pubblico. Hai sempre bisogno del riscontro degli altri per capire se vali o meno, se sei all’altezza. La qualità principale del bravo ballerino per me è anzitutto l’essere artista a tutto tondo, esserlo dentro, mentalmente, essere animato dal fuoco dell'arte. Penso che la danza sia un mondo a parte rispetto a tutti gli altri. È anche uno stile di vita, perché bisogna essere veramente concentrati. Poi è importante sicuramente il lavoro, lo studio, e, fondamentale, l'umiltà. Per esser grandi bisogna essere piccoli, non prevaricare, stare al proprio posto, avere i piedi per terra. Poi c’è la passione: è quella che fa la differenza. Molti ballano come routine, vivono la danza come se andassero in ufficio. Per me è soprattutto uno stile di vita. È un lavoro sì, ma che prende tutto il tuo essere: corpo, mente, spirito. Anche quando sono fuori dal teatro, a casa, danzo sempre anche se in modo diverso. Mi muovo anche mentalmente. Non sto mai fermo.

Si può dire che la danza è tutto per te? O ci sono anche altre cose importanti?
La danza è la mia vita, anche se può sembrare una frase fatta. Per me è così. Me lo dicono anche gli altri. Tra i ballerini si usa la parola “fomentato”, e mi piace esserlo perché corrisponde a quello che sono. Non mi sforzo, non lo faccio per voler dimostrare qualcosa. Ho sempre ballato.

Quanto conta l'immagine, la parte esteriore, l'apparire, l’essere di bell’aspetto?
Sicuramente conta. Non voglio fare la persona snob che dice che non conta. L’avere un bel viso, un bel fisico, in alcuni casi aiuta, ma questo non rappresenta un merito.

Ci sono invece quelli che danno molto rilievo a questo…
Cè stato il periodo di Amici nel quale anch’io davo molta importanza a questo aspetto. Ero molto attento ai social, volevo apparire sempre di più perché pensavo che poteva significare darmi spazio in teatro o a livello mediatico. Adesso mi sto ridimensionando, anche se ancora non del tutto. Sono abbastanza presente perché mi piace condividere quello che faccio. Comunque dipende sempre dall’uso che si fa dei social. Quando mi sono accorto che davo troppa importanza e stava diventando quasi una dipendenza, mi sono fermato. Però credo che sia utile usarli, come fa lo stesso teatro pubblicando foto, video, ecc., un modo per far conoscere e attirare pubblico agli spettacoli. Se, anche personalmente, lo si fa per questo, sono a favore. Perché serve alla danza.

Come ti definiresti come persona?
È difficile definirsi. Cerco di stare concentrato su quello che faccio stando con i piedi per terra, ma sono molto lunatico. Un giorno mi piace una cosa e il giorno dopo cambio idea. Impiego tanto tempo nel prendere decisioni, anche se adesso un po’ meno. Mi piace, a volte, essere al centro dell'attenzione. Un giorno sono sicuro di me, il giorno successivo no. A volte, infatti, penso che la danza non faccia per me, e un altro giorno, invece, sono sicuro.

Riguardo a questo hai avuto, o hai ancora, dei dubbi?
Tuttora. Ho sempre avuto dei dubbi su me stesso, dubbi sul mio potenziale per non sentirmi all'altezza di quello che facevo. Insomma, poca autostima. Però crescendo, e col riconoscimento delle qualità da parte degli altri, ho iniziato a dirmi che, forse, qualcosa valgo.

E adesso?
Ho molta più autoconsapevolezza rispetto a prima. Sono cosciente che ho raggiunto un buon livello - non voglio dire alto perché quello lo possiedono solo i grandi ballerini -, e un livello di autostima importante. Ho sempre avuto il problema, come ti dicevo prima, di non essere all'altezza dal punto di vista tecnico. Non mi sono mai visto il ballerino classico per eccellenza, e questo mi demoralizzava. Invece arrivando all’Opera di Roma mi sono reso conto che posso fare anche quello. E bene.

Comunque non hai dubbi che la danza non sia la tua strada…
Questo no. Mi è chiaro. Anzi voglio sempre più andare avanti, anche se questo non dipende da me. Avere possibilità di fare dei ruoli in più e diversi anche per confrontarmi e vedere fino a che livello posso arrivare. Vivo molto il presente. Mi piacerebbe anche fare delle esperienze all'estero.

Hai dei prossimi obiettivi? Vorresti fare altre esperienze?
Sono molto combattuto. Mi piace molto lavorare all’Opera di Roma. Le attenzioni che mi hanno dato, le possibilità offertomi di esprimermi e di fare dei ruoli importanti mi hanno fatto crescere tantissimo. Qui ho la sicurezza di un’evoluzione. Non ti nascondo però che mi piacerebbe anche andare all’estero, fare altre esperienze, lavorare con coreografi diversi (un mio sogno sarebbe l'Hamburg Ballet. Mi è sempre piaciuto, fin da ragazzo, lo stile di John Neumeier). Dovrei rischiare, ma non sono sicuro. C’è il desiderio di ampliare gli orizzonti, di danzare di più, di fare un maggior numero di spettacoli. La voglia di ballare ancor di più è tanta, anche perché la carriera di un ballerino è breve. Chi si protrae fino a 50 anni sono pochi, solo le grandi star. Invece noi comuni mortali abbiamo bisogno di dare il massimo fin quando il fisico lo permette. Andare in un altro corpo di ballo significherebbe ripartire da zero, tornare indietro. Da quando c’è Eleonora comunque ha dato molte possibilità, ha dato fiducia, ha saputo riconoscere chi aveva le capacità, ha fatto delle nomine, ha costruito una gerarchia importante nel corpo di ballo. Quando sono entrato non pensavo neanche di diventare solista, quindi già per questo sono contentissimo, e grato per la fiducia riposta in me che spero di non deludere.

In cosa ti aiuta la danza come persona?
La danza t’insegna la disciplina, ad avere e seguire delle regole. Personalmente mi ha aiutato anche ad essere più socievole, un aspetto per il quale avevo difficoltà. Da piccolo ho avuto dei problemi di adattamento, facevo fatica ad avere degli amici, ero preso in giro perché facevo danza. Ed è stato proprio quello che poi mi ha aiutato a superare le difficoltà, a trovare la mia posizione nel mondo. Quando poi le persone hanno capito che, almeno per me, la danza non era né un passatempo, né un voler solo esibirsi, hanno cambiato idea. E facendomi valere mi sono anche preso delle rivincite rispetto a quelli che mi denigravano. Quindi mi ha aiutato a essere più sicuro di me stesso, più espansivo come persona, e a combattere la timidezza, che nel mondo della danza non può esistere altrimenti fai altro nella vita. La danza mi ha aiutato in tutto, mi ha aperto la mente. Mi ha salvato. Ora mi sento realizzato.

Giuseppe Distefano

Ultima modifica il Giovedì, 27 Febbraio 2020 10:12

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