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INTERVISTA a JOS HOUBEN - di Maria Pia Tolu

Jos Houben in "L'art du rire" Jos Houben in "L'art du rire"

Incontriamo Jos Houben in occasione del suo spettacolo L'art du rire, monologo filosofico e antropologico, una sorta di masterclass dove vengono analizzati i meccanismi del riso e le sue cause in maniera mimica e burlesca.
Lo spettacolo è stato rappresentato a La Scala, piccolo teatro d'arte, dalla sala tutta blu, nel decimo arrondissement di Parigi. Teatro dalla programmazione aperta a tutte le correnti della creazione internazionale che non ha mai smesso di cambiare pelle. Dal 1873 al 1935 è stato un café concert che ha infiammato la Belle Epoque parigina, nel 1936 splendido cinema Art déco, dove vennero proiettati i primi film di ultimo grido in esclusiva. Nel 1972 è completamente trasformato in cinema che accoglie film porno; in seguito rischia per un pelo di diventare una chiesa battista brasilana fino ad arrivare ai tempi nostri: La Scala viene acquistata da Melanie e Frederic Biessy che la ricostruiscono e ne fanno un teatro d'arte privato al servizio della creazione. Un teatro dalle mille anime dove, forse non per caso, avviene il colloquio con l'artista Jos Houben molto noto anche in Italia: Paese che gli è particolarmente caro e per la connivenza con l'attore Marcello Magni con cui ha collaborato in diverse occasioni e per la stima particolare che tributa al savoir faire, quasi genetico e magico degli attori italiani.
Incontrarlo e parlargli nel suo camerino, attrezzato di specchio e lampadine tipiche del teatrante - e fin qui niente di nuovo - è un'esperienza speciale perché quest’artista, che si è sentito letteralmente "sbocciare" nel teatro musicale senza dialoghi del raffinato Georges Asperghis, si racconta generosamente, mimando, mettendo in scena con battuta e risposta il suo percorso costellato di personaggi importanti o casuali. Nell'atmosfera creata si respira la polvere del palcoscenico di un vecchio, caro teatro, illuminato da bagliori stravaganti, fino alla percezione di certe forme di un teatro modernissimo. La parola è "la corona”, come dirà in seguito, ma Jos Houben oltre a usare la parola con destrezza, si esprime con una comunicazione più sotterranea, semplice e "mascherata" tipica, talvolta, dei veri artisti e che riporta all'infanzia del teatro.

Lei è stato allievo di Lecoq e adesso insegna nella sua scuola. Può parlarci di questa esperienza?
Ho avuto uno shock nella mia vita quando ero all'università poiché, se è vero che ero abbastanza intelligente per gli studi universitari, tuttavia mi sentivo un po' scombussolato, mi mancava qualcosa: un giorno mi capitò di assistere a una pièce recitata da due personaggi di chez Lecoq. Fu un grande shock per me per la semplicità e l'efficacia che esprimevano questi attori. Tali forti impressioni hanno cominciato a lavorare in me e mi sono detto: "ma che ci faccio qui ancora due anni?" È stato piuttosto radicale. Anche la mia famiglia mi ha detto: "ma cosa ti prende?"."È così, vado a Parigi!”: sono partito ed è stato un vero colpo di fulmine.
Qui bisogna fare un inciso: vorrei, infatti, precisare che Lecoq ha un legame profondo con la cultura italiana. Difatti ha in qualche modo risuscitato tutti i lavori di Fo, Strehler, Sartori e soprattutto le maschere della Commedia dell'Arte e il Teatro di Siracusa, dando una nuova configurazione alle coreografie delle tragedie greche.
Lecoq era un uomo del movimento che arrivava dallo sport e anch’io mi definisco una persona che viene dal movimento: è questo che mi ha parlato. Da Lecoq non si proibisce le parola, poiché come si dice, la parola è la "corona" ma (lunga pausa, ndr) c'è il silenzio e la recitazione che egli propone non è mimo, è un modo di recitare il comportamento dell'essere umano che si vede anche e soprattutto nel teatro italiano. Ancora oggi c'è questa padronanza incredibile dell'attore italiano che secondo me è culturale, risiede nella genetica. È un savoir faire sofisticato dell'atteggiamento, del gesto, del silenzio, dello sguardo … c'è questo.

E così è partito per Parigi, si è iscritto alla scuola di Lecoq…
È una scuola di creazione e il mio proposito era questo: volevo creare del teatro, ma la condivisione era ugualmente importante. Erano due gli aspetti che ammiravo in Lecoq e in ciò che riusciva a provocare in noi. Primariamente ci ha insegnato ad essere artisti ma devo anche riconoscere che ho ricevuto un'esperienza estetica e spirituale del suo modo di condividere, sono stato connesso con un uomo che apriva le “porte” con tale efficacia che ero affascinato dalla sua aura e dalla sua pedagogia.
Sono sempre stato attratto da questo, poi ho seguito altre strade, ho “rubato” stage, work shops, ma ho sempre cercato la condivisione. Dopo sono stato attore con il Teatro Complicité e successivamente ho iniziato ad insegnare girovagando, ho inventato una masterclass, uno stage che parlava della comicità del corpo - non del clown, non della Commedia dell'Arte ma piuttosto del corpo e del suo comportamento -, il corpo fuori fase, il corpo smisurato, il corpo che non va a tempo con il nostro corpo. La mia finalità è stata doppia, non solo insegnare ma anche approfittare di tutto ciò che la gente inventava e nutrirmene: in sintesi era un luogo d'incontro.
Quindi ho aperto stage per scenaristi, fotografi, scultori e quindi non solamente per gente di teatro.

Insegnare le piace molto evidentemente.
Mi piace perché sono affascinato più dall'essere umano - ho studiato filosofia all’università - e da me stesso con gli esseri umani, che dal teatro in sé. Nel teatro ho trovato il mezzo, la maniera di esprimermi, canale che non trovavo all’università. Tuttavia non volevo essere attore tra altri attori, ce n'erano già abbastanza che erano migliori di me. Quel che mi interessa è il modo di operare, di costruire con una certa semplicità, creare universi dove accadono al tempo stesso cose comiche molto forti e assurde, magiche. Quindi ho cercato le sfide, ho insegnato nelle prigioni, a bambini sordi, mi sono prodotto nelle TV per ragazzi e poi nel teatro musicale. Ho amato molto confrontarmi con universi che non erano i miei e che potevano provocare in me (fa una pausa, ndr) il mio atteggiamento mentale. Era come scambiare e comunicare con queste persone, portare in questi diversi ambienti le mie conoscenze ed essere anch'io influenzato e contaminato da questi luoghi e persone per creare.

Ci può parlare del Théatre Complicité che nel 1985 ha rivoluzionato il modo di fare teatro in Inghilterra?
La Gran Bretagna è un'isola dove la gente ha già una cultura del teatro che è stata preservata a lungo ed è stata offerta ai lavoratori. Le persone potevano partire per il week-end, fare del tobogan, bere una birra, andare a divertirsi e fare i maghi: questo esiste dal tempo di Charlot.
Poi esiste non solo il teatro di Shakespeare e non solo a Londra. Infatti ogni città ha il suo repertorio e quindi bisogna riconoscere che c'è l'industria del teatro. Quando siamo arrivati lì quest'industria del teatro esisteva da decenni e ci siamo detti: "noi non abbiamo bisogno di testi, di scenografie, inventeremo una cosa tutta nostra” e ciò descrive qualcosa più sulla cultura teatrale in Inghilterra che su di noi. Non voglio dire che fosse geniale quello che facevamo e che producesse uno shock, ma quello che dicevano era: "oh, ma come è possibile tutto questo?". Era il lato iconoclasta del genere Monty Python. La gente reagisce a questo, non lo esclude, non lo proibisce ma lo include e dice: "bene, fanno queste cose". Quindi abbiamo recitato dappertutto poiché il British Council è un po' come l'Alliance Française che è ovunque nel mondo. Siamo stati in tournées in America Latina, negli Stati Uniti, in Malesia.
Ci sono persone che dicono: "Questo teatro va bene perché questi ragazzi non hanno scenografie, e quello che fanno è comprensibile per tutti”.

E questi erano gli anni ottanta…
Sì, questo stile che noi abbiamo inventato ora si è un po' codificato, ma ha provocato qualcosa in Inghilterra: riconoscere se stessi come autori delle nostre creazioni, senza altri scrittori, e far ridere quasi con cattiveria delle cose tristi della vita.

Uno stile che si basa sull'osservazione…
Sì, siamo partiti da un fatto di cronaca: la storia di un uomo che rimane vedovo, la storia di un lutto e della solitudine, temi molto pesanti. Osserviamo tutti i momenti della piccola giornata di questo signore che non comprende perché sua moglie si trova in un cimitero. Ogni momento della sua vita diventa il nostro stile, quindi si inizia con un’osservazione alla Tati da lontano, poi si continua con il movimento, i rumori, quindi si cade nel melodramma e infine si è nella Commedia dell'Arte. Ogni stile era un incidente nella vita di quest'uomo, ogni stile era il motore e poi, fino alla fine, c'era il silenzio. Quindi abbiamo scolpito a livello della recitazione un jeu masqué, come si dice, accompagnato da parole necessarie come nella vita pubblica. Avevamo creato questo, era questo il nostro stile.

In Francia esiste l'esperienza con il compositore contemporaneo Georges Asperghis. Mi può parlare di questo?
È indirettamente legata a Complicité, perché il fratello di Simon McBurn è compositore e entrambi siamo stati sempre affascinati dalla musica, dal teatro musicale contemporaneo. All’epoca esisteva il Mail Theater che era stato creato da Pierre Audi, attualmente direttore del Festival d’Aix, e che ci ha permesso di proporre uno spettacolo di teatro musicale che veniva dal Conservatorio musicale di Mosca e creato da Gerald dal titolo The Phantom venin. L'orchestra era sulla scena e si mischiava con gli attori. Era una rappresentazione quasi assurda sul fenomeno Paganini, la pop star del momento (Mac e Paganini). Dopo abbiamo creato un grande spettacolo cantato al Teatro Nazionale con la regia di Simon e la musica di Gerald. Il soggetto era l'universo di Dans Kharms e dei giovani artisti che gli ruotavano attorno schiacciati dallo stalinismo, i poeti dell’assurdo.

Allora cosa successe?
Elena Andreev, violoncellista russa, che suonava con Asperghis mi ha notato e gli ha detto: "ho visto un attore che ti interesserà senz'altro". Dopo due giorni venne da me, parlammo e a un certo punto mi sussurrò: "vieni a Parigi perché vorrei che tu incontrassi Georges". È andata così, non ci conoscevamo e io sono partito felicissimo perché mettevo il mio corpo al servizio di un universo musicale astratto. Adoravo tutto ciò, non c'era più il figurativo, non c'era più la narrazione e neppure la logica: in breve eravamo su un altro pianeta. Per me è stato il Paradiso, ero sui Campi Elisi, ed è stato lì che sono sbocciato davvero. Era ciò che ho sempre cercato in tutta la mia vita e, infatti, continuo a creare il mio teatro musicale.

Che cosa ha fatto ancora in questo campo?
Due anni fa ho realizzato una creazione musicale con mia moglie Emily Wilson à l'Opera Comique: La princesse légère. È una creazione musicale con Ircam.
Inoltre ho appena presentato all'Opera di Rennes un grande successo: La petite messe solennelle di Rossini. Adesso sto creando con il Quatuor Leonis una pièce di teatro sulla vita di un quatuor a corde e sugli dei che sono costretti a suonare Schubert et Beethoven. Devo dire che l'80% del mio tempo è applicato al teatro musicale.

E il comico in tutto ciò?
Il comico ha funzionato talmente bene che tutti credono che io sia il re della risata… lungi da me questo. Tuttavia L'Art du Rire è come una partitura con una ouverture, un adagio, un presto: è strutturato con un po’ di sentimento alla fine. Ciò che mi piace in questa cosa è il fatto che l'ho costruita io; al contrario l’averla recitata non è troppo affare mio, (ride, cambia tono, ndr) mi piace molto ma sono anche contento che finisca. Non sono un amuseur professionista.

Va bene. Vogliamo parlare della sua esperienza con Peter Brook, Fragments de Beckett?
Con Peter Brook ci conoscevamo dal momento che eravamo nello stesso ambiente. Dopo aver portato L'Art du Rire per la prima volta al Théatre Samovar di Bagnolet - specializzato nel teatro burlesco -, un’amica - Clara, assistente di Peter Brook - mi vidi e mi segnalò al Maestro. Ci incontrammo e lui mi disse: "Ho sentito dire che fai qualcosa di interessante sul riso …. Ora vieni a farlo da me”.

E lei cosa gli ha risposto?
Gli ho risposto di no, ma Peter Brook non ama che gli si dica di no (lo dice abbassando la voce, ndr). Allora ho telefonato à Micheline, all'epoca direttrice delle Bouffes du Nord e l'ho incontrata. Abbiamo chiacchierato e dopo molto molto whisky e molte sigarette mi ha convinto. Così abbiamo scelto insieme con Marcello Magni e Geneviève Mil Frammenti di Beckett e abbiamo proposto - come dire? - un bouffet Beckett.
Nel tempio Les Bouffes du Nord, così carico di esperienze, non si può barare quindi non si può rifare L'Art du Rire, quindi occorre trasformarlo in un'altra cosa: l'impacchettamento del comico. Credo, infatti, di toccare nel pubblico qualche cosa di diverso, è sempre questo l'ingrediente magico a casa di Peter Brook, ma è molto molto nascosto.

Maria Pia Tolu

Ultima modifica il Domenica, 17 Maggio 2020 10:27

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