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INTERVISTA a MARGHERITA PALLI - di Michele Olivieri

Margherita Palli. Foto Francesco Maria Colombo Margherita Palli. Foto Francesco Maria Colombo

La sua formazione avviene tra la Svizzera e l’Italia, nel 1976 si diploma in scenografia all’Accademia di Belli Arti di Brera. Nello stesso anno collabora con Luigi Pestalozza per la mostra iconografica dedicata all’opera “Orfeo ed Euridice” in occasione del Maggio Musicale Fiorentino. Fino al 1978 è assistente dello scultore Alik Cavaliere. Nel 1979 lavora con Pierluigi Nicolin all’allestimento delle mostre della Galleria del Disegno per la XVI Triennale di Milano. Dal 1980 al 1984 a Parigi è assistente dell’architetto Gae Aulenti per alcuni spettacoli teatrali e lavora due anni al progetto museografico del Musée d’Orsay. Nel 1984 apre il suo studio e con “Fedra” di Racine al Teatro Metastasio di Prato inizia la lunga collaborazione con il regista Luca Ronconi per il quale ha realizzato le scenografie di più di sessanta spettacoli sia per il teatro di prosa sia per quello lirico. Tra questi, oltre a quelli per cui ha ricevuto il Premio Ubu per la scenografia, quali “Le due commedia in commedia” di Giovan Battista Andreini (Venezia, Biennale Teatro; Roma, Teatro Argentina, 1984), “Ignorabimus” di Arno Holz, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” di Carlo Emilio Gadda e “Lolita”, si segnalano “I Dialoghi delle Carmelitane” di Georges Bernanos, “Tre sorelle” di Anton Checov, “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello e la “Trilogia greca” per il Teatro Greco di Siracusa. In ambito lirico, sempre per la regia di Ronconi, riscuotono grande consenso i suoi progetti scenici per “Lodoïska” di Luigi Cherubini, “Il caso Makropulos” di Leóš Janáček, “La damnation de Faust” di Hector Berlioz, “Tosca” di Giacomo Puccini e “Capriccio” di Richard Strauss. L’ultima collaborazione in ordine cronologico tra Margherita Palli e Luca Ronconi avviene in occasione della messa in scena della “Lucia di Lammermoor” nel 2015. Attraverso questa collaborazione decennale si definisce in maniera sempre più compiuta ed evidente la concezione architettonica dello spazio teatrale pensato dalla Palli. L’impianto scenografico fisso e mobile, a volte colossale come ne “Il caso Makropulos” o “La damnation de Faust” viene distorto suggerendo una dilatazione del contesto spazio-temporale. Lo spettatore, pur ritrovando nell’invenzione scenica dei riferimenti spaziali, è lasciato libero di immaginare luoghi e ambientazioni, come nell’allestimento per “Sogno di una notte di mezz’estate” (Milano, Piccolo Teatro, 2008) in cui le parole giganti che lo compongono evocano luoghi simbolici e al contempo diventano oggetti di scena su cui gli attori volano, salgono o siedono. Nel corso degli anni, oltre che per Ronconi, Margherita Palli ha progettato scenografie per i registi Mauro Avogadro, Andrea Barzini, Franco Branciaroli, Liliana Cavani, Cesare Lievi, Valter Malosti, Mario Martone, Leo Muscato, Davide Rampello, Alexander Sokurov e per i coreografi Yang Jiang e Daniel Ezralow. All’attività di scenografa affianca la progettazione di allestimenti per eventi della moda, del design e mostre d’arte in importanti musei italiani, tra cui il Palazzo Reale di Milano, Palazzo Pitti a Firenze, Palazzo del Quirinale e le Scuderie del Quirinale, la Reggia Venaria Reale la Triennale di Milano.

Gentile Margherita, grazie alla collaborazione con Luca Ronconi ha creato le scenografie per moltissimi spettacoli realizzati dal compianto regista, seguendolo nelle diverse tappe del suo lavoro in vari teatri in Italia e nel mondo, dalla Biennale di Venezia al Piccolo Teatro di Milano, dalla Scala all’Opera di Roma, e poi al Maggio Musicale Fiorentino, al Festival di Salisburgo, alla Monnaie di Bruxelles, a Zurigo, al Teatro Greco di Siracusa, al NNT di Tokyo. Com’è stato lavorare al suo fianco e cosa le ha lasciato come eredità in termini umani ed artistici?
Un’avventura che è durata tanti anni, iniziata per caso e finita con l’ultimo spettacolo “Lucia” (lui era morto da poco). L’eredità in termini artistici credo sia un grande regalo, ho trascorso al suo fianco ore ed ore seduta nel buio ad assistere alle prove... prosa, lirica e anche mostre, ho imparato una disciplina e l’amore per il teatro. Era un uomo geniale e dalle mille curiosità, con un carattere non facile e con una dedizione totale al lavoro, e una capacità di concentrazione e memoria incredibili. Ciò che mi ha insegnato maggiormente durante le prove è l’osservare tutto, anche le più piccole e insignificanti cose. L’eredità in termini umani: non parlavamo molto, non ci davamo confidenza a vicenda, credo ci si rispettasse nelle nostre differenze/similitudini. Capivo da come mi chiamava se era contento di quello che stavo facendo: Marghe era quando andava bene, quando avevo capito cosa voleva, Marisa nei momenti peggiori!

Per il suo lavoro, lei ha vinto numerosi premi, tra cui sei volte il Premio UBU, il Premio Abbiati, il Premio Gassman, il Premio ETI gli Olimpici del Teatro, il Premio Associazione Nazionale dei Critici di Teatro ed è entrata nel Guinness World Records con il muro di schermi più grande del mondo. La sua creatività da dove nasce, quali sono gli spunti da cui trae ispirazione?
Da tutto, direi che quando mi viene dato un tema inizio a cercare, curiosare, esplorare un mondo che sovente è nuovo e sconosciuto, un gioco divertente... la parte più intrigante del mio lavoro!


Il suo Archivio, nel 2003, è stato donato al Piccolo Teatro di Milano. In cosa ritrova l’eccellenza nello storico teatro milanese e da cosa è composto il suo lascito?
Il mio Archivio dal 2000 è in deposito al Piccolo Teatro, comprende tutta la parte cartacea sino al 1998, poi ho iniziato a disegnare con il computer, credo in Italia di essere stata una delle prime. Ricordo che un archivista del Comunale di Firenze mi fece delle storie per archiviare i miei bozzetti, voleva quelli a tempera, mi fece scrivere da un avvocato. Una storia impensabile nel resto del mondo!! L’Archivio che ho donato comprende disegni, schizzi, piante, esecutivi, appunti, note varie, libretti di sala. Non sono un gran conservatrice delle mie cose, ma sicuramente in quelle polverose scatole si ritrova il percorso di alcuni spettacoli che ho fatto, e forse alcune fotocopie si sono pure sbiadite. Oggi è tutto molto più facile: fai una foto, la memorizzi nel telefonino, mandi una email e tieni il disegno nel computer... “archivi nella nuvola”!

Un’altra sua autorevolezza è data dall’insegnamento in Scenografia in prestigiose realtà come la Nuova Accademia di Belle Arti a Milano, l’Università IUAV di Venezia e l’Accademia di Architettura dell’Università della Svizzera Italiana a Mendrisio. Qual è la maggior gratificazione nel ruolo di docente?
Sono arrivata all’insegnamento per caso, Franco Quadri aveva fatto il mio nome a Gianni Colombo che dirigeva la Naba, Varisco che insegnava e aveva fondato andava in pensione. Era un momento in cui non avevo tanto lavoro, pensavo di restare poco, sono ancora lì ed ho scoperto che mi piace. Una parte della mia famiglia insegnava, forse era già nel DNA. Mi piace veder crescere, scoprire il talento di uno studente, fargli scoprire un talento che non sapeva di avere. Averli attorno mentre lavoro nei teatri o nelle mostre e a scuola: i miei collaboratori sono solo miei ex studenti. Quando riesco a trasmettere una passione per il disegno, per lo spazio, per il teatro... mi gratifica particolarmente. Ora i teatri sono chiusi e le mostre ferme, ma abbiamo fatto fare agli studenti stage in tutti i settori dello spettacolo: dalla Scala a X- Factor. Sono una docente severa e con gli studenti mi comporto come fossimo nel mio studio privato, non transigo sulle mancanze, sulla superficialità nella ricerca, e sulla buona educazione.

Lei è nata in Svizzera, nel canton Ticino, in una nazione con quattro identità ben distinte, quella tedesca, francese, romancia, italiana. In cosa ritrova la massima espressione architettonica, e se vogliamo scenografica, nel suo Paese?
Nel Cervino direi, la montagna perfetta! Amo i monti, sono nata in Ticino, cresciuta vicino ad un lago che al nord ha le Alpi e a sud il mare. Non facciamo solo orologi e cioccolata! Adolphe Appia era svizzero e ci sono parecchi artisti nelle quattro regioni, certamente non abbiamo avuto il Rinascimento, ma abbiamo la guardia personale del Papa, siamo un popolo strano: lingue, religioni diverse però con un grande senso della patria e un amore forte per il proprio Paese.

In qualche modo però Milano è la sua seconda casa, cosa la affascina maggiormente del capoluogo lombardo?
Milano è la mia seconda città del cuore, mio papà mi ci portava spesso e l’amava molto, ed io ero convinta che in fondo a Corso Matteotti ci fosse il mare. Sono arrivata l’8 ottobre del 1968, ho abitato un po’ a Parigi ma poi sono tornata. Cosa mi affascina a Milano? So di non essere politicamente corretta però mi conquista il cemento. Sono cresciuta in una città verde e cioè Lugano, mia città del cuore numero uno. Se fossi più giovane e volessi cambiare, sceglierei di vivere a Tokyo, avevo anche cercato casa lì... o Berlino! Amo Milano, mi piace percorrerla camminando alla scoperta di nuovi posti, adoro fare shopping! Sono fortunata perché abito e lavoro in una casa con giardino che ha sistemato mio marito per me... era la vecchia Galleria di De Carlo dove Cattelan aveva tenuto le prime mostre, alle spalle del mio computer si trova la parete dove lui aveva scocciato il gallerista.

Mi racconta il suo percorso, come nasce, da quale esigenza, da quali sogni...
Volevo fare il veterinario, quello per animali grossi, tipo le mucche! Avevo schifo del sangue e mio papà mi scoraggiò e mi spinse ad intraprendere una cosa che sapevo fare bene: disegnare! In seguito all’Accademia di Brera per il corso di Scenografia (ammetto che non mi divertivo, era troppo tutto stile Ottocento) frequentavo l’aula di scultura di Alik Cavaliere che mi appariva più attuale. Cavaliere è stato il mio vero Maestro! Per un po’ di anni sono stata il suo “ragazzo di bottega”, volevo diventare uno scultore... un giorno Alik mi disse che fare lo scultore per una ragazza era un percorso difficile. Dovevo pur vivere e guadagnare dei soldi! Mi ero già sposata con mio marito, l’Arch. Italo Rota, che all’epoca lavorava da Gregotti e anche alla rivista “Lotus” e lì incontrai l’Arch. Pierluigi Nicolin, il quale dirigeva un settore della Triennale a Milano. Andai a lavorare da lui in Triennale alla XVI presso la galleria del Disegno, credo aprimmo a settembre del 1979, mi piaceva, mi divertiva fare mostre e con lui imparai a studiare, ad applicare un rigore, un’attenzione a cosa si espone, a non essere mai banali e casuali... è stato il mio secondo Maestro! Finalmente avevo capito cosa avrei fatto nella vita, il teatro lo praticavo solo da spettatore ed ero felice così.

Come è arrivata poi al teatro, chi l’ha introdotta e si ricorda il suo primissimo lavoro in tale ambito?
Nel 1980, Gae Aulenti, con cui mio marito stava realizzando il concorso per la Gare d’Orsay, doveva fare “Donnerstag aus licht” alla Scala e aveva bisogno di una persona per realizzare i bozzetti, e sapeva che avevo studiato scenografia. Ho lavorato con lei sul progetto (regia di Ronconi) e abbiamo debuttato nel marzo 1981. Mio marito era partito per Parigi per il piano Orsay e la Aulenti necessitava di una figura che facesse delle visualizzazioni (oggi si chiamano render) e così sono partita ed ho lavorato a Parigi sino ad agosto del 1984. Ronconi mi aveva fatto firmare “Fedra” nella primavera del 1984, ma lavoravo anche per Orsay, l’unico mio desiderio di quel periodo era rientrare a Milano. Ronconi alla fine del 1983 si trovava a Parigi al Garnier, e mi chiese di collaborare per due spettacoli l’anno successivo in Italia. Mi mise nella condizione di scegliere liberamente: se avessi scelto però di fare lo scenografo non avrei potuto certamente continuare ad essere una pendolare su ambiti, e paesi diversi. Ho lavorato nello studio Aulenti sino al 30 luglio del 1984 e sono tornata a Milano. Un momento difficile per la mia vita privata e professionale. Devo dire che nonostante tutto sono partita felice per la città del mio cuore, per tornare dai miei amici. Confesso che non ho amato molto Parigi, può sembrare una snobberia ma non fa parte della mia idea di metropoli, troppo romantica per i miei gusti.

Cosa significa nel suo mestiere l’uso dello spazio? Che valore da al luogo indefinito ed illimitato?
È una costrizione ma anche uno stimolo, parto sempre dalla pianta nei miei lavori ed osservo lo spazio dalla platea o da dove lo vedono gli spettatori, stresso i miei assistenti quando mi presentano piante senza la platea. Ogni volta è una sfida! Una partita da vincere contro lo spazio che non è mai abbastanza grande per le cose da realizzare …ma giocando bene le proprie carte si ha la possibilità di muovere, incastrare, ruotare, far sì che il tuo spazio ideale diventi tridimensionale; ma tutto ciò è possibile solo partendo dalla pianta!

Lo spazio è quel posto o meglio quel contenitore cui pensiamo radunate tutte le cose materiali. Ma non è esattamente così, lo spazio appartiene anche all’estensione illimitata... Lei come si relaziona con lo spazio scenico, da dove parte?
Inizio dall’idea del regista e cerco di sfondare quella che si chiama la “quarta parete”, mi piace far muovere le mie scene, mostrare allo spettatore visioni differenti dello stesso luogo con un’estensione illimitata dello sguardo... è sempre una partita a tennis con il regista, per fortuna professionalmente ho avuto incontri solo con dei “Roger Federer”!

Qual è lo spazio differente dal teatro di tradizione in cui ritrova particolare fascino per una forma di spettacolo?
Nelle mostre, allestirne una e raccontarne l’avventura dell’artista, del luogo, far percorrere al visitatore una storia all’interno di uno spazio e del percorso!

Che valore ha dato nel corso della sua storia artistica ed anche personale alla ricerca. Quale suggerimento per i tanti allievi nelle diverse discipline?
Studiare, curiosare, assorbire e non aver vergogna di pescare in tutti gli ambiti… memorizzare immagini e usarle. Oggi è tutto più facile. Personalmente sono molto Nerd, nonostante l’età passo il tempo a cercare nell’etere, stimolando i miei studenti a fare altrettanto. Uno degli esempi che porto spesso – mettendo a confronto le immagini – sono dei frame sui film di George Lucas in cui si trovano riferimenti pazzeschi, dall’antico Egitto al design italiano, passando per le illustrazioni americane al Lago di Como.

Mentre della luce cosa mi racconta? Elemento che in ambito teatrale mi affascina sempre e comunque?
La regia nasce quando si inizia a fare buio in sala, sembra un paradosso ma la luce ha generato in parte la nascita della figura del regista e dello scenografo moderno (Appia insegna).

Cosa ne pensa della consuetudine degli ultimi anni, in ambito teatrale, di lasciare il palcoscenico nudo e di usare le video installazioni per ricreare (o sostituire) la scenografia? È solo una questione economica o a volte è proprio dettata da una personale visione?
Lo spazio è lo spazio, il video è il video... non credo sia più economico se fatto bene. Diventa interessante se è una visione dettata dal regista all’interno della drammaturgia, altrimenti rimane solo lo sfondo di una vetrina. Sovente la moda usa meglio questi mezzi. Nel 1987 Luca Ronconi attuò “I dialoghi delle Carmelitane” al Teatro Storchi a Modena con l’uso di alcuni filmati... non è una novità! Penso che i mezzi moderni tecnologici vadano usati con sapienza e non solo per fare “moderno”. Ad esempio “Il barbiere di Siviglia” realizzato da Martone il 5 dicembre di quest’anno all’Opera di Roma, è la testimonianza che si può fare un’opera con i mezzi “moderni” rispettando la musica e la storia, dando però un senso a quello che si fa. Le corde che vengono tagliate alla fine sono la speranza per il pubblico davanti alla televisione di tornare in sala... ma sono anche un bel colpo di immagine contemporanea, un gesto forte!

In psicologia esiste una teoria secondo la quale i colori detengono un significato oltre ad esserci di totale utilità nella vita quotidianità. Lei come si relaziona sia in ambito privato che in quello professionale con il colore?
Amo tutti i colori, li uso nelle mie scene secondo il bisogno, nella vita adoro il verde e i toni del blu... mi vesto raramente di rosso, ma questa è un’altra storia.

Con Gae Aulenti ha lavorato per due spettacoli di Ronconi ed in seguito – come già sottolineato – in tandem per la Gare d’Orsay. Che esperienza è stata quella di creare uno tra i Musei più famosi al mondo dal recupero di una vecchia stazione ferroviaria?
Riusare gli spazi mi sembra una cosa interessante ed era di quegli anni la grande divulgazione dell’archeologia industriale… Orsay appariva come uno spazio avvincente, davanti al Louvre, un luogo carico di storia, credo che l’idea di farne un Museo fosse iniziata negli anni Settanta. È stata anche una grande scenografia!

Il minimalismo da quale esigenza nasce?
Da un senso personale, da un’idea di spazio che si racconta con solo gli elementi strettamente necessari, alcune volte sono pochi, altre volte tanti.

Come percepisce la bellezza in generale, quali sono i suoi parametri di valutazione o di gradimento?
Amo le cose belle ma il criterio di bellezza è soggettivo e cambia secondo le epoche, i paesi e i momenti storici.

Mi piacerebbe che mi raccontasse nel dettaglio del suo lavoro applicato al balletto, esperienza recente alla Scala “Lo Schiaccianoci” di George Balanchine (© The George Balanchine Trust). Com’è nata questa sua collaborazione?
Non faccio sovente i costumi (Ronconi insisteva sempre, li ho preparati una sola volta per lui), non avevo mai fatto un balletto classico... da piccola detestavo quando mia mamma mi costringeva ad andare alla scuola di danza a Lugano, ero negata e soprattutto non interessata. Le mie esperienze come scenografo-costumista nel balletto erano solo due, e non nel classico. Però quando Alexander Pereira (l’ex Sovrintendente della Scala) mi ha chiamato e mi ha chiesto scene e costumi per lo “Schiaccianoci” ho risposto di sì... ed è iniziata un’avventura divertente, in un continuo confronto con il “Balanchin Trust”, alcune volte faticoso!

Come si è accostata ad un genio della coreografica come Balanchine ma soprattutto ad uno tra i balletti per eccellenza, un classico intramontabile con le immortali musiche di Čajkovskij?
Ho cercato di rispettare tutte le richieste, ho letto, curiosato e mi sono avvicinata alla danza con maggiore amore. L’aspetto che ho rispettato di più è stata la pianta della coreografia... sono partita da lì, ancora un volta dalla pianta è nato tutto! Poi sono passata alla realizzazione: i mitici laboratori della Scala mi hanno aiutato per le scene, e molto anche per i costumi, perché il corpo del ballerino ha più esigenze ovviamente di un attore o di un cantante.

Come è stato lavorare con il Direttore Frédéric Olivieri?
Fantastico, anche lui mi ha aiutato moltissimo mediando le richieste del Balanchine Trust che conosce bene, e aiutandomi particolarmente sui costumi, tagli, lunghezze, eccetera... sulla mia inesperienza.

Mentre con il Corpo di Ballo e gli Allievi della Scuola scaligera?
Un’esperienza nuova, soprattutto con gli allievi, i più giovani... un mondo di piccoli militari. Con i grandi il confronto c’è stato a riguardo delle loro esigenze, mai casuali, e mai dettate da un capriccio.

L’Orchestra era diretta da una persona a me molto cara, il Maestro Michail Jurowski, come si combina la musicalità con la scenografia, se esiste tale nesso?
Lo spazio deve andare in sintonia con la musica, con la parola, il Maestro Jurowski è davvero bravissimo.

Nello Schiaccianoci qual è l’aspetto che l’emozione maggiormente, nella narrazione e nella rappresentazione del sogno?
La partenza di Marie e dello Schiaccianoci per la foresta... e la danza dei fiocchi di neve!

Lavorare alla Scala quale magia riserva?
Lavorare in un posto magico o stregato – come dice una mia amica scaligera – è sempre un privilegio!

Per la danza ha lavorato anche con i coreografi Yang Jiang e Daniel Ezralow. Per quali lavori e cosa l’ha entusiasmata nelle loro creazioni?
Con Ezralow e con la regia di Davide Rampello ho fatto i costumi per il 382° Festino di Santa Rosalia, una storia fantastica, con lui si prova la totale libertà della creazione, uno sguardo moderno ed attuale... nella scelta dei costumi, un ballerino e un uomo straordinario! Con Yang Jiang un danzatore cinese ma di formazione classica ho progettato le scene con i miei studenti di “Puzzle Me” per Expo 2015, ballerini scelti in numerose nazioni; un musicista cinese in scena, un consulente artistico del governo/università cinese: un mix di storie e tradizioni diverse!

Fra i suoi ultimi lavori alla Scala, da non dimenticare, il meraviglioso allestimento per l’opera “Chovanšcina”, immagino particolarmente laborioso?
Uno spettacolo che ho amato molto. Quando Martone mi ha dato le indicazioni ho avuto paura di non riuscire... avevo un fil rouge di quella stagione (Schiaccianoci) la neve e da lì sono partita, risalendo la china con le ciaspole... poi le immagini, la pittura russa, i film, e alla fine i bozzetti.

Qual è il biglietto da visita dell’Accademia di Belle Arti di Brera, luogo in cui lei si è diplomata?
Il luogo stesso, la statua di Napoleone!

Ha vinto anche il Premio Svizzero di Teatro nel 2015, nel suo Paese com’è vissuto il teatro a livello culturale, politico e sociale?
Nel mio Paese lo Stato dona un premio cospicuo ogni anno a dei teatranti, ed è il Ministro della Cultura che lo consegna di persona. I premiati sono scelti da una giuria selezionata e risultano trasversali. Quando ho vinto io, hanno premiato inoltre con il Gran Premio alla carriera Stefan Kaegi che ha fondato i “Rimini Protocol”. È un premio che viene dato anche per il cabaret, la danza, il teatro comico e clownesco.

Nella sua carriera ha realizzato le scene di molti importanti spettacoli. Le elenco qualche titolo e lei lo accoppia ad un aggettivo.
Fedra?
INCUBO. I viaggi in vagon lit da Parigi a Milano e poi a Prato... un incubo!

Signorina Giulia?
RISPARMIO. Una meravigliosa esperienza con il regista, e il confronto con una scena minima ma che per il teatro che produceva era uno sforzo economico. L’incubo di non sbagliare, di non sprecare un cent.

Il nome della rosa?
CONFRONTO. Il confronto con il celebre film di Jean-Jacques Annaud.

Falstaff?
LA MISURA. Quello di Salisburgo è stato una grande esperienza. Un confronto con un boccascena di 33 metri.

Carmen?
FELICITA. La felicità di lavorare sul tema del circo (io adoro questo genere, il Circo Knie è una parte di noi bambini svizzeri).

Andrea Chénier (spettacolo che ha inaugurato la stagione in Scala nel 2017)?
FATICA. La paura, la fatica di arrivare ad una soluzione che andasse bene al regista, al direttore, al teatro... un 7 dicembre scaligero è pur sempre una grande sfida!

Macbeth?
CONFRONTO. Il confronto con un regista che è anche un grande attore, la fatica di lavorare per regista/attore.

La cena delle beffe?
DIVERTIMENTO. Il divertimento della complicità con il direttore degli allestimenti, Franco Malgrande, e i laboratori per creare un piccolo edificio che spariva nel sotto palco, pur essendo realizzato badando a tutti i particolari, solo in Scala riesci ad ottenere un miracolo del genere. Creare un film di Martone!

Santa Giovanna dei macelli?
LA PROVA. Chiudere degli attori in barattoli di carne.

Mercante di Venezia?
INCUBO. Quello di Parigi l’incubo nei sogni dei sipari e la voglia di tornare per sempre a Milano. Quello invece di Milano la sfida di lavorare nel teatro nudo.

Baccanti?
TORNARE. Siracusa... e poi finalmente Milano, e in seguito Lione.

Lear?
COSTRUIRE. La macchina scenica e le indicazioni di Ronconi... la struttura pericolosa ma gestita magnificamente dai costruttori.

Armida?
L’ULTIMO. Pesaro: l’ultimo spettacolo con Ronconi… poi “Lucia” ma lui non era più con noi.

Incoronazione di Poppea?
IL CAOS. Il divertimento di creare una scena, da Roma antica alle periferie Pasoliniane.

E tanti tanti altri ancora, la lista sarebbe quasi interminabile. Tra tutte le sue produzioni a quale è particolarmente affezionata è perché?
“Lodoiska”, il perché non lo so, ma sicuramente era lo spettacolo più difficile che affrontavo. Indicazioni di regia precise, approvazione del Maestro Muti, la costruzione... e il terrore la sera della prima che il ponte non si dividesse! Ma alla Scala anche il palcoscenico è magico.

Per creare una scenografia da cosa parte? Come riesce a contestualizzazione al meglio la progettualità?
Ogni volta da una cosa diversa, ma è sempre dal foglio bianco e dalla paura di non riuscire.

Il vero limite di qualunque atto creativo, non solo del fare scenografia, è il non avere dei limiti. Si ritrova in questo pensiero?
Non mi pongo mai limiti... se non il rispetto per le indicazioni del regista!

Cosa rende poetica la sua professione?
Che si gioca a creare dei castelli di sabbia che prima o poi vengono distrutti, e resta la memoria.

A suo avviso perché la scenografia di oggi (senza generalizzare) risulta spesso inconcepibile od incomprensibile?
Lo è sovente quando la regia non trasmette un’idea, e succede purtroppo quando si pensa solo a stupire.

Esiste ancora un codice estetico condiviso o la rottura del modernismo ha frammentato ogni convergenza stilistica?
Non credo esista, o forse non è mai esistito...


La diseducazione generalizzata alla bellezza, a cosa ci porterà?
Al futuro! La bellezza del domani sarà meravigliosa, è sempre stato così, i nostalgici sono stati attivi in ogni epoca...

La scenografia è teatro, lo scenografo è anche un regista... l’architetto Aldo Rossi diceva “l’occasione, la fortuna, l’ora che passa”. Lei si è sempre trovata al posto giusto al momento giusto? Crede nella fatalità del destino?
Lo scenografo non è un regista, è parte di un team di creativi. Penso di aver incontrato uomini straordinari che mi hanno aiutata. Ho avuto la fortuna di essere al posto giusto nell’ora giusta, diciamo che mi è andata bene, potevo essere in un alpeggio a curare le mucche! Il destino è tutto... non lo si deve mai sprecare!

Ritornando alla danza e al balletto mi racconta il valore (con tutti gli annessi e i connessi) della nascita dei “Balletti Russi” di Diaghilev e del suo intuito nello scovare nuove correnti, nuove mode e nuove menti creative?
Credo che il momento dei “Balletti Russi” sia tra quelli più straordinari. L’inizio del secolo breve è stato fantastico in tutti i campi!

Secondo la sua esperienza, quanta importanza i registi e le produzioni riservano alla scenografia in ambito teatrale?
Il regista deve possedere un’idea per ricucire la storia, la musica allo spazio e agli esseri umani che recitano e suonano... la produzione se è lungimirante non è solo quella che paga ma quella che accetta di partecipare ad un’idea, ad una sfida. Senza il produttore “Teatro Regionale Toscano” e la sua direttrice Nunzi Gioseffi la storia del teatro non avrebbe avuto “Ignorabimus”, solo la testardaggine di Gioseffi ha permesso che andassimo in scena dopo quattro mesi di prove!

Cosa si sente di suggerire a coloro che desiderano intraprendere come professione il lavoro dello scenografo?
Studiare, lavorare, sognare e girare il mondo…. Covid -19 permettendo!

Ha qualche consiglio da regalare a chi invece, pur facendo teatro (o per la danza nei saggi di fine anno) a livello amatoriale, vuole curare attentamente anche l’aspetto scenografico delle proprie messinscene?
Ho amiche che fanno teatro amatoriale, e vanno a teatro regolarmente! Fanno cose semplici ma curate. I costumi dei “Legnanesi” sono stupendi, e la scena è volutamente naif, va bene così... non si deve insegnare niente a chi fa un lavoro spinto dalla vera passione!

Secondo lei c’è spazio per una modernità, una concettualità artistica anche nella lirica o nei grandi balletti del repertorio classico accademico di tradizione senza scontrarsi mai con la storia e con i puristi?
Sì sicuramente, si deve guardare avanti, i “Balletti Russi” o il “Bauhaus” insegnano, i puristi sono solo noiosi e guardano al passato!

Attualmente, anche per via dell’emergenza sanitaria in atto, quale crede sia lo stato del teatro (in senso lato)?
Il teatro ci sarà sempre e andrà avanti, “Histoire du soldat” è nato in Svizzera nel 1918 durante l’epidemia della Spagnola!


Per concludere, nelle vesti di scenografo, qual è la dote migliore ed imprescindibile di tale professione, che trasmetterebbe ai suoi allievi?
La passione per il lavoro, per un lavoro che per me è il mio vero unico hobby, la voglia di pensare a mettere in scena un classico greco, un’opera di Verdi o il compleanno di Striscia la Notizia con la stessa medesima passione!

Michele Olivieri

Ultima modifica il Venerdì, 11 Dicembre 2020 10:02

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