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SIPARIO RECENSIONI: Norese Marianna

Menzionato Prosa - Marianna Norese

Ciò che vide il maggiordomo - regia Giorgio Gallione
Orazi e Curiazi - regia Fabrizio Arcuri
The End - regia Valeria Raimondi, ENrico Castellani

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Ciò che vide il maggiordomo
Orazi e Curiazi
The End

Ciò che vide il maggiordomo di Joe Orton
Coproduzione Teatro Stabile di Genova e Teatro dell'Archivolto
Regia di Giorgio Gallione
Scene e costumi di Guido Fiorato, Luci di Sandro Sussi
con Ugo Dighero, Mariangeles Torres, Mariagrazia Pompei, Pier Luigi Pasino, Antonio Zavatteri, Mauro Pirovano
Teatro Duse di Genova, 13 aprile 2012
Pareti tappezzate di radiografie e alti tulipani rossi delineano lo studio del dottor Prentice, psichiatra di mezza età, tormentato da una moglie ninfomane e imbranato seduttore di giovani pazienti. A capitare, suo malgrado, sul lettino del dottore è la signorina Geraldine Barclay, durante
il colloquio da aspirante segretaria.
Questa la premessa da cui parte il delirio drammaturgico di Joe Orton. La dark comedy, ambientata significativamente in una clinica psichiatrica, racconta una storia fatta di relazioni umane intrise di psicosi: ossessione per il sesso, perversioni, violenze carnali, megalomania. Il testo è incredibilmente attuale: solamente "le mille battute al minuto" della signorina Barclay tradiscono il periodo in cui è stato concepito.
A movimentare il ménage à trois, entrano in scena Nick, il fattorino della locanda scozzese che minaccia Mrs. Prentice con fotografie che la ritraggono durante il loro amplesso mattutino, e il dottor Rance, ispettore mandato dal governo per risolvere le anomalie e le strane sparizioni che ruotano intorno allo studio del dottor Prentice. Con sadico rigore e granitiche deduzioni, arringate dall'alto di una sedia, l'ispettore tenta di ristabilire l'ordine, con l'aiuto del sergente Match.
Orton mescola ad arte tutti gli elementi della commedia classica: scambi di costume e di identità, incomprensioni che portano ad assurdi e spassosi colpi di scena, agnizioni finali: Geraldine Barclay e il fattorino Nick si scoprono gemelli partoriti e abbandonati da Mrs Prentice dopo la violenza subita vent'anni prima nella locanda scozzese.
Attraverso la lente della farsa ogni reazione è capovolta: l'incesto svelato è risolto con un tenero e
sognante "mamma!" indirizzato da Nick-Edipo a Mrs. Prentice, la quale vive la scoperta che lo stupratore che la violentò è in realtà suo marito come momento catartico in grado di rimettere insieme i cocci del loro matrimonio.
Tra siringoni, camicie di forza, creste punk, vestiti in lattice e pistole la commedia arriva al suo climax, denunciato brechtianamente dagli stessi personaggi. Fedele al gusto ortonesque, invece di
finire con il quadretto della famiglia felice e ritrovata, la pièce termina con il ritrovamento di un altro pezzo mancante: la scatola contenente il fallo della statua del premier britannico ritrovato nelle ceneri della madre adottiva della Barclay. Ultimo colpo di scena che sancisce il fil rouge dell'intera vicenda, secondo cui nulla è ciò che sembra: nella scatola c'è solo un sigaro.
La regia di Gallione e la verve comica degli attori, in particolare di Ugo Dighero, mantengono alto il ritmo drammatico e il gusto kitsch dell'ambientazione. L'erezione dei tulipani all'ingresso della signorina Barclay denuncia, fin dalla prima scena, il forte contrasto tra ironia demenziale e la violenza agita e subita dai personaggi.

Marianna Norese

Orazi e Curiazi di Bertolt Brecht
Produzione Accademia degli Artefatti
Regia di Fabrizio Arcuri
Scene di Andrea Simonetti, Costumi di Marta Montevecchi, Luci di Diego Labonia
con Miriam Autori, Michele Andrei, Matteo Angius, Emiliano D. Barbieri, Gabriele Benedetti, Fabrizio Croci, Pieraldo Girotto, Francesca Mazza, Sandra Soncini
Teatro della Tosse di Genova, 14 aprile 2012
Lo spettacolo si apre con un lungo preambolo post-atomico: personaggi vestiti con tute bianche e maschere anti-gas ispezionano una stanza che è un'accozzaglia di emblemi comunisti, tra ritratti di Lenin e Che Guevara. Uno di loro piange al ritrovamento di alcune bandiere dei Cobas.
Al termine di questa indagine rarefatta, gli attori entrano in scena, guidati da un giudice-narratore
vestita con un abito all'orientale, e si assegnano le parti: chi fa gli Orazi, chi i Curiazi.
Quello che salta subito agli occhi è il tentativo di rispettare lo straniamento brechtiano con uno stile recitativo volutamente abbozzato, imbarazzato, pieno di parole dette a mezza voce. L'entratauscita dal personaggio e dalla situazione drammatica è solo accennata, alla continua ricerca di una qualche approvazione che il compagno di scena o il pubblico stesso non è in grado di dare.
Il conflitto tra Orazi e Curiazi, Roma e Albalonga, si riduce ad una simulazione che ha la noia del gioco di ruolo vissuto da spettatore. La convenzione teatrale non regge, il pubblico non ci crede e si lascia trasportare a fatica lungo le tappe della storia.
La scena in cui alla giovane Camilla viene riferito della morte del promesso sposo curiazio è sottolineata dalla bellissima e ormai inflazionata aria di Händel Lascia ch'io pianga: scelta facile e didascalica.
L'utilizzo della videocamera che proietta in diretta su un grande schermo ciò che avviene hic et nunc sul palcoscenico risulta ridondante. Lontano dal valore di ricerca sulla realtà e il suo doppio, diventa una trovata, un tappabuchi.
Gli attori paiono buttati sul palcoscenico in balia di una messinscena improvvisata che non li supporta e all'insegna di una finta indifferenza a ciò che sta accadendo. Viene da pensare se valga la pena questo consistente dispiegamento di forze (nove attori in scena sono diventati una rarità, considerate le condizioni in cui si trova il teatro in Italia) e di oggetti che entrano e quasi mai escono di scena.
Sul finale addirittura un plastico, con tanto di alberi e montagne, ingombra il palcoscenico e resta lì, inerme, anch'esso senza uno scopo. E finalmente si arriva alla conclusione. Gelido il momento degli applausi.

Marianna Norese

The End di Babilonia Teatri
Premio UBU 2011 come miglior novità italiana e migliore ricerca drammaturgica
di Valeria Raimondi, Enrico Castellani
Scene di Gianni Volpe
Costumi di Franca Piccoli
Luci e audio di Luca Scotton
con Valeria Raimondi, Enrico Castellani, Ettore Castellani, Ilaria Delle Donne, Luca Scotton
Teatro dell'Archivolto di Genova, 20 aprile 2012
Nel silenzio della sala, fa il suo ingresso Valeria Raimondi, un soldato Jane in tacchi alti e vestito di
lamé argentato. In scena un frigorifero e pezzi di una statua di un Cristo a terra. Senza preamboli, parte il bombardamento di parole infuocate, spezzate, sputate. La litania scomposta che contraddistingue la ricerca linguistica di Babilonia Teatri questa volta direziona il suo mitra sul tema della morte.
Il primo intervento è una parodia dolce-amara sull'incapacità dell'uomo contemporaneo di accettare la fine: "oggi i genitori non si ammalano, non invecchiano, non muoiono". Non c'è più il contatto, la confidenza con il trapasso. Anche la gatta non vuole saperne del fratello che si ammala e le muore accanto: "non lo vuole. Puzza si marcio, di merda, di vomito". Viviamo in un mondo capovolto, in cui la natura stessa fatica ad accettare il proprio destino.
Valeria ricompone i pezzi del Cristo e, con un sistema di carrucole, lo issa sulla croce al centro del
palcoscenico. Un intramezzo musicale alleggerisce la tensione drammatica e, sulle note di Ciao amore ciao di Luigi Tenco, altri tre attori salgono sul palco a danzare insieme a Valeria una breve coreografia che si ripete fino al termine della canzone.
I danzatori escono e Valeria è di nuova sola contro tutto: il secondo intervento è una confessione di fede, un "non voglio" che spara a zero sulla paura della malattia e della perdita di sé con crudezza impietosa e politicamente scorretta: non voglio quella troia della badante che non parla la mia lingua. Il dialetto veneto viene a galla con prepotenza a marchiare a fuoco le note più feroci di questa rigida partitura drammaturgica e musicale.
A controbilanciare la negazione arriva l'elenco dei desiderata: voglio un colpo di pistola, pulito, igienico. Voglio essere padrone della mia vita e della mia morte. E implacabile arriva la sferzata contro la chiesa: puoi avere fatto di tutto, non importa, se alla fine chiedi perdono. Tutto, tranne toglierti la vita.
Valeria estrae dal frigo una testa di bue e una testa di asino. Le issa in alto ai lati del crocefisso. Una stella cometa color argento, sorretta a braccia tese sopra la testa, trasforma la natura morta in una natività. "Voglio il respiro di un bue, di un asinello. Credo che non risorgerò. Credo che ti aspetterò. Credo che cenere ritornerò".
La carica rock dei Doors chiude la performance con la canzone che dà il titolo allo spettacolo: this is the end, my only friend, the end. Da Tenco a Morrison, la scelta musicale dello spettacolo va a dissotterrare due icone di quella autodistruzione, di quel colpo di pistola che spaventa e attrae, tra senso di onnipotenza e horror vacui.
Nell'irriverenza e nella grettezza delle battute di Valeria non c'è nulla di gratuito, ma un'onesta presa di coscienza del reale, in cui non mancano momenti di ironia e tenerezza. La potenza evocativa delle immagini e la durezza delle parole scuotono il pubblico dal buio riparo della platea.

Marianna Norese

Letto 6878 volte Ultima modifica il Venerdì, 31 Agosto 2012 11:24
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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