giovedì, 18 aprile, 2024
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INTERVISTA a ROBERTO ANDÒ - di Gigi Giacobbe

Roberto Andò Roberto Andò

Cominciamo dallo spettacolo di Raffaele La Capria che hai messo in scena al Mercadante di Napoli che tu dirigi da un paio d’anni. A cosa o a chi allude il titolo Ferito a morte?
«Il romanzo di La Capria contiene un refrain quasi musicale, “viviamo in una città che ti ferisce a morte o ti addormenta”, una frase micidiale che può valere per qualsiasi città, ma Napoli non è una città qualsiasi, è una città-mito. E questa frase è rimasta viva nella coscienza della città, anche se sono passati molti anni da quando il romanzo è stato pubblicato. È la forza dei classici, ogni generazione ne sperimenta sulla propria pelle, in modo diverso, il senso profondo. Per me, e per la compagnia di attori che lo interpretano, Ferito a morte è una occasione per raccontare la vita che sfugge a sé stessa, il fuggevole. E una possibilità per fare teatro in modo non tradizionale, intersecando il tempo interiore e quello oggettivo».

In più occasioni hai detto che fu Leonardo Sciascia a spingerti a scrivere e averti introdotto nel mondo del Cinema iniziando il tuo apprendistato come assistente di Francesco Rosi che tu consideri tuo maestro, il quale era molto amico di La Capria tanto da scrivergli alcune sceneggiature di film quali Le mani sulla città, Uomini contro, Cristo s’è fermato a Eboli, Diario napoletano. Avere adesso tu messo in scena Ferito a morte è stato un modo di esprimere affetto e stima nei confronti di La Capria e di Rosi o c’è dell’altro?
«Fu La Capria, qualche anno fa, a sollecitarmi a mettere in scena Ferito a morte. Era convinto anche lui che il teatro fosse il mezzo più congeniale a una sua trasposizione. Me ne sono ricordato l’anno scorso quando cercavo con Emanuele Trevi un progetto da fare. E lui mi ha incoraggiato, così come anche è stata incoraggiante la reazione entusiasta di Raffaele. Mi è sembrata una occasione per mettere in scena una resa dei conti con la città d’origine, un tema che riguarda tutti. Il protagonista, Massimo, sta per lasciare Napoli e convoca mentalmente situazioni e persone della sua vita, in una resa dei conti esistenziale e morale. Certo, io ho conosciuto e sono diventato amico di La Capria tramite Rosi, e dunque conosco bene il retroterra culturale e psicologico in cui si muovevano questi due grandi monumenti della cultura italiana. Ma questo non basterebbe per motivare una scelta così difficile e impegnativa. In realtà, mi sembra di proseguire un discorso iniziato tempo fa, quando proprio a Napoli, per la prima edizione del Festival internazionale di teatro, io misi in scena proprio come se nulla fosse avvenuto, Il mare non bagna Napoli di Anna Maria Ortese, una grande installazione alla Darsena Acton, con cento persone e Anna Bonaiuto, Vincenzo Pirrotta, Maria Nazionale. Anche lì il tema era la resa dei conti con la città e credo che quello spettacolo sia ancora nella memoria dei napoletani. Mettere in scena Ferito a morte vuol dire riprendere quel filo, e questa volta da un romanzo che è un altro specchio della città, ancora una volta con una forma non tradizionale».

Credo che noi ci conosciamo da una trentina d’anni, da quando hai messo in scena a Palermo alcuni lavori di Pinter quali La stanza e Vecchi tempi, regalandomi una cassetta in WHS di 45 minuti titolata Ritratto di Harold Pinter. Ho cercato poi di seguirti in quello che facevi non solo in teatro ma anche al cinema con i film che realizzavi a cominciare da Il manoscritto del principe sugli ultimi anni della vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e la stesura del suo Il Gattopardo. Ti sei mai interessato alle arti figurative quali la pittura e la scultura?
«No, se non come persona che ama la pittura e la scultura. Nella mia poligrafia, che va dal cinema al teatro, alla letteratura, le arti figurative non sono mai entrate. Ma in qualche modo entrano in gioco nel mio lavoro di cineasta e di regista di teatro e d’opera. Anche qui, in Ferito a Morte, ho cercato, a modo mio, di fare interagire il teatro con la pittura, alla ricerca di quella visione liquida della vita, vista attraverso la trasparenza dell’acqua del mare, che è propria del romanzo di La Capria, un romanzo scritto con la luce».

In Sicilia negli anni ’90 hai diretto il Festival di Gibellina, quello di Palermo sul Novecento e nei primi anni del Duemila l’Ortigia Festival di Siracusa. Perché, tu palermitano, più volte hai rifiutato di dirigere il Teatro Biondo stabile di Palermo, accettando poi la direzione artistica del Mercadante di Napoli e del Festival Pompei Theatrum Mundi?
«C’è solo una ragione, ma sostanziale: a Palermo avrei dovuto fare il direttore unico, cioè a dire un ruolo che è insieme artistico e gestionale. A Napoli hanno addirittura cambiato lo statuto pur di avermi e io ho potuto delegare la funzione gestionale e amministrativa a Mimmo Basso. Per il resto io sarei stato felice di dirigere il teatro Biondo di Palermo, è la mia città, conosco il valore dei tecnici che vi lavorano e degli artisti che vi abitano e mi sarebbe piaciuto riportare il teatro alla dimensione che merita».

Nel tuo curriculum artistico spiccano alcuni documentari oltre al già citato Ritratto di Harold Pinter anche Robert WilsonMemory Loss (un’installazione che io vidi ai Granai delle Zitelle nella Biennale di Venezia del 1993 raffigurante un busto di uomo immerso in un cretto fangoso), poi Per Webern: Vivere è difendere una forma (1996) e ancora Il cineasta e il labirinto. Incontro con Francesco Rosi (2002). Realizzerai nel futuro altri documentari?
«Sono molto attratto dal documentario, una forma che sta alla pari con i film di finzione, e ho anche diretto la sede sul documentario del Centro sperimentale di cinematografia per alcuni anni. Se trovo una storia che si adatta al documentario, lo farò senz’altro. Vorrei fare un film sul mio amico e grande fotografo Ferdinando Scianna»

Personalmente ho molto amato due tuoi spettacoli su altrettanti lavori di Thomas Bernhard: Minetti, ritratto di un artista da vecchio con un grande Roberto Herlitzka e Piazza degli eroi con un bravissimo Renato Carpentieri. Anche a me piacciano i lavori di Bernhard ma vorrei sapere qual è il tuo pensiero su questo tenebroso drammaturgo austriaco morto a soli 58 anni nel 1989.
«In effetti è uno dei miei scrittori prediletti. Mi piace il suo modo di contestare il teatro. E mi piace il suo modo di raccontare l’insopportabilità della vita e l’impossibilità di redenzione dell’arte».

Nei recenti anni il tuo nome rimbalzava dalla televisione, con la miniserie su Letizia Battaglia fotografa, al Teatro con Piazza degli eroi di Bernhard, preceduta da quella Conversazione su Tiresia al Teatro greco di Siracusa con Andrea Camilleri, al Cinema con Il bambino nascosto con Silvio Orlando tratto dal tuo romanzo omonimo edito da La nave di Teseo, mentre Rai5 mandava in onda un’opera lirica da te diretta. Ti fa piacere questa notorietà o ti dà fastidio?
«Io non ci faccio caso. Ho una natura schiva, mi dedico al lavoro. Sono arrivato a un punto del mio percorso in cui non voglio perdere tempo».

La stranezza, ultimo tuo film che sarà a breve nelle sale italiane, con Toni Servillo nei panni di Pirandello, Ficarra e Picone in quelli di becchini e tanti altri, racconta del disastroso debutto dei Sei personaggi in cerca d’autore il 9 maggio 1921 al teatro Valle di Roma in cui si rischiò pure lo scontro fisico. Credi veramente che questo lavoro abbia rivoluzionato il nostro Teatro occidentale o non bisogna pure mettere in conto l’Ubu re di Alfred Jarry, tanti lavori di Cechov e altri ancora?
«Certamente Pirandello è uno degli autori che ha più influenzato il nostro modo di vedere la vita. Non so quanto lo si possa dire per Jarry col suo bellissimo Ubu Roi. Per esempio, anche Bernhard ha più volte riconosciuto l’influenza decisiva di Pirandello. E questo, al di là del valore delle sue opere, – io amo sopra ogni cosa le sue novelle – per la deriva di pensiero che ha provocato nella letteratura e nella filosofia del Novecento. Ma certo Cechov è Cechov, un poeta immenso».

Gigi Giacobbe

Ultima modifica il Mercoledì, 19 Ottobre 2022 09:02

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