martedì, 18 febbraio, 2025
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INTERVISTA A LINO MUSELLA - di Francesco Bettin

Lino Musella Lino Musella

Napoletano, Lino Musella ha studiato regia teatrale alla Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano. E’ un attore e regista raffinato e popolare, interprete di grandi spettacoli come Tavola tavola, chiodo chiodo, (per cui ha ricevuto il Premio Le Maschere del Teatro Italiano nel 2022), tratto da carteggi e documenti di Eduardo, con il quale ha incantato moltissimi spettatori. E’ sicuramente uno degli eredi della grande drammaturgia napoletana, che ha messo anche recentemente in scena al teatro San Ferdinando di Napoli con Gennareniello, di Eduardo, nei panni di Tommasino (con accanto Tonino Taiuti, Gea Martire, Roberto De Francesco, Dalal Suleiman). Ma non solo di quella, naturalmente. Musella alterna molto bene tradizione e innovazione, affrontando autori classici e moderni, come il Pinter di qualche mese fa, nella trilogia Pinter Party. Ha lavorato negli anni con Valter Malosti, Andrea Baracco, Antonio Latella, e anche nel cinema è molto attivo: tra i suoi lavori troviamo sempre ottime interpretazioni: La stoffa dei sogni di Gianfranco Cabiddu, Il cattivo poeta di Gianluca Iodice, Favolacce, dei Fratelli D’Innocenzo, Lei mi parla ancora di Pupi Avati, E’ stata la mano di Dio, di Paolo Sorrentino, Qui rido io di Mario Martone, L’ombra del giorno, di Giuseppe Piccioni. Lo scorso anno è stato uno spassoso infermiere a fianco di Carlo Buccirosso in La scommessa – Una notte in corsia, diretto da Giovanni Dota e ha girato Arsa, di Masbedo.  Come attore, e regista, riesce ad alternare dramma e commedia con grande efficacia. Ha vinto il Premio Ubu nel 2019.

Osservando questo momento storico di gran confusione, e difficoltà, lo stato attuale del teatro come lo vedi? 
Ti dirò, seguo gli accadimenti gestionali e sistemici che avvengono nel teatro però il mio rapporto con quella che è la conduzione del sistema teatrale italiano è un po’ più freddo rispetto a qualche anno fa. Forse allora era anche più combattivo, mi accanivo di più contro certe dinamiche, mentre adesso sono più annichilito. Ma è una questione di lettura personale, come se quel sistema non fosse più affar mio. Sicuramente mi sento di appartenere profondamente al mondo del teatro ma in questo momento per proteggermi ho bisogno di pensare solo al lavoro artistico, perché le dinamiche che vengono da tutti i poteri mi confondono eccessivamente. 

Preferisci stare più sul pezzo, lavorando, diciamo, sulle cose che scegli e porti in scena?
Sì, preferisco concentrarmi su quella che è la mia proposta, di intervenire sia politicamente che artisticamente facendo del mio meglio sui miei lavori. Sono fuori da qualsiasi tipo di gestione, di rapporti politici. E’ vero che da qualche anno mi è capitato di essere stato prodotto da un Teatro Nazionale, quello di Napoli, che ha scelto di produrre due miei lavori e questo mi fa felice, ma credo di mantenere ancora un’indipendenza mia, nel portare in scena anche degli assoli o dei piccoli lavori, cercando di dividermi tra le platee importanti e quelle più indipendenti, spazi più piccoli. 

Il teatro, dopo il Covid, ha ripreso a funzionare bene, la gente è ritornata, partecipa, ci sono bei numeri. Cosa pensi tu? Un bel segnale no?
Un’ottima cosa, per fortuna che il Covid ha prodotto un effetto che noi artisti stessi non ci aspettavamo. La forza del teatro è stata riaffermata dal pubblico, che ha riagganciato un cordone che sembrava essersi spezzato. In parte è dipeso certo anche dai teatranti che probabilmente dalla chiusura di quel periodo hanno trovato delle rinnovate necessità, mentre c’è stata un’inversione di tendenza rispetto a quello che è successo col cinema. Il Covid lì ha mostrato una strada diciamo casalinga, perla visione dei film, mentre si è totalmente contrapposta la fruizione dell’evento live. Probabilmente proprio quel momento di chiusura ha affermato la necessità di voler ritornare a rivedere gli spettacoli dal vivo, riempiendo molte sale. Almeno quelle delle grandi città, poi non so se le situazioni in provincia sono così felici. Del resto succede da molti anni, che nelle città di un certo tipo la forza dei teatri nazionali fa sì che si possa rafforzare una proposta concreta, con finanziamenti che arrivano, mentre nelle piccole realtà, nei piccoli centri questi vengono a mancare.

Quindi alcune zone sono limitate nelle loro proposte al pubblico, e non possono competere con altre?
Inevitabilmente, i teatri nazionali e le loro città di appartenenza sono avvantaggiati, e in provincia si soffre di più, le proposte sono ridotte e questo è un peccato. E in città come Napoli, Milano, Torino, Genova ci sono anche tanti vettori che creano possibilità culturali, di eventi. La realtà è proprio diversa in provincia.

Man mano che il tempo passa i grandi artisti, va da sé, vengono a mancare. Ma secondo te c’è un ricambio alla pari ai giorni nostri? Ci sono oggigiorno degli altri maestri che stanno venendo fuori?
Credo ci sia uno scollamento generazionale, la vecchia generazione è quasi totalmente scomparsa, adesso ci sono sicuramente dei grandi teatranti che vivono comunque una dimensione isolata, di epigoni della storia, anche la loro stessa, e non sono al centro del sistema teatrale. Anche i grandi che ci sono in questo momento gestiscono il loro territorio. Voglio dire, solo pochi anni fa c’era Luca Ronconi al Piccolo, per dire. In questo momento se guardi le direzioni artistiche italiane sono discontinue, c’è una gestione che non è esattamente generazionale, sia in positivo che in negativo. Credo anche che i cosiddetti maestri, oggi, non si prendono la responsabilità di condurre il teatro italiano da qualche parte, di dire, fare delle riflessioni su quello che sta accadendo. Non si prendono la responsabilità di mettere bocca su quello che succede, ma questa cosa è successa anche durante la pandemia. Io ho fatto un lavoro su Eduardo De Filippo perché ho sentito in quei mesi un vuoto, in cui si credeva che il filo sottile che legava platea e palcoscenico si recidesse, c’era un grande silenzio. Si è esposta solo la categoria degli artisti, solo per riaffermare alcuni diritti, ma era una voce che arrivava dal basso. Mi sono chiesto più volte che cosa avrebbe fatto, detto, o proposto Luca Ronconi, o altri grandi come lui, in quel periodo.

Parliamo di Napoli, sempre più fucina di grandi talenti, città culturalmente sempre vivissima. Qual è, per citare Eduardo, la sua grande magia? 
La grande qualità di Napoli è che non si perde mai il filo, nessuno degli artisti napoletani, validi o meno, lo perde. C’è una forte memoria storica, non si dimenticano né gli artisti acclamati né quelli dell’avanguardia, che comunque hanno creato un tessuto artistico in questa città. Noi napoletani non dimentichiamo da che passato veniamo e se oggi si mette in scena qualcosa è perché ieri c’è stato qualcos’altro e andando molto indietro quasi riusciamo a ripercorrere l’intero filo. A Napoli non si dimentica mai il passato, e questa è una ricchezza, si sta concentrati, si ricorda. Anche perché abbiamo scoperto che la memoria anziché portarci indietro ci spinge avanti.

Oltre la tradizione classica Napoli ha sempre avuto tanta contemporaneità valida…
Una forza avanguardista che è più avanti dell’oggi, e questo è un grande tesoro. Abbiamo delle figure eclatanti, solo per fare qualche nome, come Enzo Moscato, mancato un anno fa, o Annibale Ruccello, per non parlare di Eduardo, Raffaele Viviani. Poi andiamo indietro, Eduardo Scarpetta, Antonio Petito, un autore straordinario come Giovanbattista Basile, riscoperto negli anni settanta da Roberto De Simone, un musicologo, artista e regista che in un momento in cui era fortissimo il Novecento napoletano ha ripreso quella tradizione antica. Questo succede spesso, che il nostro passato venga riaffermato nel presente. E’ questa la grande forza di Napoli, secondo me, che riguarda il teatro ma anche, e moltissimo, la musica, la letteratura.

E il cinema, Napoli come lo onora?
Il cinema si occupa più probabilmente di avere un prodotto più attuale, per quanto possano esserci anche delle storie vintage, sicuramente c’è sempre un istinto di conservare la memoria di chi ha fatto e scritto la storia di questa città. E’ un rapporto transgenerazionale con la cultura. Anche a Roma, a Milano si fa, del resto come non si può mantenere la memoria di Giorgio Strehler, ad esempio? Ma se parliamo di dimensioni più d’avanguardia lì si rischia di perdere un po’ le tracce. Per non parlare del contesto romano, dove ci sono state delle sperimentazioni straordinarie ma nel tessuto culturale della città non se ne trova traccia. 

Lino Musella, attore molto apprezzato e amato, dal percorso molto interessante. Ma è proprio vero che, e cito ancora Eduardo, gli esami non finiscono mai?
Assolutamente, anzi, adesso più che mai. Personalmente, volendo usare una declinazione monicelliana, io sono troppo vecchio per essere una giovane promessa e troppo giovane per essere un venerabile maestro, cosa che comunque non vorrei nemmeno essere. Per cui mi tocca essere il solito stronzo. E’ un po’ quella la dimensione in cui si viene collocati in Italia, e infatti bisogna stare molto attenti a quello che ci viene attribuito, o lo stato in cui inconsciamente ci si vuole mettere. Personalmente, non riconoscendomi più nella fase della giovane promessa, e voglio allontanare, spero per sempre, quella del venerabile maestro, sento di essere, se è così, anche quello che ho appena detto. Quindi gli esami no, non finiscono mai.

In cosa consiste il vero talento teatrale? Cosa si deve far arrivare al pubblico, cosa deve avere un bravo attore?
Sul talento si possono dire tante cose, ma per me è avere la volontà di continuare a fare il teatro, quindi una costanza. Che è anche un’affermazione scivolosa, se si vuole. Ma fare teatro è un lavoro dove si accumulano esperienze, e quella memoria di cui ho parlato prima, dove si continua a mantenere un rapporto col pubblico e se possibile riuscire a moltiplicarlo proprio attraverso le esperienze. Continuare dunque a fare teatro è per me il vero talento, farlo ovunque, in qualsiasi dimensione dove ci si possa sentire di potersi esprimere. E questa volontà ostinata di continuare a farlo è anche dolorosa.

Il tuo rapporto personale con il cinema? Da un po’ di anni ti troviamo protagonista in alcuni lavori…
Rispetto al teatro il mio rapporto lì è più attoriale, sicuramente, nonostante mi piacerebbe anche scrivere, ma lì mi sento più interprete, è come se mi concentrassi di più in questo mestiere. Nel cinema ho iniziato tardi  e le prime cose concrete le ho fatte solo una decina di anni fa, ma ho avuto la fortuna di fare diverse esperienze con dei bravi registi. Quelle cose mi hanno fatto innamorare di quest’arte e di quel tipo di esperienza attoriale che ha certamente delle assonanze col teatro ma sviluppa possibilità completamente diverse, anche nella percezione che ho di me stesso come attore. Diverso è appunto il discorso teatrale, dove sono attore ma mi ha sempre interessato la costruzione, la scrittura di testo, la regia, l’articolazione e lo sviluppo di un progetto. Fare del cinema poi permette di praticare dimensione straordinarie, anche di poter lavorare con dei non-attori. Ha questa capacità di mettere sulle spalle del protagonista la verità di una storia. MI è capitato di dividere la scena con dei bambini, che erano non-attori, ma straordinari, e anche con degli animali, addirittura, che mi hanno sorpreso.

Possiamo dire che sono forme complementari, lavorare sia in teatro che nel cinema?
Assolutamente sì, ma questo non vuol dire che se fossi un danzatore, o un musicista, un cantante, non lo sarebbe altrettanto, la stessa complementarietà la potrei trovare anche lì. Il cuore espressivo rimane lo stesso ma la forma in cui ci si esprime cambia e questo alimenta positivamente le diverse forme in cui ci si esprime, secondo me.

Dopo Gennareniello di Eduardo, a Napoli, quali saranno i tuoi prossimi impegni?
Attualmente sto girando Portobello, una serie di Marco Bellocchio, e poi porto in giro degli assoli teatrali, come Un animale senza nome, da testo di Pier Paolo Pasolini. Non so ancora se ci sarà una possibilità di girare un po’ l’Italia con Pinter Party, che debuttò a Napoli 9 mesi fa, lo spero, ma in ogni caso sarebbe eventualmente una cosa che andrebbe comunque nella stagione 2026-27. E mi metterò presto a lavorare anche su altri progetti, con tranquillità.

Sul palcoscenico, meglio soli o, per fare una battuta, bene accompagnati?
Gli anni del Covid mi hanno portato a fare dei lavori in cui ero in scena da solo, o in due, mentre nonostante le difficoltà e l’annichilimento per quello che è il sistema teatrale italiano io continuo a pensare che quello che mi emoziona e mi restituisce maggiore senso è stare in scena con colleghi in un lavoro condiviso, dove il frutto del lavoro viene abbracciato da più interpreti, più persone. Torno al discorso di prima. Essere in più persone, lavorare assieme permette anche di mantenere una maggiore memoria di quello che si va a proporre al pubblico.

Francesco Bettin

Ultima modifica il Mercoledì, 15 Gennaio 2025 10:19

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