Attrice di grande esperienza, nata a La Spezia, si forma al Teatro Stabile di Genova, lavorando negli anni con maestri del teatro italiano come Marco Sciaccaluga, Benno Besson, Massimo Castri, Cristina Pezzoli, Carlo Cecchi, Andrée Ruth Shammah, Valerio Binasco, Pascal Rambert. Vastissima la sua produzione di interprete teatrale, è presente anche in alcuni film tra cui ricordiamo almeno Il mio miglior nemico di Verdone, e in diverse produzioni televisive. Ha ottenuto dei premi importanti, il primo da giovanissima nel 1991, il Premio Duse - Menzione d’onore, Gli Olimpici del Teatro, Le Maschere Del Teatro Italiano, il Premio ANCT. Sta preparando, ed è un ritorno sul testo, Sei Personaggi in cerca d’Autore di Luigi Pirandello, regia di Binasco che debutterà per un altro ciclo di rappresentazioni, a Torino dall’11 febbraio.
Come trovi lo stato del teatro attualmente?
In piena salute, se penso al livello artistico che mi circonda, ma il mio punto di vista è privilegiato perché vivo in una città viva come Milano in cui coesistono diverse realtà teatrali con programmazioni interessanti e gestioni ormai da anni provate e vincenti. Qui ho la fortuna sia di lavorare che di essere spettatrice. Un esempio è il Teatro Franco Parenti, il primo teatro in cui misi piede a 18 anni, la Casa che mi ha accolto in diverse occasioni e che abito in particolare in questo periodo della mia vita. Un esempio di isola felice per la creatività, la disponibilità nei confronti di nuovi talenti, per la capacità di portare avanti temi contemporanei, e ancora per affluenza di pubblico, ricchezza di iniziative. E lo so, non si può dire Milano senza pensare al Piccolo e alla Scala, ma gli spettatori milanesi, io con loro, abbiamo molte altre buone possibilità, con tante sale e programmazioni molto valide. Il teatro a Milano ha cento anime.
Ma in generale la politica il teatro un po’ lo culla, lo segue, lo coltiva come si deve?
Non sono dentro alle economie specifiche dei teatri, ma da quello che sento dire da alcuni direttori, dagli amministratori e negli incontri con Unita, il problema è la distribuzione delle risorse. Il FNSV (Fondo Nazionale per lo Spettacolo dal Vivo) dovrebbe, potrebbe elargire una contribuzione più equa tra le grandi realtà, le medie o piccole. Ci sono teatri svantaggiati, che si fanno in quattro per continuare ad esistere e sono quindi penalizzati tutti gli artisti che ne fanno parte. Spesso le differenze esistono anche per teatri nominalmente uguali, della stessa categoria voglio dire, anche se non sempre la programmazione migliore o la visione artistica è premiata, no? Insomma ci vorrebbe più conoscenza della realtà, vicinanza, ascolto per chi ha meno voce.
Un problema mica da niente…
La mancanza di un dialogo autentico lo conferma anche il cinema che soffre da mesi per il problema della Tax Credit. La maggior parte delle produzioni cinematografiche italiane si sono interrotte e questo ha provocato un tasso di disoccupazione altissimo, si parla di 260.000\300.000 persone a casa. Si aspetta una risposta a marzo da parte del Ministero e speriamo che si tenga che nel settore cinematografico lavora un numero ingente di persone che non sono soltanto gli attori e registi, ma sono anche tutte le maestranze, i tecnici e tutti quelli che ci lavorano intorno. Non si parla infatti soltanto di necessità dell’arte nella vita di tutti noi, ma anche della dignità e dell’esistenza di un numero importante di lavoratori, cioè di famiglie. È chiaro che la precarietà non esiste soltanto nel teatro, la disoccupazione è un problema schiacciante, soprattutto per i più giovani, ma non solo per loro.
In tempi di precarietà generale, il lavoro dell’attore quanto soffre di questa cosa? Non è un problema che può anche allontanare le giovani generazioni attratte da questo lavoro, allontanandole dal teatro?
No, non credo che l’energia di chi vuole avvicinarsi al teatro, la forza di volontà che in genere contraddistingue l’età giovanile, soprattutto se c’è una passione, possa essere frenata dalle difficoltà, di cui tra l’altro, si può essere più o meno consapevoli a quell’età. Però un conto sono le difficoltà e un conto è l’impossibilità di perseguire un sogno. In questo senso mi viene da pensare in modo più allargato ai ragazzi, con i quali cerco di avere un dialogo, partendo proprio da mio figlio diciassettenne. E tra l’altro mi sono trovata ultimamente accanto compagni di squadra giovanissimi in Chi Come Me, per parecchi mesi. Come si fa a non sentirsi loro alleati? Vorrei essere in grado di rispettare ancora di più il loro modo di essere, voglio comprendere meglio il loro disagio, condividere la loro fatica e le loro paure. Non ci sono Dei che vengano in aiuto, non ci sono oracoli che possano darci speranze o illusioni, ma dati e previsioni documentabili, cifre, immagini che sovrastano la nostra vita e ci chiudono la via della speranza, forse troppa consapevolezza. Tutto questo può immobilizzare, annichilire. Infatti esiste un problema giovanile concreto e chi governa dovrebbe concentrarsi proprio su questo. Applicare misure perché loro possano pensare che Un Futuro Diverso è possibile. Magari partire da una sana riforma scolastica con investimenti sull’Istruzione invece che altro.
Rispetto all’estero, l’attore quanto è tutelato, se lo è, nel nostro Paese?
Non abbastanza. Come dicevo non esiste un dialogo reale tra chi governa e chi è all’interno delle amministrazioni artistiche, soprattutto le piccole. Sono ignorate le problematiche dei lavoratori dello spettacolo, anche quelle quotidiane come la diaria. Manca il dialogo coi sindacati, quello con le associazioni che cercano come Unita di difendere i diritti di noi tutti. Ecco, la discontinuità, per esempio, regolarizzata già da tempo in diversi Paesi in Europa, non viene presa in considerazione in come un problema prioritario. O il lavoro grigio, o la mancanza di riconoscimento dell’insegnamento come altra fonte di guadagno per alcuni artisti, sono alcuni tra gli aspetti da conoscere e approfondire, la situazione è davvero complessa. E poi, guarda, basta dare un’occhiata al programma di uno dei teatri europei, prendiamo Budapest, il Teatro Katona, se guardi la quantità di spettacoli e attori coinvolti, vengono i brividi. Ecco, il lavoro sarebbe la forma di tutela più alto.
Sono troppo le condizioni contrattuali precarie? Come si possono riparare?
Continuando a lottare. Farsi sentire. Per la Tax Credit c’è stata un ricorso al Tar da parte delle produzioni più piccole e svantaggiate. E questa Iniziativa ha portato una correzione degli emendamenti che però non erano ancora sufficienti e così ora il Ministero dovrà presentare degli ulteriori cambiamenti entro il 4 marzo, in quanto il decreto correttivo che era stato applicato non era soddisfacente perché conteneva delle linee discriminanti per quanto riguarda, per esempio, la distribuzione nel settore cinematografico. Perciò, se questo ricorso ha portato una revisione della proposta ministeriale, vuol dire che si deve continuare a credere nei propri diritti e che si deve restare uniti, per raggiungere obbiettivi comuni. Vedremo se i nuovi emendamenti del Ministero permetteranno di riprendere a produrre, altrimenti sarà il collasso totale del Cinema Italiano. Non so immaginarlo. Per ora, nonostante ripetuti tentativi e proposte di Unita e altre associazioni del settore, per quanto riguarda la discontinuità del lavoro di cui abbiamo detto, le norme stabilite sono risposte insufficienti, contentini, come una pacca sulla spalla. Un bonus ogni tanto, giusto per quietare gli animi.
La situazione è difficile, dunque…
Molto difficile. O difficilissima, e per alcuni impossibile. Ma resistiamo.
Cosa significa essere un’attrice oggi? Che funzione ha questo mestiere?
Il teatro è una attività smisurata energica e pubblica. Questa frase la disse Harold Pinter il giorno del suo Nobel e vorrei urlarla a squarciagola. Perciò mi pare che essere un’attrice oggi sia quello che era anche ieri e l’altro ieri fino ad arrivare al Teatro di Dioniso ad Atene, la differenza è che prima alle donne non era concesso. Qualcosa abbiamo conquistato. Un’attività smisurata energica pubblica, che sintesi perfetta: C’è dentro sia il il gesto dell’attore, sia il senso del teatro, sia il rapporto con il pubblico, sia la responsabilità del nostro mestiere e ancora di più in momenti in cui la visione del mondo è apocalittica, il nostro gesto e le nostre scelte devono essere piene di furie piene di fuoco piene di energia, avere degli obbiettivi legati alla realtà che ci circonda. C’è bisogno di bellezza, di senso della vita, di vicinanza.
Emozione, adrenalina…si provano sempre o l’esperienza attenua, e diventa routine?
Non credo di frequentare la routine, mi auguro che resti un’entità sconosciuta a tutti i teatranti! Vince su di me la volontà di ascolto della platea, il desiderio di seminare in quel grande mare di sguardi, seminare domande, destabilizzazione, produrre sconcerto rispetto alle certezze che ci impediscono di vivere ogni giorno con pienezza, elargire emozioni. E amore. Il teatro è sempre una questione d’ Amore, anche nelle manifestazioni più violente ed estreme, anche se ci racconta fatti ineffabili e orrendi. Nessuna routine, semmai una certa ritualità. Ogni attore segue un suo rituale prima dello spettacolo, a volte un regista propone un rito comune. Binasco per un bel po’ di repliche riunisce la compagnia e si fa memoria veloce, qualcuno bendato, qualcuno steso. Si condivide quel tempo, ci si mette in ascolto.
Hai rimpianti, per qualche rinuncia fatta?
Non amo la parola rimpianto e neanche la parola rimorso. Un po’ come la parola colpa, preferisco usare la parola responsabilità, almeno da quando ho capito che un crocefisso è più legato alla vita di un uomo e chi ha decretato la sua morte, che alla vita eterna di chi lo contempla in estasi. Non amo le parole che ci inducono a chiuderci su noi stessi, che ci fanno stare seduti a versare lacrime, che ci obbligano a guardare il passato con mestizia, meglio la parola struggimento, allora, che contiene un movimento passionale all’interno di un desiderio. Lo struggersi per qualcosa che non è accaduto spinge a mutare atteggiamento, ti fa sentire vivo e fa nascere la voglia di non ripetere quella scelta, ti lancia in modo attivo verso il futuro. Struggersi anche nel senso di ardere d’impazienza, fremere, si dice dei cavalli quando per un suono si struggono e non si possono tenere. E Cechov spesso si tradisce proprio per questo. Lo si pensa seduto con le cicale, ma invece è più come avere una mosca che ti infastidisce e tu la vuoi scacciare.
Quando ti accorgesti che il teatro , la recitazione, ti stavano cambiando la vita e sarebbero diventati un lavoro?
La memoria mi parla di una nonna Nina che diceva alla piccola Sara: Se davvero vorrai fare l’attrice, vai all’Accademia di Arte Drammatica di Roma, e poi la memoria dai sette anni rimbalza ai 14 e io che vedo un grosso manifesto con scritto SCUOLA DI TEATRO e in piccolo, mimo-recitazione- canto. E chiedo ai miei di andare. Era un corso di tre volte alla settimana con Mimmo Chianese, mio primo maestro e regista dei miei 16 anni, nei primi spettacoli sulla Commedia dell’Arte.
Un approccio stimolante?
Lui era direttore di La Chiave di Campo Pisano, fondata in un miracoloso angolo di Genova, dove cresceva l’erba tra i ciottoli, un misto di spiaggia e campagna, la mia prima sede di un sogno che è diventato un mestiere quasi da subito, perché Chianese mi ha inserito nei suoi spettacoli di Commedia dell’Arte già verso i 15-16 anni. E gli sono grata perché da lì ho imparato in prima persona il rispetto per tutte le figure presenti in uno spettacolo, dagli attori ai tecnici, sarta, trasportatori. Ognuno di noi era tutto questo. Non andai a Roma ma rimasi a Genova, alla Scuola del Teatro Stabile, per continuare a studiare con Anna Laura Messeri e sempre in quella città ho debuttato al Teatro Duse, ancora allieva, in un Goldoni indimenticabile. E dopo quello spettacolo ho proprio capito che non era solo un tentativo di mettere a fuoco un desiderio ma era il fuoco della mia vita.
Hai terminato a Milano a fine anno Chi Come Me, al Teatro Franco Parenti...Che esperienza è stata?
E’ uno spettacolo che mi ha accompagnato in tanti giorni del 2024. Andrée Ruth Shammah, ideatrice e regista del progetto, ha deciso di provare a fare una lunga tenuta dello spettacolo, un po’ come si fa a Londra a Parigi, e siamo stati in scena tanti mesi, ( per quasi 100 giorni ) dovendo aggiungere delle repliche nei lunedì di riposo, a volte e due doppie alla settimana, perché anche molte scuole erano interessate e l’affluenza è stata sempre altissima.
Un’esperienza particolarmente intensa, mi pare.
Sì. Lo riprenderemo alla fine di questa stagione e la prossima ancora. Come succede in Sei Personaggi il coinvolgimento col pubblico è fortissimo. In questo caso, però, le dimensioni della sala, SALA A2A, nuova di zecca, inaugurata proprio per lo spettacolo, la situazione in cui lo spettatore si trova crea una tale vicinanza con noi attori che siamo veramente un tutt’uno e si può guardare il pubblico ad una distanza estremamente ravvicinata. Si tratta di un happening, effettivamente. E in particolare i personaggi che portiamo avanti io e Pietro Micci, cioè i genitori (lui racconta quattro padri , io racconto quattro madri) hanno un rapporto di costante confronto\ dialogo con il pubblico. Spesso le persone tornano a vedere lo spettacolo, anche i più giovani. Una soddisfazione incredibile per tutti noi. E il bello è che forse da questa avventura nascerà un ensemble. Il nuovo sogno di Andrée e nostro è questo. Una bella sfida che aspetto da una vita poter lavorare su progetti che si intersecano, con un gruppo di artisti con cui si condividono modalità espressive e progetti comuni, passione, dedizione, urgenze narrative. Dato che lo spettacolo sarà ripreso per un lungo periodo, potremo provare un nuovo lavoro e poi debuttare con quello. Come fossimo al Berliner Ensemble, ma diciamolo sottovoce. Sottovoce.
Fra poco sarai ancora in scena nei Sei personaggi in cerca d’autore, regia di Valerio Binasco. Cosa ci dici di questo spettacolo?
A proposito di fuoco, i personaggi del nostro Pirandello, per suggerimento di Binasco, hanno un fuoco dentro, una furia, una frenesia - parola ricorrente nel testo. Una vitalità che li spinge irriducibilmente all’azione. Si potrebbero definire Sei personaggi in cerca d’amore, come è scappato ad uno dei giovani attori in un lapsus illuminante : hanno uno spasmodico desiderio di farsi ascoltare, di appassionare alle loro vicende, di qualcuno che li accolga. Chi può farlo meglio di un gruppo di attori, giovani per giunta? Questo è lo scenario in cui ci muoviamo. E sono grata a Binasco di aver tolto alla mia Madre ogni retorica, è più una leonessa che un salice piangente.
Fare teatro quanto permette di sognare, di entrare in un mondo affascinante e lasciarsi conquistare?
Tanto. Permette di immaginare tutti i mondi e le storie possibili. E condividerli. Permette di mantenere la memoria anche di chi non sarebbe più ricordato, parla degli ultimi e dei soli, degli eroi e dei santi. Mentre provavamo Pirandello, marzo 23, ricordo che Binasco disse che gli attori salvano la memoria, la perdita della memoria; alla fine ciò che ci brucia ciò che ci incanta è sempre lì, a suggerirci sempre le stesse cose. È proprio così, noi uomini siamo dentro lo stesso tempo, cambiano le modalità, ma le spinte interiori sono quelle. Anche The Tragedy of Man di Imre Madách, che ho visto a Budapest, messa in scena di Kriszta Székely parla di questo: Noi uomini siamo dentro lo stesso tempo, cambiano le modalità, ma le spinte interiori sono quelle. L’umanità è antica e presente sempre.
Ma il teatro fondamentalmente cos’è? E tu come lo vivi?
Il teatro è la cosa che so fare. Più facile farlo che parlarne. Potrei dire che è fondamentalmente energia- lo ripete sempre anche Pascal Rambert-. E connessione con gli altri. Presenti e assenti. È contagio. Silenzio inatteso, luce che unisce, ricerca della sfericità. Respiro, sudore, occhi. Provo a dirlo con una poesia di Wisława Szymborska: la vita è solo modo per coprirsi di foglie, prendere fiato sulla sabbia, sollevarsi sulle ali, essere un cane o accarezzarlo sul suo pelo caldo, distinguere il dolore da tutto ciò che dolore non è, stare dentro gli eventi, dileguarsi nelle vedute e cercare il più piccolo errore, un’occasione eccezionale per ricordare per un attimo di chi si è parlato a luce spenta, e almeno per una volta inciampare in una pietra, bagnarsi in qualche pioggia, perdere le chiavi tra l’erba e seguire con gli occhi una scintilla nel vento e persistere nel non sapere qualcosa di importante. Ecco, tutto questo il teatro lo può raccontare. Ma davvero sublime è il calare del sipario e quello che si vede ancora nella bassa fessura ecco qui è una mano si affretta a prendere un fiore là un’altra afferra alla spada abbandonata. Solo allora una terza invisibile fa il suo dovere e mi stringe alla gola. Parla sempre Szymborska. Gli attori hanno anche questa possibilità, poter pronunciare un giorno queste parole, farle risuonare come se nascessero in quell’istante. L’attore è il trait d’union, il ponte, tra quelle parole custodite tra le pagine e il pubblico, più o meno vicino in sala. Non è poca cosa.
Francesco Bettin