Carmelo Bene e l'oggi
Intervista a Clemente Tafuri di Teatro Akropolis
di Maria Dolores Pesce
Teatro Akropolis è una realtà rara, non solo per la città di Genova e il suo 'popolare' quartiere di Sestri Ponente ove ha la sua sede, ma anche a livello nazionale. Rara perchè nasce e si sviluppa innanzitutto in un'ottica di 'studio', attraverso la riflessione teoretica e poi estetica su alcuni dei grandi capisaldi della ricerca non solo teatrale (dal Nietzche di Giorgio Colli, ad Artaud, Fersen e Carmelo Bene). Poi c'è la prassi scenica senza vera soluzione di continuità, una prassi che attraverso i loro spettacoli ripropone integre quelle riflessioni, quelle domande che cercano una risposta anche sul palcoscenico. Ma forse la risposta a quelle domande è che non c'è risposta. Forse la forza del teatro è proprio quella di doverle necessariamente riproporre perché possano continuamente alimentare il dubbio, l'enigma tragico che è, prima ancora di rappresentarla, la vita di tutti noi. Per questo Akropolis non è solo teatro, di 'sottile' ricerca, è anche editoria con collane specializzate ed iniziative non consuete che gli hanno valso, nel 2017 il “Premio Ubu” nella sezione “categorie speciali”. Ma è anche ricerca cinematografica con la serie di pellicole raccolte sotto il titolo enigmatico de “La parte maledetta”. L'ultima uscita, per la regia di Clemente Tafuri, è stata “Carmelo Bene”, e in particolare da questo film colgo l'occasione per una breve e 'densa' intervista.
Clemente mi piacerebbe che questa non fosse tanto una conversazione tra me e te, quanto piuttosto una sorta di epistola che racconta, distanziandosene, il tuo rapporto con Carmelo Bene. Di questo è recente rappresentazione la tua ultima prova cinematografica, nella serie “La parte Maledetta”, che appunto di Carmelo Bene parla, ma anche di te e di tanto altro. Innanzitutto perchè e quanto proprio Carmelo Bene, insieme ad altri ovviamente, riguarda te e il tuo teatro?
Lavorare sull’opera di qualcuno significa lavorare su se stessi. Significa mettere in crisi il proprio cammino o, per essere più precisi, riuscire a definire sempre di più i termini di quella crisi permanente che è essa stessa il cammino. Ogni biografia, dice Carlo Sini, è sempre un’autobiografia. Ma bisogna appunto stare attenti a non scadere nell’apologia, nel sentimentalismo acritico, nel trattare con troppa familiarità le cose di cui ci si occupa. Tra i meriti di Carmelo Bene, e sono tanti evidentemente, c’è quello di aver messo radicalmente in discussione il teatro. Dopo averlo attraversato e averne messo a nudo i vizi, ha capito che, esattamente come il cinema e la letteratura, il teatro altro non era che uno dei tentativi per frequentare problemi che nessuna arte può risolvere. La crisi del linguaggio e della rappresentazione, il rapporto tra interiorità ed espressione, il definitivo paradosso tra arte e vita e infine il significato tragico dell’esistenza, sono enigmi, condizioni irriducibili del nostro vivere, e quindi come tali non vanno affrontati con l’intento di superarli. Questo Carmelo Bene lo ha capito molto presto, quasi ai suoi esordi, cosciente del fatto che il teatro è una sorta di buco nero che divora tutto e giustifica solo se stesso. È innanzitutto questo che mi interessa. I suoi spettacoli, i film e le opere letterarie sono fondamentali certo, ma vengono dopo.
Ci sono caratteristiche nel tuo teatro, credo, che lo rendono da una parte 'inattuale', come il pensiero di Nietzche che tanto hai, amandolo nella linea di Giorgio Colli, indagato, e dall'altra compiutamente 'incompiuto', un farsi continuo e crudele che non può 'fermarsi' al confine del palcoscenico. Cosa può esserci oltre, secondo te?
C’è la vita. Misera, accattona, egoista, a volte di una banalità sconcertante. Se l’arte non ci mostra questo a che serve? La grande arte è sempre tragica perché ci mette di fronte alla nostra mancanza, al nostro desiderio di cose impossibili, alle nostre menzogne più meschine. E lo fa riportando la vita all’origine di tutto, deviando il corso del tempo in un lampo, dando finalmente al corpo il senso possibile della sua danza, liberando la voce nel canto. Non c’è nulla di deprimente in questo. Tutt’altro. Il tragico non ha nulla a che vedere con il dramma. Il tragico riguarda tutti, il dramma no. L’inattualità, l’incompiutezza, la crudeltà, come hai notato tu, rappresentano dei varchi. Sono approcci alla conoscenza che rendono il rapporto col presente più radicale ma meno compromesso. Il confine del palcoscenico rappresenta perfettamente il limite di una cultura specialistica, una cultura che concepisce ogni sapere come assoluto e definitivo. Non basta la scena. Lo avevano capito in molti. Da Artaud a Grotowski, da Fersen a Carmelo Bene, per rimanere in ambito teatrale. Lo hanno scritto, è lì, nei loro libri, in quello che ci rimane delle loro opere. È una delle grandi lezioni del secolo scorso che sembra ormai totalmente dimenticata. Una lezione ispirata, con tutta evidenza, dal secolo ancora precedente.
Ma se oltre il confine della scena c’è la vita, sulla scena esiste la possibilità di dare immagini sempre più nitide del limite della rappresentazione. E questo limite è come se fosse l’orizzonte di un immenso panorama racchiuso in un ottica strettissima.
Come Nietzche lo è rispetto alla ontologia filosofica del novecento, imprescindibile ma anche non assimilabile, così Carmelo Bene (che scrisse, riferendosi all'eterno ritorno dell'eguale, “è cambiato tutto dopo Nietzche”) è rispetto al teatro di ieri e di oggi. Quanto, secondo te, continua ad essere 'necessaria' la sua lezione?
È necessaria perché riguarda l’arte di ogni epoca, non solo il suo lavoro. Le sue parole sono sempre molto chiare. I suoi riferimenti, la sua ispirazione originaria, sono talmente evidenti che è imbarazzante vedere come ancora oggi si parli di Carmelo in modo così aneddotico, scandalistico, o riducendolo a un attore o a un regista di teatro che farfugliava cose incomprensibili. Ma è chiaro che se ci si avvicina a certi artisti senza strumenti per capirne il pensiero tutto è inutile. Nel caso di Carmelo Bene gli strumenti devono essere piuttosto affilati. Nietzsche ha demolito definitivamente il concetto di metafisica, con tutto quello che ne deriva. Carmelo è stato sicuramente un demolitore di quanto di convenzionale governava il procedere non solo dei registi e degli intellettuali d’apparato, ma anche di gran parte delle avanguardie e dei grandi riformatori delle arti per la scena. Riconosceva pochi veri rivoluzionari. Il primo Living Theatre, Artaud, qualcosa di Craig, Maderna. Il principio con cui si scagliava contro tutti era sicuramente di matrice nietzschiana. Un lotta contro ogni metafisica, contro l’ontologia, la dialettica, la letteratura intesa come riduzione del sapere a concetti e forme.
Ho l'impressione che il mondo teatrale, e non solo quello più istituzionale, continui a mostrare un certo 'fastidio' nei confronti di Carmelo Bene anche nei momenti più (ipocritamente) celebrativi, quasi fosse impossibile o inutile cercare di trasferirlo dalla vita al 'museo'. Cosa hai dunque cercato riproponendo Carmelo Bene nel tuo film?
Ho cercato di mettere in evidenza la sua ispirazione originaria, che riguarda il tema della crisi del linguaggio e della rappresentazione ereditato direttamente da Schopenhauer e Nietzsche. L’irrappresentabilità e la sospensione del tragico di cui Carmelo parlava sono le conseguenze di una articolata riflessione intorno all’opera di questi filosofi e, ovviamente, a quella di Giorgio Colli. Ed è questo a segnare tutto il suo lavoro, in ogni sua indagine sui diversi linguaggi che ha frequentato, dal cinema alla musica, dalla televisione al teatro. Credo che questa sia la parte del suo lavoro con cui sia importante portare avanti un confronto. Non mi interessava addentrarmi nella biografia, nei suoi conflitti con la critica, nel suo rapporto piuttosto complicato con le istituzioni e il sistema teatro dell’epoca. Deleuze scrive che il teatro di Carmelo è “una forza non rappresentativa sempre instabile”. Ecco, mi sembra una sintesi perfetta con cui fare i conti.
Venendo al film, questo non delle opere parla in prevalenza ma piuttosto di quello che rimane, tra provocazione e disagio, del volto pubblico di Carmelo Bene, quasi fosse exemplum della difficoltà di proporre una nuova idea di teatro, quasi fosse un Artaud che mai ha smesso di combattere. Cosa volevi leggere in tutto questo?
La sua idea di teatro e di arte si innestava in un dibattito che, salvo rare eccezioni, si è sempre occupato di tutt’altro. Ma in realtà era un’idea che aveva origini antiche, già in quella Grecia presocratica che ha visto nascere il teatro. In questo senso il teatro diventa l’espressione di una dimensione interiore che rimane irriducibile proprio per la sua indecifrabilità. È una condizione paradossale che può condurre alla sospensione di ogni pratica, o a tentativi sempre più al limite di figurare questo paradosso. Come racconta la vita di Artaud, spesso citato, e non a caso, da Carmelo. La critica non aveva, e spesso non ha, strumenti per occuparsi di questo. Carmelo invocava la presenza di un pubblico di esteti, che rinunciassero alla critica, al giudizio. Riprendeva alla lettera Nietzsche, in questo caso, ma anche Baudelaire, Wilde. Era una provocazione, certo, ma non fine a se stessa. Era un modo per proteggere la sua arte. E per metterne in evidenza le differenze rispetto ai suoi, diciamo così, colleghi. E sono differenze capitali, che non dovrebbero consentire curiosi e ambigui accostamenti. Con i colleghi del suo tempo e con i colleghi di oggi.
Un'ultima domanda. Linguisticamente e sintatticamente il tuo appare più un film sull'oggi che sul, pur ancora recente, passato. Quanto di tutto questo rimarrà nelle prossime intenzioni creative, tue e del Teatro Akropolis?
Rimarrà tutto, perché quanto emerge da questo film rappresenta il nucleo di ogni azione di Teatro Akropolis. Per il ciclo La parte maledetta abbiamo realizzato cinque film. E in ognuno, attraverso le parole di artisti e filosofi, abbiamo provato a mettere a fuoco quei temi che ci ispirano e che abbiamo riconosciuto, studiato e approfondito anche nel lavoro di altri. Non sono quindi propriamente dei ritratti, anche se ogni film scava piuttosto a fondo nella personalità dei protagonisti. Un ritratto inchioda il soggetto in un momento preciso. La parte maledetta invece non è negoziabile, non può essere condizionata dal mercato, dipende solo da se stessa e non si inserisce in un tempo definito. È il fondamento della ricerca. E poi certe cose non sono destinate a risolversi, ma a mantenere la loro natura di domanda. A segnare i momenti di un cammino.
Sono stati anni di impegno, e spesso di difficoltà, ma oggi Teatro Akropolis è una realtà conosciuta e apprezzata ad ogni livello e ha consolidato la sua presenza negli spazi di un teatro recentemente ristrutturato in una periferia ricca di fermenti. Dopo una lunga condivisione con il cofondatore David Beronio, che ora ha scelto una strada diversa, Clemente Tafuri ne è il Direttore Artistico, il drammaturgo e il regista.