Attrice versatile e raffinata, dall’affascinante aspetto mediterraneo, la catanese Donatella Finocchiaro inizia relativamente tardi la sua carriera nel mondo dello spettacolo, prima alternando gli studi di Giurisprudenza a diversi corsi teatrali, poi laureandosi, e in seguito frequentando la scuola del Teatro Stabile di Catania, con una breve parentesi all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, di Roma. Per breve tempo alterna la pratica avvocatizia e quella teatrale fino a che un provino per il film Angela, di Roberta Torre la fa debuttare sul grande schermo e le fa vincere diversi premi, e cominciare una nuova carriera. Molto cinema (con Andò, Bellocchio, Battiato, Emma Dante) ma anche tanto teatro, su cui nel frattempo si è formata. Sul palcoscenico alterna sfide importanti recitando più volte a Siracusa, e lavorando con Luca Ronconi, Pressburger, Gigi Dall’Aglio, Missiroli, Martone. Ha appena terminato Thérèse, di Stefano Ricci da Emile Zola, una produzione Teatro Biondo di Palermo, spettacolo dal forte impatto emotivo. La incontriamo subito dopo l’ultima replica, a Bassano del Grappa, dove ha terminato la locale stagione teatrale.
Ci racconti un po’ di Thèrèse, questo tuo ultimo spettacolo?
E’ stata per me un’avventura, non avevo mai fatto questo tipo di teatro contemporaneo; da luglio del 2024 ho cominciato ad allenarmi, ad essere pronta fisicamente per questa prova decisamente fisica, ho voluto essere molto attenta nella preparazione. Durante le prove abbiamo fatto tutti tre ore di allenamento al giorno con il coreografo Stellario Di Blasi, un lavoro incredibile, atletico. Poi il lavoro drammaturgico con Stefano Ricci, per il personaggio e il suo sdoppiamento di personalità, Donatella e Thérèse. Un continuo passare da una all’altra e ritorno, chiedendosi come sia possibile affrontare un’assassina che, però, viene poi distrutta dal senso di colpa, una donna che non riesce a elaborare il suo lutto omicidiario, che è causa sua. Che non ha fermato. Uno scaricarsi di colpe per non assumersi la responsabilità.
Spettacolo tratto da Thérèse Raquin, di Emile Zola, che già nei primi anni in cui fu rappresentato fece discutere…
Esatto, e creando molto scalpore. Fu molto criticato, osteggiato, si parlò addirittura di pornografia all’epoca, di qualcosa che andava troppo oltre.
Lo riporterete in scena la prossima stagione?
Per adesso non si sa, mi auguro di sì di portarlo almeno a Milano, Roma, Torino. Lo spero, perché questo testo è geniale, Stefano Ricci ha una scrittura poetica, il suo modo di scrivere lavora molto per immagini. E’ stato difficile per noi attori, spesso mancava un filo logico nel racconto, ma piano piano ci siamo entrati, come il pubblico, che è sempre uscito da ciò che aveva visto molto preso emozionalmente dal nostro racconto. Credo che siamo riusciti a unire la parola, l’immagine, il lavoro fisico. Un lavoro complesso ma anche molto completo, secondo me. E una sfida vera già in partenza.
Ti piace alternare teatro e cinema…
Solitamente sì. L’ultima volta fu con La lupa, dove ero anche regista l’abbiamo portato un po’ in giro anche se sempre con grande difficoltà produttive, ormai il teatro funziona così perché far girare gli spettacoli è un delirio, costa troppo e il teatro non ha più le sovvenzioni di anni fa. E’ un settore in crisi ed è più semplice fare del cinema o le famose serie televisive. Ma, personalmente, dopo un po’ mi manca il contatto col pubblico, e dunque voglio tornare sul palco: è sempre il primo linguaggio con cui mi sono espressa artisticamente, per cui mi piace molto.
Quali aspetti del teatro ti piacciono maggiormente?
Tutto: il periodo di prove, il crescere dentro i personaggi studiandoli, la stessa performance quotidiana, essere in scena ogni sera a contatto con le persone. Ovviamente è tre volte più faticoso di fare cinema o tv, ma quando torno a teatro vengo ricambiata da tutte queste cose, dal pubblico. Non riesco a non farlo, è proprio una mia grande passione, un grande amore.
Come è nata questa passione, come si è sviluppata in una città come Catania?
Ho iniziato, si potrebbe, dire quasi per hobby, frequentavo Giurisprudenza all’università e la cosa non mi gratificava emozionalmente così tanto. Avevo l’abbonamento a teatro e da spettatrice ero proprio assetata, mi vedevo allo Stabile grandi attori come Turi Ferro, Ida Carrara, Tuccio Musumeci, Pippo Pattavina, i comici catanesi, la nostra commedia dell’arte dove abbiamo una grande tradizione. Sono cresciuta con questo teatro e mi incuriosii, mi appassionai tanto da voler provare a farlo. Avevo 24 anni e voglia di sentirmi più viva. Una mia amica, poi, mi convince a fare il provino per l’Accademia d’Arte Drammatica a Roma. In quei laboratori mi davano sempre la parte della protagonista e mi stavo convincendo che avrei potuto farlo sul serio il lavoro dell’attrice. All’Accademia Silvio D’amico ho passato solo la prima selezione, ma poi sono entrata alla Scuola dello Stabile di Catania e dopo la laurea ho intrapreso questo percorso. Fino poi al film Angela, di Roberta Torre, con cui ho debuttato sul grande schermo. Era il 2001.
Un inizio folgorante, già in alternanza tra teatro e cinema, lavorando con dei nomi importanti. Qualcuno da cui vorresti essere diretta ora?
Sì, già col primo film sono stata al Festival di Cannes, da protagonista, fu un esordio davvero straordinario. E ci furono dei bei premi, tra cui quello al Festival di Tokio dove fui premiata da Luc Besson. Registi da cui mi piacerebbe essere diretta ce ne sono tanti: da Matteo Garrone, che è il mio idolo, a Paolo Sorrentino o i fratelli D’Innocenzo, che adoro. Mi piace anche Gabriele Mainetti e poi ce ne sono ancora tanti. Speriamo di trovare sempre dei bei ruoli perché per le donne ce ne sono sempre meno.
Il tuo punto di vista sulla situazione teatrale, oggi, in Italia?
E’ drammatica, a mio avviso. Ho molti amici produttori che fanno una grande fatica a fare il loro mestiere, non arrivano finanziamenti, è tutto bloccato. In Sicilia ancora più che al Nord, ma anche a Roma, certo. Ci sono grosse difficoltà di andare avanti. E al cinema uguale, con la storia del tax credit c’è stato un fermo biologico importante, di quasi otto, nove mesi che ha mandato in crisi il settore, soprattutto le maestranze. Elettricisti, macchinisti, truccatori, tutta gente con famiglia che non ha lavorato per molto tempo. Una situazione davvero drammatica di cui nessuno ha parlato però. Sì, c’è stata qualche manifestazione, ma sempre troppo poco.
La cultura, l’arte, non viene tanto calcolata in Italia?
L’arte viene messa proprio da parte, come lo stesso proverbio dice. Viene sempre vista come una cosa dove i tagli sono i primi da farsi, in periodi di crisi, lo spettacolo è il primo settore su cui intervenire, così il nutrimento dell’anima se ne va al diavolo. L’Italia è questa, ed è questo il clima che c’è, la cultura viene considerata un di più.
Come spettatrice, invece, cosa vedi?
Alla televisione, ad esempio, non sono una delle divoratrici di serie, mi devono proprio appassionare. In generale comunque mi piace molto il thriller, che non viene fatto poi tanto da nessuna parte, in Italia non si sa fare, a parte, forse, solo Cosimo Gomez, e poi sempre i fratelli D’Innocenzo, che hanno questa dote. Mi piace anche l’indagine psicologica sui personaggi, del resto è bello sorprendersi, rimanere affascinati.
Qualcuno a cui devi dire grazie?
Ce ne sono molti, oltre al fatto che bisogna avere fortuna e talento alla base. Intanto ringrazio la regista Roberta Torre, la mia mamma artistica, e poi dico grazie a Marco Bellocchio, a Franco Battiato con cui ho fatto il suo primo film Perdutoamor, a Edoardo Winspeare per Galantuomini, a Emanuele Crialese per Terraferma. Ne devo dire una marea di grazie. In teatro, a Luca Ronconi, e a tutti i registi che mi hanno scelto. Anzi, ti ringrazio per farmi ringraziare tutti quelli che mi hanno fatto lavorare con loro, che sono una parte fondamentale del mio percorso artistico, dove c’è una traccia di ognuno. Anime belle.
Essere attrice oggi che significa?
Guarda, proprio Stefano Ricci con Thérèse mi ha fatto entrare in crisi sul lavoro dell’attore, dicendo in quel testo delle cose belle crude, parole che mi sono rimaste dentro. Come questa frase che ogni sera in scena recitavo. Io, imprigionata anche io, fossile da ammirare. Io, un costume corazza, capelli mai domati, parole ripetute un milione di volte, occhi che mi fissano a galla su un legno, sepolta viva in questa bottega inutile. Io credo tanto invece al valore artistico del mio lavoro, credo che siamo portatori di bellezza, di arte. Lo spettacolo non è solo divertimento, passatempo, credo al valore supremo del nostro lavoro e mi dà una ragione di vita importante. Dico sempre a mia figlia, quando parto e sto fuori, che deve essere felice di avere una mamma contenta di dover partire e di fare quello che fa. Se avesse avuto una mamma triste che magari doveva andare a fare un lavoro che non le piaceva ne avrebbe risentito anche lei. Credo che l’artista, l’attore, l’attrice, siano portatori di un messaggio alto, di un valore assoluto.
Un lavoro privilegiato, il vostro?
Lo è, ma non solo, è anche molto faticoso, tutte le sere devi mettere in scene parti di te, svuotarti tanto. Amo gli attori che usano solo la tecnica, mentre io sono un’attrice di pancia, emotiva e spesso mi succede di emozionarmi, anche di piangere. Noi attori trasportiamo un messaggio importante, quello dell’emozione, e dell’emozionare gli altri, quando siamo su un palcoscenico. Riuscire a vedere che la gente ride, o piange, è una cosa importantissima e questo rientra anche su quello che oggi è l’educazione emozionale, sentimentale dei ragazzi che vediamo spesso invece non riuscire a esprimere le proprie, di emozioni, diventando rabbiosi, violenti, possessivi. L’idea di insegnare agli altri a fare uscire le emozioni inoltre è secondo me molto importante in questo periodo storico.
Ultima cosa: i tuoi prossimi progetti?
A brevissimo, l’8 maggio, uscirà il film su Rosa Balistreri, L’amore che ho, diretto da Paolo Licata. Una pellicola potentissima sulla vita della nostra cantantessa popolare che ha portato il canto siciliano in tutto il mondo. Racconto lei nel suo momento di splendore. Tutti i siciliani hanno amato molto Rosa, e Carmen Consoli ha avuto la capacità di fare cantare me, Anita Pomario, che interpreta Balistreri da giovane e Lucia Sardo, con le nostre voci, reinterpretando il canto della Balistreri che era il canto degli emarginati, delle persone messe da parte. Il suo era un canto politico, femminista, ante litteram, ha sempre preso le difese dei poveri, degli emarginati, contro il potere, la chiesa. Una grande donna.
Altro?
Devo girare un nuovo film ma non dico niente per scaramanzia, un film bello, importante e questo mi rende molto felice. Inizierà tra giugno e luglio. Poi a settembre ho un’altra cosa, e per il teatro ho delle proposte che sto valutando. Insomma, non mi posso lamentare. C’è anche un altro film che deve uscire, non so quando, s’intitola Dieci giorni e ha la regia di Elisa Amoruso, una regista veramente brava che ha diretto anche la serie The Good Mothers.
Francesco Bettin