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Carlo GOLDONI - Arlecchino servitore di due padroni, regia Giorgio Strehler

Piccolo Teatro
regia Giorgio Strehler
scene e costumi Ezio Frigerio
con Ferruccio Soleri, Gianrico Tedeschi, Andrea Matteuzzi, Gianfranco Mauri, Marisa Minelli, Anna Saia, Ginella Bertacchi, Franco Graziosi, Giancarlo Dettori musiche di Fiorenzo Carpi
La Notte, 26 giugno 1973

Mille e non più mille. Evidentemente la catastrofica previsione ha fatto cilecca anche questa volta. In vent'anni di passeggiate per il mondo, il Servitore di due padroni, bandiera del Piccolo Teatro, ha accumulato 1065 repliche e milioni di applausi, in tre successive edizioni. Con la numero 1066, raggiunto dalla rappresentazion dell'altra sera nel giardino della Villa Comunale, ad apertura della cosiddetta "Estate d'arte '73", si inaugura, adesso, la quarte edizione, e si ricomincia il vagabondaggio.

Tutto bene, anzi benissimo. E siccome ogni benemerenza e ogni soddisfazione, ahimè, debbono essere pagate, così, risultati spettacolari a parte, questa volta, il prezzo è stato, e sarà, che Goldoni continuerà a venir conosciuto e propagandato all'estero per il contrario di quello che fu, vale a dire come campione della Commedia dell'Arte, combattuta vita natural durante: un fratello gemello, insomma, dell'impoetico Carlo Gozzi, buonanima, oltre confine, stimatissimo per le sue balordaggini. Del resto, non è colpa di nessuno, l'equivoco culturale era inevitabile. Fossero stati diffusi per il mondo: Gl'innamorati, Le baruffe chiozzotte; quella Trilogia della villeggiatura, esito finora insuperato e indimenticabile dell'attività del Piccolo, sbolliti gli occasionali entusiasmi di una sera, non avrebbero lasciato segno o quasi. Così è. All'estero, poi, vogliono solo Commedia dell'Arte e canzonette napoletane: il resto lo considerano abusivo o poco meno. E manco male che ci concedono ancora la gloria del melodramma, alla resa dei conti nostro unico, vero, originale, grande teatro nazionale popolare. Essi ci stordiscono a colpi di Shakespeare, di Racine, di Corbeille e compagnia bella, e noi rispondiamo a bastonate di Verdi, Rossini, Donizetti, Bellini: i nostri "elisabettiani", il conto torna e ne avanza.

Nel 1745, Goldoni aveva trentun'anni, stava a Pisa e, sempre con la lue del teatro nel sangue, tenuta a freno ma non doma, faceva l'avvocato. A suggerirgli la trama della commedia, anzi a fornirgliene addirittura titolo e argomento – in realtà, a indurlo ad appropriarsi alla lettera uno "scenario" francese – fu il famoso Truffaldino Antonio Sacchi che, col titolo, appunto, di Truffaldino, servitore di due padroni, ne fu il primo degli innumerevoli interpreti successivi. In origine, salvo alcune pochissime parti serie scritte, essa fu quasi completamente a soggetto, abbandonata, come d'uso, agli estri, agli umori, alle intemperanze, alle scurrilità, alle acrobazie, all'aggressiva improvvisazione degli interpreti; venne estesamente dialogata solo in seguito, in occasione della pubblicazione in volume. Per le ragioni di cui sopra, fece ben presto furore; specie all'estero, e in particolar modo nei paesi tedeschi, dove il solo termine "Commedia dell'Arte" ha notoriamente la facoltà di far cadere in deliquio. Dodici traduzioni germaniche sulla trentina e passa nelle più svariate lingue.

Cominciò nientemeno Gothe nel di cui teatro, a Weimar, ebbe l'inusitato onore di diciannove repliche filate; e settanta ne contò a Berlino tra il 1794 e il 1837. Il Grimm non ebbe il pudore di pronunciare la parola capolavoro. E nel suo genere, bisogna riconoscere che lo è. L'accelerazione precipitosa, il vitalistico dinamismo dell'intrigo, tanto più naturale quanto più inverosimile, tanto più lineare quanto più aggrovigliato, tanto più chiaro quanto più oscuro, è un miracolo: gioco gratuito, fantasmagorica féerie, teatro puro, svincolato dalla benché minima remora di psicologia, di verosimiglianza, di corenza logica, una metafisica dimensione autonoma e autosufficiente, surreale magia – e poi si aspetta al 1950 per scoprire il teatro dell'assurdo! –. Più che comprensibili, dunque, anche in epoca contemporanea, la famosa regia, stilizzato arabesco ballettistico, di Max Reinhardt per la interpretazione di Hermann Thiming Arlecchino leggendario; nonché i diciotto mesi di repliche dell'ultima, e ultima non rimarrà, edizione russa, a Leningrado, e ciò vada a parziale risarcimento consolatorio per la misconoscenza in cui tengono il vero Goldoni.

Incanto di Arlecchino, colto al volo, nel momento di grazia del suo mistero: la stupefazione, il compiacimento, l'esultanza narcisistica alla scoperta di sé stesso, rivelato dall'imprevedibilità, dalla grandeggiante progressività del proprio gioco liberatorio; incorporeo, aereo pur nella terrena concretezza plebea: puro folle dall'inventiva inesauribile, sempre risorgente – soldato Schweyck in anticipo, esempio – perché pungolato dall'elementare, insopprimibile istinto della sopravvivenza: fame, paura e diuturna guerra difensiva contro l'universale sopraffazione, spine quotidiane del pratico operare che assedia, da sempre, il derelitto.

E ciononostante, poi uno rincasa, sfila dallo scaffale della libreria un volume, lo apre a una pagina nota e comincia a leggere: "I rusteghi, atto primo, scena prima: Siora mare... - Zia mia... - Deboto xe fenio carneval...". La vita!

Son state tre ore di divertimento catartico, a ruota libera, a mente disinfestata. Disintellettuatizzatosi, sculturizzatosi, sproblematizzatosi per l'occasione, Giorgio Strehler è entrato nell' "innocenza" della commedia da inarrivabile animale da teatro, resuscitando l'immortale spirito della farsa che la anima. Mai assistito a niente di più pignolescamente calcolato che sembrasse più inattesamente improvvisato; tutto è parso nascere lì per lì, sul momento, per generazione spontanea. Affidata, come a un tapis roulant, all'incalzare di un tempo regolato al cronometro e di un tono che non cede d'un soffio, un'inesauribile cascata di lazzi mimici, fonici, acrobatici, tradizionali e inediti, tutti pertinenti, s'è rovesciata sulla platea beatificandola in un lavacro di risate. È stato un trionfo della fantasia allo stato di fanciullesca genuinità.

Beninteso, strumento primeggiante a tal rasserenante risultato non poteva non essere Ferruccio Soleri, Arlecchino infaticabile, tutto punte spiritose e geometriche funambolerie. Potesse, il suo riso, contare su un pizzico di follia, la sua interpretazione sarebbe memorabile. I due enormi lazzi, quello dei due pasti serviti contemporaneamente e quello dei bauli, culmini dello spettacolo, hanno suscitato entusiasmo. Superiori a ogni lode le altre maschere: l'esagitato Pantalone gagliardamente senescente di Gianrico Tedeschi, lo spettacoloso e spropositante Dottore di Andrea Matteuzzi, il lepido Brighella, appropriatasi la balbuzie di Tartaglia, di Gianfranco Mauri, la guizzante e petulante Smeraldina di Marisa Minelli. In varia guisa frenetici, gli innamorati: la disperatissima Anna Saia, affascinante in vesti maschili, la smaniante Ginella Bertacchi, il furioso Franco Graziosi e il nevrastenico Giancarlo Dettori. Essi hanno assolto, con umoristica eleganza, anche il compito di cantare, palesando le citazioni di opera buffa che il regista, con la collaborazione dell'inevitabie Fiorenzo Carpi, ha voluto opportunissimamente insinuare, a testimonianza di una non occasionale parentela tra Commedia al'Improvviso e melodramma comico. Scena e costumi erano dell'altrettanto inevitabile e altrettanto insostituibile Ezio Frigerio: da far tenerezza, nella sua cialtronesca pittoricità, il quadro delle carrette e del primitivo palcoscenicuccio di quei poveri vagabondi attori-saltimbanchi.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 00:28
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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