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Corriere Lombardo, 10 febbraio 1954

Buon Dio! siamo alle solite. Ci voleva proprio la modernissima civiltà americana per rimettere in circolazione sotto il fiammante marchio di Broadway il vecchio naturalismo col quale Zola e Antoine spaventarono i buoni borghesi della Parigi di settant'anni fa. Oh, America America, quante cose venerande si rispolverano come nuovissime in tuo nome!

Considerato che si sono messi a scoprirci, lasciamoci scoprire. Si verifica press'a poco, oggi, ciò che accadde, un tempo, alla vinta Grecia nei riguardi della tracotante Roma. Per il vecchio mondo, al quale ci vantiamo di appartenere e a cui nemmeno un premio Pulitzer ci potrebbe far rinunciare, è questa una soddisfazione segreta non priva di vendicativa malizia. Anche perché è assai difficile farcela in cose del genere. Teniamocela fra noi: sappiamo benissimo che, nove volte su dieci, il verismo polemico e fracassone degli americani, per quanto ammantato di istanze sociali e magari appesantito di problemi razziali, altro non è che un romanticismo mal digerito. Si comincia con la tranche de vie e si finisce per commemorare il chiaro di luna o per intenerirsi sulla neve che cade e "come un bianco tappeto ammanta la città". Tragico quotidiano, aneliti alla redenzione, sogni candidi lievitanti dai cuori umiliati ed offesi e nostalgia di campane. Una buona metà delle canzonette napoletane non parla d'altro. Abbiamo fatto una tale indigestione di gigli nel letamaio che non ci vuole meno della cara, vecchia, scettica, e tanto civile ed educata ipocrisia europea per deglutirne degli altri con la buona grazia necessaria a non dare un dispiacere ai nostri nuovi e ottimistici amici. Il Patto atlantico vale bene un sorriso.

Vi sto parlando, come avrete già capito, della famosa Anna Lucasta finalmente giunta – ma non c'era fretta – anche sui nostri palcoscenici, dopo tanto parlarne in seguito agli osanna della critica newyorchese, ai due anni e passa di repliche a Broadway, e agli agenti pubblicitari indigeni in perfetta buona fede, che ce ne hanno riempito la testa da quando cominciò a circolare la voce che Luchino Visconti l'avrebbe messa in scena, ma poi non ce la mise. La cosa è andata così. Una quindicina di anni fa, prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, il trentenne Philip Yordan, giovanotto di belle speranze, nativo di Chicago, in possesso di una laurea in legge e deciso a far carriera nel teatro, cominciò a battere alla porta di numerosi produttori teatrali con un copione dal titolo Anna Lucasta, senza trovare quell'entusiasmo e quella fretta a cui ogni giovane autore è persuaso di avere diritto. Finalmente ne pescò uno disposto a rischiare l'avventura sulla garanzia di una di quelle trovate correntemente definite geniali. Tutti i personaggi della commedia erano bianchi come me e come voi. Facciamola recitare, disse l'intraprendente manager, da attori neri. Il problema negro fa moderno, umanitario e progressista.

Fu così che la mattina dopo, la critica drammatica newyorchese proclamò all'unanimità che finalmente era apparsa una commedia negra "vera" ed umana, senza i soliti luoghi comuni, le forzature ambientali e la convenzionale caratterologia mistico-barbarica che accompagnano i nostri bui fratelli di Brooklyn candidati ai pascoli del cielo; e dove, anzi, i poveri negri, nei loro splendori e nelle loro miserie, figuravano, tali e quali, come i bianchi. Nacque così, e varcò l'oceano, il "caso" di Anna Lucasta ragazza perduta dal cuor di colomba benché con piume di corvo.

Ieri sera i negri non c'erano. Gli attori della Compagnia Calindri-Zoppelli-Valeri-Volpi-Riva, che, oltre ad essere così bravi possiedono anche un provvidenziale buonsenso, hanno giudicato di pessimo gusto impiastricciarsi la faccia e hanno deciso di recitare la commedia come era stata scritta. Il problema della gente di colore è dileguato senza il bisogno di mutare una virgola e tutto è rientrato nei normali limiti di una eloquente e ben costrutta commedia che sa nascondere con calcolata abilità la sua grossa sostanza di romanzo di appendice, spruzzando di moderne arditezze situazioni antiche e personaggi che sono stati vecchie conoscenze europee prima di diventare dei prototipi letterari della giovane America, e contrabbandando come obbiettivo quadro di ambiente – la miserabile famiglia americana sentimentalmente involgarita e moralmente degradata dalla miseria, dal sesso e dall'alcol – la patetica storia della sgualdrina datasi alla professione per disperazione e redenta dall'amore.

Giudicata la carriera percorsa da un secolo a questa parte, non si può dire che di strada non ne abbia fatta Margherita Gautier. Tanta, che il suo odierno avvocato difensore non s'è nemmeno accorto che la sua eroina porta perfino il medesimo nome di battesimo di un'altra Anna, altrettanto nota: "Anna Christie" del povero O'Neill, la quale, a sua volta, altro non è che una Margherita Gautier degli angiporti che anziché sulla clientela della jeunesse dorée conta su quella dei marinai. Per favore, una camelia per Anna Lucasta.

Abbiamo visto così una povera ragazza cacciata brutalmente di casa da un padre ambiguo vagamente edipico ed epilettoidemente svanito, per aver innocentemente commesso – come càpita – il primo fallo a scopo di "evasione" dalla realtà meschina. L'abbiamo vista successivamente recuperata e tolta al marciapiede per loschi interessi di famiglia, nella intenzione di affibbiarla a un giovanotto ingenuo che viene dalla campagna ed è pieno di quattrini. Abbiamo visto nascere il suo amore celeste e disinteressato per il candidato dopo avere scoperto che egli per quanto appassionato e cieco è meno sciocco e rozzo di quanto credevano, anzi tutto il contrario, una specie di Tom Mix dal cuor generoso e dall'anima di fanciullo. Abbiamo assistito al suo ricacciamento nell'onta e nel mercimonio il giorno delle nozze in seguito a una gelosa e quanto mai inopportuna scenata vendicativa del suo deplorevole genitore. E abbiamo avuto, infine, la soddisfazione di sapere che, ad onta di tanti guai, in una notte fredda, quando la neve attutisce il fragore della metropolitana, Anna Lucasta e Tom Mix abbandoneranno la metropoli tentacolare e vivranno uniti e felici e a quest'ora chissà con quanti figli; e una lampada brilla nella notte là nella sterminata prateria.

La commedia, che ha tutti gli ingredienti e le avvedutezze per darla nobilmente ad intendere nel senso di un efficace e aggiornato teatro popolare, ha conseguito un vivo successo anche mercé l'ottima orchestrazione condotta con sincerità, semplicità e verità dal regista Luciano Lucignani nei moduli registici di un Visconti vagamente casalingo, dei quali possono essere indicativi la bella e suggestiva scenografia a disegno bianco e nero e insistente sui trasparenti di Gianni Polidori e i timbrici commenti musicali di Luciano Berio.

Lia Zoppelli ha avuto il gran merito di tagliare alla radice tutta la convenzione e la retorica onde, non parendo, prenda la protagonista, facendone una creatura tenera e fiera ad un tempo; egualmente semplice, netto e gentile il vergine della pampa di Franco Volpi. Se possibile più brave del solito Isabella Riva dai materni candori, e Valeria Valeri che non aveva che due scene e le recitò magistralmente. Un robusto caratterizzatore s'è dimostrato il Pierantoni in gara di abilità col Pandolfini; ottimo il Giacobini e bravi: la Mari, la Sorlisi, il Maestri, il Priaro, il Maresti. Ernesto Calindri, da quell'uomo discreto e finissimo attore che è, alla parte esorbitante di un padre abominevole con tendenze incestuose preferì quella marginale di un simpatico barista amabilmente prossenetico. Una civetteria. Tanto per gradire.

Carlo Terron

Ultima modifica il Martedì, 09 Dicembre 2014 00:11
La Redazione

Questo articolo è stato scritto da uno dei collaboratori di Sipario.it. Se hai suggerimenti o commenti scrivi a comunicazione@sipario.it.

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